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Nasce Alba: un vocabolario nuovo per una storia vecchia

La retorica dei beni comuni alla radice di questo “vecchio” soggetto politico

(24 Maggio 2012)

A cavallo tra questo e lo scorso mese è apparso, sulla scena politica dei movimenti italiani, un soggetto politico ribattezzato Alba (Alleanza lavoro beni comuni ambiente), conosciuto anche come “Nuovo soggetto politico”, dove in realtà il “nuovo” non è altro che il rimescolare noioso di termini tanto confusi quanto improbabili che in questo periodo tendono ad egemonizzare il vocabolario di quasi tutta la sinistra di movimento in Italia. Parole come “beni comuni”, “inclusione”, “partecipazione democratica” suonano come slogan vuoti e melensi soprattutto in bocca ai soliti decrepiti professori di sinistra. Intellettuali accademici come Stefano Rodotà, Luciano Gallino, Guido Viale, Paul Ginsborg e Paolo Cacciari, figurano tra i primi firmatari di questo ennesimo manifesto che si perde a metà strada tra la poesia e la politica, i buoni sentimenti e le astratte istanze progressiste (secondo uno stile che ha avuto in Vendola il suo capostipite ufficiale). Il primo incontro del movimento si è avuto a Firenze lo scorso 28 aprile, a cui è seguito un secondo meeting il 17 maggio. Tra gli illustri presenti anche Paolo Ferrero di Rifondazione Comunista, in cerca di una vetrina mediatica per le sempre più aride prospettive del suo piccolo partito burocratico (soprattutto all’indomani dell’ennesima batosta avuta alle elezioni amministrative). Ma per capire meglio il “vocabolario” di Alba è utile addentrarsi nel manifesto politico, a tal proposito molto significativo.

La favola della “società civile”

Il primo elemento che si nota è la totale assenza di un chiaro punto di vista di classe. Una pratica a cui ci siamo abituati negli ultimi anni è quella dell’appianamento ideologico delle differenze sociali che si trasmette anche con la costruzione di vuote e insulse contrapposizioni: la società civile (fatta di cittadini, lavoratori e imprenditori onesti) contro la società istituzionale (che si identifica negli interessi di Palazzo); il principio di inclusione contro quello di esclusività; la democrazia partecipativa contro quella rappresentativa. Sono dicotomie in realtà prive di senso nella misura in cui prescindono totalmente dall’elemento fondamentale: la realtà di una società divisa in classi, in cui una minoranza di sfruttatori opprime e sottomette la maggioranza dei lavoratori e dei giovani. Ma andiamo con ordine: prima tratteremo del presupposto economico dell’ideologia dei beni comuni, poi delle forme politiche in cui si esprime.

Ritorno al passato: la favola del piccolo capitalismo buono

La questione economica nel manifesto si risolve in un modello di società di “microproduttori” che ruota intorno al concetto di “comune”, inteso come potere “locale” che partecipa (e non sovverte) il potere “istituzionale”. La parola d’ordine di una “Rete dei comuni per i beni comuni” suona molto come un ritorno in chiave reazionaria del pensiero proudhoniano, e ha molte affinità anche con la teoria della decrescita di Latouche. Il nocciolo della questione sta nel poter pensare di fermare la locomotiva della storia, di far tornare indietro le lancette del tempo, per ritornare ad una economia a carattere piccolo-borghese in cui le contraddizioni del capitale siano minime e attutite. L’elemento fortemente reazionario di questa visione sta nell’eliminare la categoria della “contraddizione” che si esprime materialmente nella lotta di classe. Questo porta ad una posizione evidentemente interclassista, in cui piuttosto che il demarcarsi rispetto ai programmi borghesi sotto il vessillo dell’indipendenza di classe, si preferisce “includere” l’impossibile, appianare le differenze inconciliabili, solidarizzare pacificamente piuttosto che armarsi per il conflitto. Si delinea, quindi, l’orizzonte utopico di un capitalismo senza borghesia, un capitalismo senza privilegi e divisioni, un capitalismo senza sfruttamento e lotta di classe, un capitalismo “buono” che si oppone a quello tossico e cattivo (neoliberista). Un capitalismo utopico che tutela i beni comuni: è questa la visione fortemente reazionaria e inibitoria che passa attraverso la retorica “bene-comunista”. Non a caso nel manifesto si critica fortemente la nozione di “realismo politico” sostituita da un remix fantasioso di immaginazione al potere, decentramento e retorica post-sessantottina. Il realismo della critica marxista invece ci scrolla di dosso le illusioni e ci mostra chiaramente che le cose vanno in tutt’altro modo, che il capitale tende irreversibilmente a realizzare il suo concetto, vale a dire privatizzare il mondo e renderlo terreno di accumulazione e profitti e che questo movimento autoreferenziale si pone in netta contraddizione con la pauperizzazione crescente delle masse popolari e la proletarizzazione progressiva di ampie fasce della piccola-borghesia. E’ un fatto, tanto più evidente oggi di quanto non lo fosse all’epoca in cui Marx ne parlava.

