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L’Europa e noi

Considerazioni sulla nuova Costituzione e sull’ultimo vertice NATO

(7 Luglio 2004)

Sabato 19 giugno tutti i quotidiani italiani davano risalto all’adozione, da parte dell’Europa Unita, della sua prima Costituzione. Va detto che, al di là dello spazio assegnato alla notizia, mancavano i toni di esaltazione che normalmente distinguono i commenti ai passi in avanti compiuti dall’UE. E questo non per mettere da parte la retorica che ha dominato negli ultimi anni. Quella, per intenderci, che nel ribadire la necessità di salvaguardare i livelli di civiltà ed i "valori" consolidati dall'Occidente, punta anzitutto sull’Europa. Ovvero, sul continente che di quella civiltà e di quei valori andrebbe considerato il depositario massimo, in un momento in cui l'alleato americano sbanda, portando avanti una giusta battaglia - quella contro il "terrorismo" - con mezzi sbagliati (l’uso della forza al di fuori della legalità internazionale, il “grave incidente” di Abu Ghraib). No, non c’è da essere ottimisti: la solfa di cui sopra continuerà a lungo, leggeremo ancora per molto tempo editoriali segnati dall'auspicio del rafforzamento politico e militare dell’Europa, così da non lasciare che gli States facciano da soli, privi come sono di “misura”.

La Carta.

Però, appunto, proprio in occasione di quello che dovrebbe essere un evento nella storia dell’UE, la retorica europeista ci ha dato un momento di tregua. Perché? Diciamo che le cause di questa piacevole ma temporanea novità sono essenzialmente due. La prima rinvia ai risultati delle recenti elezioni europee, le quali hanno visto il trionfo, con la parziale eccezione italiana, dell’astensionismo. Esso ha toccato punte altissime nei paesi entrati nell’UE da maggio, rappresentando il totale distacco, per non dire l'estraneità, delle masse nei confronti della costruzione europea. Un dato che alcuni osservatori rimandano non ad un generico qualunquismo, bensì alla maturità politica di chi sente quanto l’Unione Europea sia stata costruita sulle nostre teste. Dunque, si sta parlando di un fenomeno che già di per sé giustificherebbe la mancata esplosione di retorica attorno alla Carta europea. Se poi ad esso si va ad aggiungere quello che individuiamo come il secondo motivo dell'atteggiamento tiepido dei quotidiani nostrani, ci si rende conto di come alla mancanza di retorica avrebbe potuto associarsi anche un vero e proprio scoramento. Facciamo riferimento, infatti, ai raggiungimenti concreti dell’Unione, formalizzati nella sua Carta. Raggiungimenti tutt’altro che eccezionali e tali da non rinviare al completo definirsi di un’Europa politica. Ciò, perché si è giunti ad un compromesso tra diverse tendenze. Quella inglese, legata in fondo all’idea che l’Europa non sia molto di più di un’area di libero scambio, ha pesato non poco nel ritoccare il testo uscito dalla Convenzione guidata da Giscard d’Estaing. Il fatto è che l’Inghilterra ha potuto effettuare un ricatto. Essa - come d'altronde altri otto paesi - procederà alla ratifica della Costituzione attraverso il referendum. Ora, tale consultazione popolare si colloca in quadro non totalmente favorevole all'UE, segnato dall’affermazione, alle ultime elezioni, di un partito marcatamente euroscettico: l'UKIP (United Kingdom Independent Party).

Per questo Blair ha potuto giocare un certo ruolo nella trattativa, ottenendo risultati non indifferenti. Si pensi al fatto che, in sede di Consiglio Europeo, il voto a maggioranza qualificata non sarà usato né per le politiche sociali, né per quelle fiscali né tanto meno in materia di politica estera. Il mantenimento del potere di veto renderà difficoltoso prendere posizioni unitarie su nodi centrali per il definirsi dell’identità dell’Unione Europea.

Insomma, la situazione che si è andata a delineare è di quelle che possono portare gli europeisti più convinti a preoccuparsi. Ma a determinarla non sono state soltanto le trattative svolte in gran segreto, negli ultimi mesi, tra i governi europei, non è, insomma, solo ad esse che si deve la mancata acquisizione, da parte dell'Europa, di una compiuta identità politica. Ciò, perché alcuni limiti, sotto il profilo della definizione dell'UE in quanto soggetto politico, si riscontravano già nel testo elaborato dalla Convenzione Europea, la quale, peraltro, ha agito anch'essa al riparo dall'attenzione delle opinioni pubbliche. Il che non deve sorprendere se si pensa che quell'organo non lo abbiamo nominato noi, né in modo diretto, né in modo indiretto (1). Considerazioni sulla natura di quell'organo a parte, lo sforzo dello stesso ha portato ad una bozza in cui prevale l’ipotesi di un'Europa intergovernativa più che comunitaria, come dimostra il sia pur parziale ridimensionamento delle istituzioni che fuoriescono dalla logica della mediazione tra le volontà dei diversi governi. Istituzioni come la Commissione, per intenderci.

