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Esopo ad Assisi

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    Che fine ha fatto il pacifismo?

    (11 Giugno 2012)

    Si è tenuto lo scorso fine settimana il Forum "Proposte di Pace". Pubblichiamo qui l'intervento di Piero Maestri

    paxpax

    Per Stefano
    Nella notte tra il 3 e il 4 giugno è morto a Samarate Stefano Ferrario.
    Stefano era un instancabile e tenace attivista contro la guerra e soprattutto contro le politiche che la rendono possibile. Dal territorio varesino in cui viveva, metteva al centro del suo impegno la necessità dell’obiezione di coscienza e della riconversione dell’industria bellica.
    La sua moralità e la sua radicalità politica lo rendevano profondamente critico sui limiti e sulle battaglie non fatte dal movimento pacifista.
    A lui voglio dedicare queste righe….
    Non potendo essere presente al Forum – e ringrazio Alessandra e Riccardo per il gentile invito – provo a farvi partecipi di queste mie riflessioni, sicuramente non «corrette» e gentili….


    Che fine ha fatto il movimento pacifista in Italia?
    Questa dovrebbe essere probabilmente la prima domanda a cui rispondere nell’affrontare la riflessione sulla possibile «costruzione della pace”. Naturalmente ognuna/o intende cose diverse quando parla di movimento pacifista.
    Per quanto mi riguarda voglio riferirmi al movimento contro la guerra, quello delle mobilitazioni per fermare le guerre reali e presenti che il nostro paese stava (e sta) combattendo, e per fermare le politiche che sono parte di quelle stesse guerre: riarmo, spese militari, produzione bellica, accordi militari con altre potenze, alleanza militari, basi militari e così via… E’ evidente che quella mobilitazione e il movimento che la rendeva forte e ampia in tutto il paese sono stati sconfitti e non riescono oggi a rappresentare un punto di vista e una forza politica.

    Questa «sconfitta» viene da lontano ed è iscritta nelle diverse strategie che nel movimento si sono viste (e a volte affrontate, purtroppo troppo poco in maniera chiara e trasparente). Divisioni e differenze erano già presenti nella primavera del 1991, quando -alla fine dei bombardamenti sull’Iraq – la tensione calava, perché la guerra non avrebbe mai raggiunto il nostro paese e perché alla possibile diffusione delle mobilitazioni si sovrappongono le dinamiche – usuali ma non per questo meno fastidiose e dannose – di quelle associazioni che vogliono ricondurre il movimento alle loro logiche, collaterali alla “sinistra” educata e moderata.
    Al momento dell’attacco di terra a metà febbraio le mobilitazioni furono scarse e la seconda manifestazione nazionale, programmata per il 9 marzo, fu annullata causa “fine della guerra”: come scrive Fabio Alberti, “nonostante alcuni di noi insistettero… che la guerra non era finita, che si era aperta una nuova fase e che era necessario mantenere la mobilitazione, prevalse la decisione di annullare. Credevo allora, e credo ancora oggi, che quello sia stato un errore e che ci siano voluti dieci anni a recuperare…” (1).
    Quelle stesse differenze si sono decisamente riaffacciate quando le associazioni “collaterali” ad un centrosinistra in formazione – con lo scioglimento del Pci e la nascita del Pds – attente a rendere le questioni poste dal movimento compatibili con i limiti dei loro referenti politici (e finanziatori senza i quali non sarebbero esistite), si inventavano petizioni generiche e campagne di pressione ai candidati al parlamento affinché sottoscrivessero un impegno “pacifista” – campagne che negli anni successive mostrarono la loro inutilità e ipocrisia, quando i firmatari di tale impegno bombardarono Belgrado…
    E si sono riaffacciate nell’assenza di una seria iniziativa contro l’embargo all’Iraq e i progetti di quel “nuovo modello di difesa” che avrebbe cambiato la politica militare italiana.