La politica del “cittadino”: le conseguenze pratiche sotto le coperture ideologiche

Ma è sul versante politico che questi presupposti piccolo-borghesi trovano compiuta espressione. Molte sono le grandi mistificazioni presenti nella proposta del “Nuovo soggetto”. La prima è il “cittadinismo”, ideologia che identifica l’agente del cambiamento nella figura astratta del “cittadino” (che sta al cuore anche del “grillismo”): “...un gruppo sempre più grande di cittadini (donne ed uomini) qualificati, informati e attivi”. Ma il cittadino in realtà non è mai esistito: si tratta di una parola interclassista che maschera la dipendenza economica e la schiavitù salariale. Il concetto di “cittadino” per poter essere reale, e non una chimera ideale, dev’essere inseparabile dal concetto di “eguaglianza” (economica e sociale). Di conseguenza, dal momento in cui viviamo in una società divisa in classi, anche la figura del “cittadino”, propriamente parlando, non esiste. Cittadini possono essere sia un operaio super sfruttato e sottopagato, sia un Marchionne che con i soldi pubblici “delocalizza” e licenzia centinaia di lavoratori. Il paradosso è che accanto a questo “unitarismo” ideologico, nella pratica politica si afferma poi un fastidioso localismo, figlio di quel’ alter mondialismo che dieci anni fa aveva egemonizzato il movimento No-global: il famoso slogan "think globalglobal, act local” si traduce in un movimento frammentato e spontaneista, in cui le specifiche forme di lotta e di resistenza, decentrate e isolate, finiscono con il prevalere su ogni prospettiva di cambiamento globale del sistema capitalista. Non a caso non si affronta minimamente la questione del potere: il Nuovo soggetto politico riduce la sua finta opposizione alla Troika e al governo Monti a una proposta di una fantomatica “Carta Europea dei Beni comuni (…) da sottoporre alla Commissione Europea ai sensi del Trattato di Lisbona e del reg. UE n.211/2001”. Come si vede non si ha la minima intenzione di mettere in discussione l’Unione Europea in quanto tale, cioè in quanto strumento nelle mani dell’asse imperialista Francia-Germania finalizzato all’instaurazione di rapporti di neocolonialismo (Grecia) o semi-dipendenza (Italia) all’interno dello stesso continente europeo. Così come non si mette in discussione la sacra Repubblica Italiana e la sua “democratica” Costituzione (con cui si sono svendute le lotte operaie della Resistenza). In ultima analisi il programma dei beni comuni trova le sue legittimazioni teoriche in degni teorici liberali come John Stuart Mill e Carlo Cattaneo, esprimendo dunque una cultura liberale preponderante rispetto a qualunque reale prospettiva di cambiamento sociale radicale.

Altroché beni comuni! Un partito rivoluzionario per rovesciare il capitalismo!

Appare chiaramente, dunque, come non sia questa nuova ed ennesima riproposizione della politica riformista a poter realmente rappresentare gli interessi della classe lavoratrice, gli interessi dei precari e degli operai, degli studenti e degli immigrati, che vivono con sempre maggior durezza le condizioni di crisi che ci sono imposte dal governo Monti e dall’imperialismo europeo. Non è di una illusoria società fondata sui beni comuni che hanno bisogno i lavoratori italiani e di tutto il mondo, ma di una rivoluzione che possa rovesciare il capitalismo e instaurare un governo dei lavoratori per i lavoratori, in cui il potere sia gestito da chi ne ha più diritto, e non da coloro che ci hanno portato in questa crisi epocale. Abbiamo bisogno di socialismo, di un’economia pianificata in direzione dei bisogni della stragrande maggioranza della popolazione, e non secondo l’interesse dei mercati finanziari. Per questo l’unico vero agente di cambiamento oggi è rappresentato ancora dalla classe lavoratrice, che dev’essere però egemonizzata da un partito coerentemente rivoluzionario, centralista e democratico. Una direzione consapevole che miri ad unire le masse in lotta e a smascherare i programmi di falsa emancipazione che si presentano come farmaci illusori per un sistema che non può essere curato, ma solamente abbattuto.

maggio 2012

Adriano Lotito - PdAC

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