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(Memoria e progetto)

PAOLO FAVILLI, In direzione ostinata e contraria. Per una storia di Rifondazione comunista

(1 Giugno 2012)

Prefazione di Paolo Ferrero, Roma, Derive/Approdi, 2011, pp. 258, Euro 20

Non è facile discutere seriamente della vicenda di Rifondazione comunista. Le questioni che si intrecciano relativamente alla sua nascita, al suo sviluppo e al suo declino, riguardano in qualche modo l’insieme dei militanti che si sono variamente collocati alla sinistra del Pds, prima, dei Ds, dopo, e, infine, del Pd. Non è, peraltro, piacevole parlare di questo ventennio di Rifondazione, non fosse altro perché si tratta di una storia disseminata di macerie e di fallimenti, spesso dovuti alla inadeguatezza delle culture politiche di cui il PRC è stato portatore nel corso del tempo.

Favilli lo fa utilizzando le tecniche del suo mestiere di storico, esaminando non solo i fatti, le vicende in cui è stato coinvolto il partito, ma anche le culture che lo hanno permeato. L’autore avverte che la sua non è una “storia” del Prc, ma è un contributo “per una storia” di Rifondazione. Sostanziale è in questo quadro l’attacco del libro, che parte dalla duplice metafora di Prometeo che sottrae agli dei il fuoco per donarlo agli uomini, venendo punito per questo, e di Sisifo che spinge con fatica un masso in cima ad una montagna, lo vede rotolare a valle e riprende la sua fatica dall’inizio, con tenacia, senza scoraggiarsi. In questa metafora Favilli legge l’insieme della storia del movimento operaio, le sue sconfitte e le sue vittorie, la tensione continua verso una speranza di liberazione e le evoluzioni della storia che sembrano riportare gli attori del cambiamento a ricominciare spesso dall’inizio. In questo contesto viene letta anche la storia di Rifondazione.

E, tuttavia, la storia del Prc ha una sua specificità derivante dai suoi caratteri genetici. Il partito nasce da una scissione in un periodo di ripiegamento e di sconfitta, è più il frutto della parabola negativa di una storia che un nuovo inizio. Rifondazione si configura fin dalla sua fondazione come un assemblaggio di culture diverse e per molti aspetti confliggenti che vanno dall’ingraismo, al berlinguerismo, allo stalinismo cossuttiano, al comunismo di origine extraparlamentare, al pduppismo fino a giungere al movimentismo socialista di Fausto Bertinotti. Si può osservare che così era stato per lo stesso Pcd’I, c’è tuttavia una differenza che non può essere sottaciuta ed è il carattere ordinatore rappresentato, nel bene e nel male, dal movimento comunista internazionale e dall’Urss che costituisce comunque un collante ed un elemento unificatore. Mancando questo la tensione che si manifesta tra elementi “rifondativi” e i grumi della tradizione è destinata a risolversi in continui processi scissionistici. I dati sono sotto gli occhi di tutti. Il Prc comincia la sua vita con circa 150.000 iscritti, oggi gli aderenti al partito sono meno di 50.000. Del gruppo dirigente originario non v’è più quasi nessuno ai vertici del partito non solo per ragioni anagrafiche , ma come frutto di fuoriuscite corpose di cui le più importanti sono state quelle, nel 1998, dei cossuttiani e nel 2009 dei vendoliani. Favilli ascrive tale dato alla non sufficiente forza della carica rifondativa, che pure a suo parere ha avuto momenti significativi nella fase bertinottiana: eppure tale carica o riusciva ad assumere caratteri aggreganti oppure si rivelava come un esercizio movimentista, incapace di provocare nuove precipitazioni politiche. E’ quanto è avvenuto nel caso della fase segnata dal cofferatismo, rispetto al quale la chiusura di Bertinotti fu totale, ma anche in quella della Costituente della sinistra, rispetto alla quale lo stesso Bertinotti fece di tutto per determinarne il fallimento. La scelta successiva fu quella di offrirsi come sponda di governo ai movimenti, sostenuta dal consueto 5% che rappresentava una ben misera base per lo sviluppo di una azione riformatrice, ma anche come contenimento della spinta centrista degli allora Ds. Si arrivò così al 2008 con tutte le ipotesi bruciate, ad una lista unitaria priva di qualunque capacità espansiva, con tutto quello che ne è conseguito per il Prc, ridotto a piccola ed ininfluente forza minoritaria, costretto a subire una nuova e devastante scissione. Certo, come afferma Ferrero nella sua introduzione, tutto è stato sancito in congressi democraticamente svoltisi, con maggioranze e minoranze maturate negli appuntamenti congressuali o in comitati politici nazionali. Peccato che nei momenti decisivi le minoranze abbiano alla fine deciso di andarsene: i collanti unitari erano, infatti, meno forti delle culture di origine.

Il libro si chiude con un capitolo “politico” il cui senso è rappresentato da un assioma che appare, alla luce dei fatti descritti, meno evidente di quanto possa sembrare. Favilli sostiene a ragione che il riformismo, non il neoriformismo subalterno alle politiche liberiste che infine ne rappresenta una variante, ma l’azione politica che cerca di migliorare le condizioni dei lavoratori e dei ceti popolari, è la normalità del movimento operaio, la rivoluzione rappresenta l’eccezione. Ciò dovrebbe suggerire un anticapitalismo ragionevole e praticabile, una sperimentazione di movimento aliena da umori sovversivi, una costruzione di nessi tra movimenti e organizzazione sociale. Ossia un’azione in cui vecchie pratiche del movimento operaio si coniughino con nuovi paradigmi. Non ci sembra sia questa la strada praticata da quanto resta di Rifondazione. Insomma l’esperimento rifondativo appare ampiamente fallito, quello che ne residua è un gruppo minoritario incapace di proporre una alternativa credibile al neoriformismo, sostanzialmente subalterno al quadro politico, parte della crisi dei partiti e della sinistra più che motore di una possibile soluzione. Ben poco rispetto alle ambizioni delle origini.

Renato Covino - Cassandra (n° 2 - 2012)

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