Infatti, nel progetto della Convenzione, è stata introdotta una novità di non poco conto, confermata nella versione definitiva della Costituzione. Stiamo parlando del fatto che il Presidente del Consiglio UE, un organismo che vede la presenza dei primi ministri e dei capi di Stato di tutta l’Europa, rimanga in carica per ben 2 anni e mezzo. Ora, se risulta chiaro che in questo modo si rafforza un organo dall'inequivocabile segno intergovernativo, magari potrà sorprendere i non addetti ai lavori la potenza che ha spinto in questa direzione. Si tratta, infatti, della Francia, di uno Stato che – al contrario della potenza d'oltre Manica - vuole l'Europa politica, ma senza perdervi peso, cedendo meno sovranità possibile. Il fatto è che Parigi vuole mantenere la sua egemonia nel continente perché senza di essa non saprebbe sostenere la sfida che, sul piano della politica estera, del controllo politico ed economico di varie parti del mondo, si profila con gli USA. Per questo, la Francia non poteva permettersi di stemperare la propria forza in una ipotesi comunitaria in cui il suo esecutivo sarebbe (quasi) parificato agli altri.

Dunque, gli interessi particolari di alcuni Stati impediscono che prenda forma l’Europa vagheggiata dai nostri quotidiani, quella totalmente comunitaria. La quale, in sostanza, non ha mai avuto una rispondenza nella realtà, se non forse nei propositi d’un Fischer, di quella Germania, che, però, nel nome del suo asse di ferro con Parigi, rafforzato dall’opposizione alla guerra all’Iraq, ha reso più “realistica” la sua visione, sacrificando, in sede di Convenzione, parecchio del suo slancio europeista. E ponendo, tutto sommato, basi poco solide per il dibattito costituente posteriore alla Convenzione. Il cui esito, come tutti sappiamo, è rappresentato da una Carta segnata non dallo slancio fondativo di un nuovo ordine politico e sociale su scala continentale, bensì da una arzigogolata architettura istituzionale. Così da spingere alcuni a negare ad essa la definizione di Costituzione e a distinguerla dai precedenti Trattati dell'UE (Maastricht, Amsterdam e Nizza) solo per la maggiore ampiezza di disegno della costruzione europea.
Ora, di fronte ad una situazione siffatta, non mancano, a sinistra, manifestazione di delusione. L’Europa, ancorché non priva di pecche rimarrebbe, anche secondo alcuni intellettuali che si rivolgono al movimento, l’unica valida alternativa ad uno strapotere yankee che non sembra avere più limiti. Quindi sarebbe stata cosa buona e giusta che il profilo dell’Unione fosse uscito fuori in modo più netto. Certo, magari a questa maggiore forza politica, nel segno d’un impianto meno intergovernativo e più comunitario, si sarebbe dovuto accompagnare un minimo di interesse verso le tematiche sociali. Laddove, invece, la Carta fa professione di fede nei confronti del liberismo. Il che, in certi ambienti alternativi nostrani, viene visto come conferma di un fatto: nella stessa UE, pur con tutte le sue potenzialità, persisterebbero sacche di subalternità sia sul piano politico sia su quello culturale verso gli States. Ne sarebbe riprova anche la risoluzione 1546, che arriva a legittimare l'occupazione coloniale americana, accontentandosi di modesti segni di mutamento sul piano formale - come la farsa del trasferimento di sovranità al governo transitorio - e di una volontà, peraltro generica, di accettare la gestione multilaterale delle crisi.

Il contesto.

Ora, rispetto al modo in cui si è arrivati a tale risoluzione va fatta chiarezza. Poiché essa - nonostante il suo contenuto sia inequivocabile - fino ad un certo punto rimanda alla debolezza delle principali potenze europee, già oppositrici della guerra all’Iraq.

