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(14 Novembre 2010) Enzo Apicella

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Il Processo.

Mondocane fuorilinea (22/6/04) di Fulvio Grimaldi

(27 Giugno 2004)

Kafka non c’entra. Anzi, c’entra: quelli che stanno di qua, come l’infelice signor K., o come Pinocchio davanti al giudice del paese di Acchiappacitrulli, non hanno la benché minima speranza di sfangarla.

Né di Venere né di Marte non si sposa e non si parte. Per i processi, tuttavia, ogni giorno è buono. Ce lo confermano Carla del Ponte e Giuseppe Stalin. Ma anche Rosangela Mura, che presiede il tribunale del partito, chiamato umanitariamente “Collegio di Garanzia”. Vogliamo o no essere, oltrechè garantisti, garantiti? Non è per essere garantiti che conduciamo epiche lotte da almeno un secolo? Giustamente anche i capi di un partito hanno diritto a essere garantiti. Per loro l’articolo 18 deve essere come il bambù per i Panda. Infatti sono molti più di quindici, mentre noi irriverenti non arriviamo ai quattro gatti. E così, disciplinatamente, proprio un bel martedì è partita la mia incriminazione e mi sono ritrovato, sì, sulla seggiola dell’imputato, però attorno a un tavolo democraticamente tondo, nessuno scranno del giudice, nessuna solenne toga di Pubblico Ministero, come invece in occasione di quei 150 processi per reati di stampa che nel corso del mio sparare inchiostro contro eminenti e notabili mi sono meritato (allora venni peraltro assolto per aver “diffamato” presidenti dell’Enel, delle FFSS, delle FFAA, della mafia, della massoneria, dei governi stragisti, del neofascismo. Oggi, pare, avrei fatto di peggio). Il bunker dei grandi delinquenti, però, c’era. Un’angusta cella premonitrice, senza finestra sull’esterno, ma fiancheggiata da un cupo corridoio, su e giù percorso da Chicca Perugia, nostra segreteria federale. Non mi ha degnato di uno sguardo, ma visto che non lo ha fatto neanche durante dieci giorni in Palestina, dove pur vivevamo, viaggiavamo, pranzavamo e subivamo i gas israeliani fusi gli uni agli altri, e neanche in due anni di riunioni e manifestazioni di partito, ne ho dedotto che non mi conosceva. Del resto, quello di far finta di non conoscersi è pratica statutaria di chi sta nella luce del Signore nei confronti degli infedeli smarriti nell’oscurità) .

Loro erano in tre. Pubblica Accusa. collegio giudicante e giuria, tutto insieme. Altro che la sciagurata e strumentale separazione delle carriere del Bushlusconi, con i magistrati incatenati alla greppia di Previti e azzittiti dalla mordacchia di Cirami-Schifani. Per la verità, nei primi istanti avevo congetturato che uno dei tre sarebbe stato dalla parte del reo, tipo avvocato difensore, quantomeno d’ufficio. Ma non era figura prevista. Forse perché, anziché tre, avrebbero dovuto essere cinque. Magari su cinque, uno, il più scemo, avrebbe dovuto farmi da difensore. Erano peraltro bravissimi, si passavano la palla che neanche Totti, Del Piero, Inzaghi, fedeli al comprovato meccanismo del poliziotto cattivo (uno dell’area dell’Ernesto, la mia!), di quello buono e di quello super partes (due bertinottiani doc, una accorata, uno affilato) che riduce in poltiglia ogni interrogato meglio che Lyndie England ad Abu Ghraib.

Avevamo osato l’inosabile. A una conferenza stampa del segretario nazionale, una messa cantata, ci eravamo presentati, zitti zitti, con uno striscione: “Bertinot-in-my-name”. Guai a me che mi ero fatto incantare dalla quasi wildiana sintesi poetica dell’elaborato. Un verso affettuosamente ironico che faceva riferimento al laboratorio di organismi geneticamente modificati messo su dal biotecnologo di Torino. “Hai leso l’immagine del segretario e del partito!” tuonavano i giudici-giurati-accusatori, e si capiva che intendevano, come suole nelle monarchie assolute, “lesa maestà”. Feci tra me, tanto immodestamente quanto spontaneamente, un raffronto. Mi fulminò l’abisso che si apriva tra questa terrificante accusa e quella presunta “lesa immagine” mia che mi ero azzardato di sospettare allorché un notabile del partito, tale Ramon Mantovani, aveva intimato a chi si era sbilanciato a invitarmi a dibattiti sulla Jugoslavia di evitare tale tentazione, vista la mia indecente opposizione all’indiscutibile (e perciò indiscussa) formula del partito “Né con la Nato, né con Milosevic”; oppure quando l’epigono del Mantovani, uno chiamato addirittura Migliore, aveva proclamato in pubblico che chi, come il sottoscritto, invocava insieme all’incontinente popolo palestinese “Intifada fino alla vittoria”, era da considerarsi antisemita e da cacciare dal partito; o ancora in occasione dei miei reportage da Baghdad sotto le bombe, dopo quarant’anni di mie ottusità mediorientali, che un Curzi-fedele-alla-linea-della-“spirale guerra-terrorismo” seppe bonsaizzare in “letterine al direttore”; o, anche, quando venni cacciato dal giornale su due piedi e neanche uno straccio di art.18, avendo osato di sospettare che quelli che, presi i dollari da Bush e fatto e programmato di fare dirottamenti e terrorismi vari, finalizzati a un’invasione di Cuba, non fossero proprio “dissidenti”, ma piuttosto veri mercenari al soldo del nemico; o, infine, allorché, per spiegare come Santoro andasse difeso alla morte, e Grimaldi, invece, a quella (quanto meno professionale) destinato, sia Bertinotti, sia i suoi due cavalli di razza alla testa di “Liberazione” diffusero su media vari malignità e falsità sul mio conto, senza diritto di replica. No, in quei casi non era “lesa immagine”, come potevo pensarlo: ubi major minor cessat del tutto.