Sullo sfondo della 1546 vi è un accordo sotterraneo, i cui termini vanno indagati anche per meglio comprendere il contesto in cui si colloca l’approvazione della Carta Europea. Un contesto che non è propriamente quello descritto da Il Manifesto, che ha definito, in modo suggestivo ma superficiale, Putin Schroeder e Chirac come “correttori di bozze”, che permettono un po’ di cosmesi ad una operazione che è tra le più criminali che gli USA abbiano mai compiuto. La Francia, ad esempio, lungi dall’essere arrendevole, dal non aver saputo difendere, questa volta, la sua sovranità, i suoi principi ed i suoi interessi, ha invece ottenuto delle precise contropartite per il suo appoggio alla 1546. D’altra parte, il potere contrattuale non le mancava. Come ha annotato Cesare Martinetti, commentando la celebrazione del D-Day: “Se un anno fa al G8 di Evian Bush aveva quasi umiliato Chirac abbandonando con 24 ore di anticipo il suo vertice, l’altro ieri il capo della Casa Bianca si è presentato a Parigi pronto a molte concessioni, perché il voto francese al Consiglio di Sicurezza dell’ONU gli è indispensabile. In un certo senso il rapporto di forza si è quasi rovesciato” (“La nuova strategia dell’Eliseo”, La Stampa, 7 giugno 2004). Ora, di quali concessioni si sta parlando? Attengono forse, esse, al benessere del popolo iracheno, alla sua indipendenza dal colosso americano? Assolutamente no. Esse rinviano agli interessi dei francesi in diverse parti del pianeta. Citiamo ancora Martinetti: “formalmente Chirac insiste nel dire che Parigi darà il suo sì alla nuova risoluzione solo se essa garantirà un vero passaggio di potere dalla coalizione anglo-americana al governo. (…) In realtà si sta giocando qualcos'altro sul tavolo di questa partita ed è la sopravvivenza del ruolo della Francia in Medio Oriente e nel mondo. Per quanto riguarda il primo a Chirac interessa conservare la funzione di referenza nei rapporti con la Siria e il Libano; per quanto riguarda il secondo la Francia vorrebbe l’appoggio degli Stati Uniti su quei pezzi di Africa sui quali conserva con difficoltà una certa influenza e oggi minacciati da crisi rischiose per la stabilità come il Kivu e la Repubblica Democratica del Congo”. Ora, andiamo con ordine, esaminando gli interessi in campo nelle due aree cui si riferisce l’articolo citato. Quando si parla del Medio Oriente, non si può ormai prescindere dal progetto del GREAT MIDDLE EAST, che, come si sa, ha tra i suoi moventi quello di contenere la spinta di altri soggetti, all’infuori degli USA, a diventare partner privilegiati dei paesi arabi. Non a caso si vuole sconvolgere l’assetto geopolitico attuale, così che gli States possano ridefinirlo a proprio piacimento. In una condizione di stabilità, di mantenimento dell’ordine attuale, infatti, gli USA avrebbero molte difficoltà ad evitare l’ascesa, nell’area, dell’Unione Europea. Tuttavia, iniziando ad attuare, attraverso l'aggressione all'Iraq, questo progetto "rivoluzionario", gli USA hanno incontrato sul campo enormi difficoltà, giungendo anche ad una inedita condizione isolamento internazionale. Perciò sono ora indotti a presentarne una versione più morbida, meno improntata al bellicismo e più graduale nello sconvolgimento degli equilibri dati. Anche perché, se alla fine si riesce a controllare l’Iraq, a parte il grande vantaggio che si può ottenere dallo sfruttamento delle sue risorse energetiche, si avrà comunque un avamposto dal quale far sentire la propria pressione a tutto il Medio Oriente. Ora, questo nuovo approccio, sebbene, nella sostanza, non modifichi gli intenti iniziali, concede un minimo di respiro all’azione di altre potenze. Così la Francia può rafforzare i suoi tradizionali rapporti col Libano e con la Siria-canaglia, che non a caso ha votato la 1546 e che potrebbe essere, col passare del tempo cancellata dall’elenco dei cattivi.

In sostanza, dietro la approvazione unanime della 1546, c'è un nuovo atteggiamento USA, più realistico e mite, seppur volto a mantenere l'egemonia sul Medio Oriente. Ma se questo può risultare chiaro, rispetto al secondo scenario accennato da Martinetti, come stanno le cose? Anzitutto, si deve dire che in poche aree del pianeta gli interessi francesi risultano più spiccati, avendo già avuto modo di tradursi in imprese militari. Come quella ancora portata avanti in Costa d’Avorio, iniziata in proprio, subito legittimata dall’ONU ed ora svolta assieme ai caschi blu. O quella, in una delle regioni più tormentate della Repubblica Democratica del Congo: l’Ituri, dove le truppe francesi, assieme a quelle di altri Stati europei, hanno cercato, dal luglio al settembre del 2003, di mantenere l’ordine, facendosi poi sostituire da quelle delle Nazioni Unite. In sostanza, si sta parlando, qui, di testimonianze del fatto che Chirac ha rilanciato in grande stile la presenza francese in Africa, superando le premure del suo predecessore Jospin rispetto agli interventi militari diretti.

Ciò perché lo scenario ora preso in considerazione non è così secondario come si è soliti pensare. E' ricco di risorse di cui v’è sempre più bisogno: si pensi al coltan, usato per i nostri telefonini e presente nella R.D. del Congo. E si pensi pure al petrolio e al fatto che , per lo più, i paesi africani che ne sono produttori non fanno parte dell’OPEC, suscitando, quindi, le mire della Casa Bianca. E’ chiaro: a Washington si vuole limitare la forza di un cartello che comunque rappresenta un potere a sé e che – a momenti – sembra addirittura lasciarsi prendere dalla foga antiyankee del Venezuela di Chavez, un paese che cerca di sospingere di continuo l’OPEC a ridurre l’estrazione di petrolio per mettere in difficoltà la principale potenza del pianeta.

Dunque sono solidi i motivi che spingono gli stessi USA ad occuparsi più di prima del continente africano, per giunta a partire da un disegno alternativo a quello francese. Si pensi al fatto gli Stati Uniti hanno mantenuto per un bel po' di tempo la riserva rispetto alla possibilità di una missione ONU che, in Costa d’Avorio, sostenesse le truppe francesi in difficoltà, sciogliendola, in sede di Congresso, solo il 27 febbraio scorso. Ora, ciò non rimanda esclusivamente alla controversia sull’Iraq ed alle inevitabili ritorsioni che ad essa si accompagnano, ma anche, appunto, al fatto che gli USA da quelle parti giocano una partita propria. E, soprattutto, s’interessano delle medesime aree contemplate da Parigi (Repubblica Democratica del Congo in testa). Ora, con le concessioni del D-Day, gli States non giungono all’appoggio di cui parla Martinetti, sarebbe troppo. Semplicemente, nel breve periodo, lasciano ai francesi il controllo della situazione, impegnandosi ad avere un atteggiamento collaborativo nel caso le loro missioni sul posto siano discusse in sede ONU.

E' un sacrificio necessario, quello degli USA, dovuto al fatto che l’operazione in Iraq rischia effettivamente di fallire, travolta da un’opposizione della popolazione così estesa, da spingere diversi osservatori d’orientamento moderato a non parlare più di terrorismo. Ma se non ci sono dubbi sulle motivazioni dei compromessi americani, non ce ne dovrebbero essere nemmeno su quanto sia sostanziosa la contropartita ottenuta dalla Francia, da un paese che, lo ripetiamo, non dà segni di cedimento. Si pensi a quanto è accaduto tra Sea Island, all’appuntamento del G8, e l’ultimo summit della Nato, tenutosi ad Istanbul. All’incontro tra i grandi - svoltosi tra l'8 e il 10 giugno - si è richiesto, da parte statunitense, una presenza effettiva della Nato in Iraq, al di là del ruolo di supporto logistico alla Polonia nel settore da essa controllato. E si è ottenuto, da parte francese, un sostanziale rifiuto. Poi le cose sono cambiate nelle settimane successive. Intanto la proposta è stata ricalibrata. In prima battuta si parlava di truppe Nato, anche se già non si escludevano forme di partecipazione più morbide come l'addestramento dell'esercito iracheno e la fornitura allo stesso dell'assistenza tecnica. Col passare dei giorni, non solo si è ripiegato definitivamente verso la seconda, più moderata, opzione, ma è anche cambiato il soggetto da cui è partita la richiesta, per renderla meno sindacabile. E’ intervenuto, infatti, in questa direzione, il premier iracheno Iyad Allawi. Certo, quest'ultimo, dati i suoi esplosivi trascorsi di fedele servitore della CIA, potrebbe risultare personaggio poco credibile. Ma, dato che tutti hanno accettato la finzione della riconquistata sovranità dell'Iraq, il suo appello ha ottenuto qualche risultato. Nel senso che a Istanbul, tutti d’accordo, si è approvato un coinvolgimento della Nato in Iraq maggiore che prima. Ma senza che vi siano le bandiere dell’Alleanza sul suolo iracheno, e con una attività di addestramento alle forze di sicurezza locali che può essere effettuata in Europa, nei centri appositi. Dunque, si è giunti ad un compromesso anche su questo versante, con le potenze europee che da un lato hanno chiaramente fatto capire che non vogliono togliere le castagne dal fuoco agli USA, dall’altro hanno cercato di evitare che ciò si traducesse in una negazione totale della richiesta che gli americani hanno avanzato per interposta persona. Forse, però, per meglio comprendere quanto accaduto ad Istanbul, è necessario comprendere cosa può significare la NATO oggi. Partendo dal presupposto che per gli States essa non costituisce attualmente la prima delle opzioni, perché rimanda comunque a qualcosa di concertato con gli alleati. Si pensi all’aggressione perpetrata nei confronti della Serbia, nel 1999, in un quadro di amorevoli rapporti tra USA ed UE. Fosse stato per i primi, ai bombardamenti a tappeto poteva anche seguire un attacco da terra. Questa ipotesi, nel corso della operazione umanitaria era stata ventilata. Ma - al di là del fatto che avrebbe comportato non poche difficoltà logistiche - fu accantonata perché raccolse l'assenso della sola Inghilterra e fu rifiutata decisamente da Francia e Germania. E non di certo perché l’intervento doveva essere solo “umanitario”, limitandosi a salvare gli albanesi del Kossovo senza porsi immediatamente l’obiettivo del cambio di regime a Belgrado.