Sospeso sul baratro di questo dubbio, mi riportò sulla retta via il sottile e convincente punto di uno degli inquisitori, uno che il cui nome Franco veniva riscattato dal cognome Guerra, della mia area, particolare che mi colmava di orgoglio. Avevo tentato un patetico depistaggio, da autentico leguleio: “Lo statuto”, avevo opposto, “consente il dissenso e la critica al vertice del partito, anche all’esterno del partito stesso”, tipo conferenze stampa alla Stampa Estera. Niente affatto. Con argomenti inoppugnabili Franco Guerra mi incenerì: “Per esterno al partito – seppe proclamare solenne - s’intendono gli attivi, le assemblee, i dibattiti all’interno dei circoli del partito”. Pofferbacco, il fascio di luce causidica mi annichilì, misero azzeccagarbugli che non ero altro.

La mia colpa era dimostrata in tutta la sua inverecondia. Ma non fu l’unica. Ne avevo fatte di peggio. In uno degli scritti che s’intitolano come questo, avevo presentato due candidature afferenti la Palestina, paese da me frequentato per quarant’anni e dai cui invasori rimediai botte, gassificazioni ed espulsioni. Si trattava, per Rifondazione, della nota Luisa Morgantini, già europarlamentare ultrapacifista, e di Bassam Saleh, compagno di Fatah e presidente della Comunità palestinese, che invece era stato ospitato nelle liste dei Comunisti Italiani. Mi sono assai famigliari, da anni, ambedue, sia per lunghi e preziosi viaggi tra la disperazione palestinese e il razzismo genocida israeliano, con la prima, sia per condivisione di lotte e marce e dibattiti con il secondo, più spesso che no osteggiati dal partito perché privi di candidi gigli sullo striscione d’apertura e bandiere israeliane al vento. Ne feci due ritratti. Essendo veterano, anche se per pochi, nobilissimamente violenti mesi, della lotta dei fedayin tra Giordania, Libano e territori occupati, mi venne qualche apprezzamento poco caloroso nei confronti di un pacifismo integrale predicato sia a Golia che a Davide, pacifismo equanime che però a Davide pare sottrarre la fionda, senza peraltro togliere a Golìa nulla della sua rambesca determinazione di schiacciare i piccolini. Meschino e fazioso: avrei dovuto celebrare con ceri e apologie gli “accordi di Ginevra”, tanto cari a Morgantini, come a tutti i nonviolenti, senza fare concessioni a un Bassam che, intemperante e incontentabile, insieme a 8 milioni di palestinesi, fuori e dentro la loro patria, le carte di Ginevra le appallottolava poiché, ancora una volta, lasciavano nella merda 4 milioni di profughi, negavano confini certi, continuità territoriale, sovranità, difesa, indipendenza economica, politica e militare al popolo espropriato e sterminato. Non solo, pur senza pronunciarmi per l’uno o per l’altro, né dando indicazione di voto alcuna, avrei mosso un’indebita critica all’occhiuta candidata. Occhiuta perché, nel bailamme jugoslavo, tra bombe a tappeto Nato, tagliagole albanesi del Kossovo, pulitori etnici croati, affiliati musulmani Cia di Osama, narcotrafficanti pseudoribelli e pilastri dell’economia statunitense, ONG impegnate in bordelli e traffici di corpi, Morgantini riuscì a individuare il vero pericolo, a inchiodare l’autentico mostro balcanico: i serbi di Milosevic, cioè quasi tutti quanti. E a Podgorica, capitale del regno mafioso del boss Milo Djukanovic, allestì, con le “donne in nero” di Belgrado, componenti di un arcipelago filo-occidentale foraggiato da George Soros (noto killer di economie non obbedienti al FMI e destabilizzatore di socialismi), un tempestivo, opportuno e sacrosanto “Seminario sul fascismo serbo”.

Dissi questo e lasciai libertà di voto. Ahi, il delitto! I guardiani dello Statuto, che impone sostegno degli iscritti alle liste elettorali del partito, percepirono in filigrana, con acume impareggiabile, una mia quasi scoperta simpatia per Bassam e me ne fecero giusta imputazione-amputazione. Obbiettai uggiolando: “Ma sono le liste che vanno sostenute, che c’entrano i candidati, oltretutto indipendenti, mica ho intimato di votare per i cossuttiani. E poi un lettore potrebbe anche simpatizzare con chi invita a dialogare con gli “Abrahms” di Sharon e chi riesce a stanare fascismi serbi che solo Clinton, D’Alema, Hashim Thaci, il PCF e Mantovani sapevano esistere. Pretestuosità, contorcimenti, miserie.

Chinai il capo e l’offersi al boia. A lui la scelta: mannaia o rogo. La Costituzione Europea potrà anche svilire e negare le “radici cristiane” del continente. Quelle, ormai cristianissime, del partito, il Collegio di Garanzia no!

Fulvio Grimaldi

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