Soprattutto dopo la guerra, si è parlato di un confronto tra queste due opzioni, ma è chiaro che esse rimandano ad altro, ad un qualcosa che il cifrato linguaggio giornalistico non fa capire. Gli è che se si fosse consumata l’invasione della Serbia suggerita, tra gli altri, da Kissinger, la preponderanza militare americana, si sarebbe espressa al massimo, dando agli USA, insediati in campo, la possibilità di disegnare a proprio piacimento le sorti di quel paese e dell’intera regione, a scapito delle potenze europee, in particolare di quella Germania che è stata la prima fautrice dell’accelerazione del processo di disgregazione della Ex-Jugoslavia (2). Ma, come sappiamo, l'interesse tedesco, ovvero la necessità di Bonn di avere l'egemonia politica ed economica sui Balcani, non è stato alla fine compromesso e la guerra del 1999 ha avuto una conduzione ragionevolmente cruenta. Il che conferma che la Nato, adesso, è comunque un luogo di mediazione, dove la volontà yankee deve comunque confrontarsi con quella di altri paesi. Quindi, se gli States, adesso, giocano questa carta è perché sono in grave difficoltà. Ne è cosciente chi ha risposto prima negativamente, poi tiepidamente all’appello statunitense a far intervenire la NATO nel contesto incendiario dell’Iraq. Ne è talmente cosciente che ha spinto per dosare la presenza dell'Alleanza in quella situazione, muovendosi peraltro in linea con la scelta di Kofi Annan. Il quale, se ha deciso di non investire le forze in Iraq, non lo ha fatto per i dichiarati motivi di sicurezza, ritenendo che solo limitarsi - per il momento - ad un appoggio esterno rientri nella funzione che compete all'ONU: la mediazione tra le potenze e la copertura degli accordi (espliciti o segreti) che si consumano tra di esse. Ma, l’intelligente equilibrismo di Annan e la volontà dei paesi critici di sfebbrare i rapporti con Washington senza sottostare ai suoi voleri, non possono far dimenticare che, a monte della scelta, appena descritta, effettuata ad Istanbul c’è dell’altro. Se la NATO non è, per gli States, l'opzione preferita, lo è ancor meno per alcune potenze europee, che ad essa fanno riferimento solo per ipotesi di cogestione, come quella praticata nel 1999 (3). Ritenendo, invece, un caso eccezionale e da non generalizzare, quello sperimentato - peraltro in modo fallimentare sul piano del controllo del territorio - in Afghanistan. Non a caso, il summit della NATO ha portato solo ad un rafforzamento delle forze dispiegate per la missione ISAF, concentrata attorno alla città di Kabul e che si è scelto di rinvigorire in vista del passaggio elettorale di settembre. Però, è stato escluso un coinvolgimento più forte, è stata respinta l'ipotesi di inviare in Afghanistan la Forza di risposta Nato, operativa dall'autunno del 2006 ed in grado di intervenire in qualsiasi contesto di crisi. Ora, è evidente che quest'ultima proposta, bocciata ad Istanbul, pone più chiaramente sul tappeto l'istanza di una Alleanza che sceglie definitivamente di avere il pianeta intero come scenario della propria azione. E' un'ipotesi, questa, che alcuni, in Europa, vogliono scongiurare, prendendo invece a riferimento, nell'ottica di definire per sé un ruolo forte nello scenario mondiale, altre missioni di carattere militare. Si pensi a quella, cui già s’è fatto riferimento, nella R.D. del Congo: la cosiddetta missione Artemis, a guida francese, ma con la presenza di altri contingenti europei, poi sostituiti interamente dalle forze ONU. Se vi fosse un esercito europeo, tale modello sarebbe replicabile all’infinito. Nel segno di un imperialismo UE totalmente autonomo eppure rispettoso del diritto internazionale.

A questa ipotesi lavorano da tempo Francia, Germania e Belgio. Riscontrando, in Europa, più che un esplicito dissenso, le preoccupazioni di quei paesi che, come l'Italia berlusconiana, insistono sul fatto che un sistema di difesa continentale è utile, ma va raccordato alla NATO. Ora, gli States non vedono di buon occhio nemmeno questa versione moderata dell'esercito europeo. Per questo, guidati finalmente dalla loro “ala morbida”, cioè da personaggi come Colin Powell, rilanciano la Nato, sostenendo che essa deve travalicare i limiti del suo intervento tradizionale, estendendolo a tutti i contesti possibili ed immaginabili. Rumsfeld, certo, ingoierà il boccone amaro della mediazione con i voleri altrui, però così si svolgerà una interdizione verso il definirsi e l’agire in proprio di una forza armata dell’UE. Chirac lo sa, per questo ha cercato, ad Istanbul, di ridurre il più possibile la portata dell’intervento NATO sia in Iraq sia in Afghanistan.
Dunque, questo è il contesto planetario in cui si colloca la costituzione europea. Un contesto in cui la potenza americana incomincia ad avere serie difficoltà e l’ipotesi di un imperialismo europeo stenta a decollare su tutti i livelli, sebbene le mosse USA riescano solo fino ad un certo punto a tarpargli le ali. E’ un quadro fluido, dunque.

La nostra lotta.

Cosa dobbiamo sperare noi, in tale infinitamente sfaccettato scenario?
Di certo non quello che auspica certa stampa di sinistra. Non che l’UE si rafforzi però mantenendo un po’ di anima sociale. Parliamoci chiaro: le due cose sono incompatibili. Lo abbiamo appena visto: il rafforzamento dell'Europa unita passa anche per il terreno militare. Ora, la realizzazione di un sistema di difesa continentale non può non comportare un aumento vertiginoso delle spese militari ed una drastica diminuzione di quelle sociali.
No, i quotidiani alternativi non possono più permettersi di prenderci in giro: il loro discorso sull'Europa sociale è a dir poco chimerico e va demistificato. Così come va messo in discussione un altro dei miti circolati in questi anni nella sinistra critica. Quello legato alla possibilità di costruire una Europa democratica e della partecipazione. Sotto questo profilo, si sta messi veramente male. Assai poco significativa ci pare, infatti, la novità evidenziata da un Romano Prodi animato dal desiderio di dare una immagine positiva della Costituzione Europea. Il fatto che raccogliendo le firme di 1 milione di persone si possano chiedere alla Commissione specifiche iniziative legislative non dovrebbe rincuorare. Si tenga presente, dato che lorsignori la mettono sul terreno della partecipazione diretta, che si rimane molto al di qua dell'istituto referendario, per come viene inteso da quella Costituzione italiana di cui non abbiamo mai tessuto le lodi. E si aggiunga a ciò, che lo straordinario, nuovo strumento vantato dal leader del nostrano Ulivo si colloca in un contesto in cui non è operante nemmeno la democrazia rappresentativa. Il Parlamento europeo, infatti, gode di ben misere prerogative. Esso è codecisore, in materia legislativa, col Consiglio, ma solo quando questo decide a maggioranza. Quindi il mantenimento dell’unanimità nelle materie di cui s’è detto ha limitato il ruolo del Parlamento. Se, però, fosse passata la linea di Prodi, abbandonando definitivamente l’unanimità, il parlamento non sarebbe stato comunque depositario in via esclusiva della produzione legislativa. Riducendosi, appunto, a codecisore, cioè, a esser chiari, a fornitore di pareri vincolanti al Consiglio Europeo e niente di più. Dunque, della stessa democrazia rappresentativa da noi così poco amata si sarebbe avuto al massimo il simulacro. Ora, con la nuova Costituzione europea non si ha nemmeno quello .

Ed è un male per lorsignori, per la costruzione europea. Che, proprio perché definita totalmente dall’alto, non emergente da quel diffuso “bisogno d’Europa” che è stato inventato dai media, necessita di un'immagine diversa. Anche per recuperare rispetto alla situazione rivelata dalle ultime elezioni europee, nelle quali si è espressa un’estraneità all’Unione che - come anticipavamo - nessun esperto serio legge in chiave di qualunquismo. Ulrich Battis, dell’università Humboldt di Berlino (citato su Il Messaggero, 15 giugno 2004) parla di “maturità del corpo elettorale”, sostenendo che: “la gente si accorge che la UE è poco sviluppata dal punto di vista democratico”, che “in sostanza si tratta di una organizzazione burocratica fatta da rappresentanti governativi, lobbisti e funzionari”.

Ora, questo è il dato che turba i sonni di lorsignori. Un dato sul quale dobbiamo lavorare, anche a partire da qui, dato che esso, di contro a quanto si dice, non è contraddetto dal caso italiano. In questo paese, dove la media dei votanti – storicamente più alta che altrove – ha subito un calo negli ultimi anni, , il 12 ed il 13 giugno 2004 non sono stati in pochi a presentarsi alle urne. Ma non per rinnovare il parlamento europeo, ma per prendere posizione rispetto alla politica interna, laddove il caso Berlusconi ha polarizzato l’attenzione. E poi, in alcune aree del paese, si svolgevano quelle amministrative che, se non vanno per le lunghe, se non si trascinano sino ai ballottaggi, attirano l'attenzione perché sentite come più “concrete” di altre occasioni elettorali.

Quindi si può dire che anche in Italia, come nel resto d’Europa, non ha pagato una certa campagna. Quella che spingeva, ad esempio, a leggere la contrarietà di massa alla guerra all'Iraq come “oggettivamente europeista” (Gad Lerner) e a vedere nelle genti che scendevano in piazza contro l’arroganza statunitense il “popolo europeo” (Eugenio Scalfari). No, decisamente il popolo europeo è ancora nelle teste di lorsignori. Che pure stanno facendo di tutto per canalizzare il dissenso verso l’imperialismo yankee nella direzione dell’esplicito sostegno popolare nei confronti dell’Europa Unita. Per ora non ci sono riusciti, ma non ci si può accontentare di questo dato, legato ad una diffusa percezione di cos'è l'Europa Unita. Occorre assolutamente approfondire il discorso. Per essere chiari, il nostro sforzo dovrà essere quello di rendere sempre più evidente che l’aspetto verticistico, sganciato dalla vita e dai bisogni quotidiani delle masse non è qualcosa di realmente superabile, perché è connaturato all’UE stessa. Essa, a ben vedere, non scaturisce dalla “volontà di pace”, di cui parlano pure Il Manifesto e Liberazione, quotidiani che veicolano la panzana secondo la quale è grazie all’Unione che i paesi europei non si scontreranno più tra di loro. C'è forse un'attualità di quel problema, c'è la possibilità che Germania e Francia facciano a cannonate per il dominio sull'Alsazia e sulla Lorena? Stiamo parlando di questioni che le potenze europee hanno superato da un pezzo, almeno dal dopoguerra. Giungendo, col passare del tempo, alla piena consapevolezza di un fatto: ormai lo scontro è con soggetti al di fuori dell'Europa. Perché, infatti, si sta procedendo, sia pure con battute d'arresto, ad una sempre maggiore integrazione a tutti i livelli nell’UE? E' evidente: perché solo attraverso un autentico sviluppo dell'Unione è possibile sostenere la competizione con gli States. Una competizione che, a dispetto della retorica sempre più in auge sull'Occidente che deve rimanere unito, non potrà non inasprirsi. Si pensi al suo oggetto: essa concerne il controllo delle aree di cui sfruttare le risorse e dove esportare capitali, in un mondo che, se così si può dire, si è ristretto. Esistono forse territori totalmente estranei alla penetrazione capitalistica? E' evidente che la risposta è negativa. L'impetuoso procedere, negli ultimi decenni, dei processi di internazionalizzazione del capitale, ha fatto sì che non vi siano più aree inesplorate e che attorno a quelle, sia pur gigantesche ed ancora da sfruttare appieno, esistenti si sviluppi uno scontro sempre più vigoroso. Uno scontro che porterà, a seconda dei rapporti di forza che si verificheranno di volta in volta, ad accordi in vista della loro spartizione o al primato esclusivo su di esse da parte di qualche specifica potenza. Certo, tale contrasto tra le potenze non assumerà il carattere di conflitto militare aperto. No, il confronto armato tra le potenze imperialistiche sarà al limite mediato, come nel caso attuale dell'Iraq, dove si è attaccato Saddam anche con l'intenzione di arrecare danno all'UE, di frenarne l'ascesa nel Medio Oriente. E, per giunta, non saranno mai da escludersi interventi militari in cui le diverse componenti dell'Occidente si comportino ancora da alleate. Si pensi a come verranno fronteggiate le ribellioni che si avranno in paesi interessati dall'influenza economica e politica di diverse potenze occidentali. Lì, con l'avvallo dell'ONU, le cannoniere di paesi tra loro in aspra competizione, spareranno in coro. E i bottini di guerra saranno spartiti in virtù della forza militare dimostrata sul terreno. E' d’altronde in previsione di scenari simili - come anche di situazioni gestite totalmente in proprio - che l'Europa vuole rafforzarsi. Il che vuol dire che il suo maggior peso sul piano planetario non saranno in pochi a pagarlo. Esso danneggerà noi con il taglio alle spese sociali, ma soprattutto colpirà a suon di bombe - magari intervallate dall’esercizio di quella arte del dialogo di cui difettano gli americani - i dannati della terra.

Sì, questo deve dire a gran voce chi lotta per il superamento dell’esistente. Senza temere di risultare fuori dal coro. Si risulterà, forse, isolati negli ambiti della sinistra alternativa, dove ancora si piange perché la Costituzione europea non è sociale quanto dovrebbe. Però non è escluso che si incontri la disponibilità di quelle masse che, disertando le urne, hanno già espresso il loro giudizio nei confronti dell'UE. Si tenga presente, poi, che il contesto oggettivo aiuta i temerari che non si riconoscono nel verbo dominante nella stessa altra sinistra. A ben vedere, il fatto che l’UE, con la nuova carta costituzionale, non si sia eccessivamente rafforzata politicamente, è in sé altamente positivo. Il contrario sarebbe stato drammatico, soprattutto in una situazione segnata dalla mancanza di sviluppo di un movimento su scala continentale in grado di porre all’ordine del giorno il rifiuto dell’imperialismo e l’opposizione alla riduzione delle spese sociali e alle politiche della precarietà. Certo, un tale movimento non potrà nascere dalle pensate geniali del corpo militante, sarà l’esplosione delle contraddizioni ad alimentarlo, portando con sé quella percezione di avere una controparte comune, che è l’elemento di base per favorire l’unificazione reale delle spinte contestative da Vilnius a Lisbona. Ma tale unificazione non potrà che guadagnare dalla piena consapevolezza della vera natura dell’Ue. Il nuovo movimento che si svilupperà nella Europa Unita di tutto ha bisogno fuorché della prospettiva fuorviante egemone nella sinistra alternativa, contro quale dobbiamo sin da oggi ingaggiare una dura battaglia. Per contribuire alla definitiva sconfitta dell'ipotesi, al momento poco sentita dai settori popolari, di una alleanza con quelle burocrazie illuminate dell'UE che, invece, dovrebbero essere finalmente identificate come nemiche. Nemiche comuni di chi vive la precarietà in Europa e di quei dannati della terra dei cosiddetti paesi sottosviluppati, che ben pochi vantaggi trarranno dal fatto che l'imperialista che li andrà a sfruttare non sarà solo statunitense.

Roma, 4 luglio 2004


Note:

1 Si fa questa osservazione non certo perché si auspicava, da parte nostra, un qualche coinvolgimento popolare nel processo costituente. Tale processo - non ci stancheremo mai di dirlo - non ha legittimità in sé, perché non deriva da nessuna spinta realmente presente nel sociale. Il punto, però, è un altro. I partiti della sinistra alternativa (Verdi, Rifondazione), hanno distinto, in campagna elettorale, tra la Convenzione "buona", della quale era nota a tutti la discussione e la trattativa tra i governi "cattiva", perché, appunto, segreta. A noi sembra opportuno chiarire che tra i due momenti non v'è discontinuità alcuna.

2 E' bene essere chiari su questo punto. L'intervento della Germania ha reso più repentino il dissolvimento della Jugoslavia, ma esso si sarebbe dato comunque, anche senza l'intervento di questa potenza straniera. Il punto è che - al di là di quanto affermavano elementi nostalgici che non mancarono nelle file dell'opposizione alla guerra del 1999 - all'origine dei problemi di quel paese sta il fallimento di un modello sociale e politico, ovvero della cosiddetta "via jugoslava al socialismo " propugnata da Tito, teorizzata da Edvard Kardelj e basata sull'autogestione. Tale esperimento, per quanto la propaganda abbia sempre cercato di relativizzarne le difficoltà, è risultato sin dall'inizio incapace di dominare le tensioni tra le istanze del Centro e quelle provenienti dai luoghi dell'autogestione produttiva.

3 Va peraltro specificato che l'aggressione alla Serbia del 1999, oltre a rispondere ad interessi europei, si collocava anche nella strategia portata avanti dagli States, allora meno propensi all'unilateralismo ma comunque desiderosi di mantenere la propria egemonia. In pratica, la trasferta yankee in Europa, rispondeva alla necessità di iniziare a modificare i termini dell'intervento della NATO. Ciò, non ancora nel senso della estensione dei confini della sua azione oltre l'Europa, ma nella direzione di una sua più spiccata proiezione offensiva rispetto a quanto previsto dal suo stesso Statuto.

Corrispondenze metropolitane - collettivo di controinformazione e di inchiesta

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