    Anche nel momento importante e positivo dell’opposizione alla “guerra umanitaria” di D’Alema contro Belgrado – quando un’area molto larga di associazionismo e del movimento seppe opporsi e manifestare contro la guerra e il suo proseguimento nell’operazione “Arcobaleno”, creando un tessuto importante di relazioni che si consolidò al momento della nascita dei Social forum – questo non impedì ai dirigenti della Tavola della pace di invitare alla successiva marcia Perugia-Assisi il bombardiere D’Alema per “ricucire lo strappo del Kosovo”, invece di denunciare e opporsi alle politiche di guerra di quel centrosinistra che riproporrà questa sua caratteristica genetica in occasione delle votazioni a favore delle missioni di guerra (fosse all’opposizione o al governo).

    Il colpo finale venne qualche anno dopo l’apogeo della mobilitazione contro la guerra tra il 2002 e il 2005, con la crisi di questo stesso movimento. Una crisi che nasce da differenti ragioni: la scarsa “efficacia” e la difficoltà di incidere davvero sulle scelte politiche (anche per la mancata saldatura tra lotta per la pace e lotta sociale); la crescita esponenziale dei disastri delle guerre che hanno fatto crescere la sensazione di impotenza di molte persone; la speranza nel possibile cambiamento che poteva portare il governo Prodi, speranza frustrata immediatamente con la definitiva rottura di legami e relazioni nel movimento (simbolo di questo su la “piazza senza popolo” del giugno 2007 a Roma contro la visita di Bush del pacifismo collaterale, mentre migliaia di persone partecipavano alla manifestazione organizzata da sinistra e pacifismo radicale).

    E fu la vicenda afghana a mettere definitivamente a nudo i limiti e le miserie del pacifismo nostrano.
    La questione dell’intervento in Afghanistan tornò prepotentemente nell’agenda politica e nell’attenzione del movimento con la vittoria elettorale del centrosinistra nel 2006.
    La coalizione che porterà al governo anche la sinistra radicale aveva nel suo programma il ritiro dall’Iraq (che avvenne, a parte il mantenimento del ruolo di addestramento dell’esercito iracheno), ma nulla sull’Afghanistan, perché questo avrebbe reso impossibile un programma comune.
    Al momento del rifinanziamento della missione – nel luglio 2006 – i nodi vengono al pettine: una parte di deputati e senatori della sinistra cercherà una sponda nel movimento per non votare le missioni. Due grandi assemblee a Roma e Genova renderanno chiaro che su quel terreno si verificava una spaccatura già dentro il movimento, tra coloro disposti ad arrivare fino in fondo (“senza se e senza ma”) per ribadire anche l’autonomia del movimento stesso, e chi riteneva la possibile rottura del governo Prodi una iattura troppo forte per rischiarla con un voto contrario alle missioni.
    La mediazione che spostava di sei mesi una proposta alternativa salvava la maggioranza ma si rivelava un escamotage ipocrita e senza futuro e provocava una frattura nel movimento mai più sanata.
    I primi mesi del 2007 vedranno così una prima rottura della maggioranza (e proprio sulla politica estera e militare) e una ripresa di iniziativa del movimento contro la guerra: il 17 marzo con una manifestazione nazionale per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan e da tutti i fronti di guerra, indetta solamente da una parte del movimento, e poi con le mobilitazioni contro la base di Vicenza e il 9 giugno con una grande manifestazione in occasione della vista di Bush (che vedrà una partecipazione di massa al corteo della parte più “radicale” del movimento, e una Piazza del Popolo organizzata dalla parte più legata alle mediazioni di governo praticamente vuota).
    Ma quelle iniziative non rappresenteranno un rilancio del movimento contro la guerra e insieme una maggiore attenzione all’intervento in Afghanistan.

    Da quel momento saranno solo iniziative locali e il lavoro costante di informazione e di relazione di poche associazioni a mantenere viva l’attenzione sulla situazione in Afghanistan.
    In sostanza, so che a molti sembrerà schematico, un movimento contro la guerra incapace di essere allo stesso tempo radicale, unitario e indipendente (dai collateralismi dei riferimenti politico-parlamentari) non potrà mai essere davvero efficace e vincente.
    Chiariamo: non sono così ingenuo e/o arrogante da pensare che la «Tavola per la Pace» sia la sola responsabile delle sconfitte e della crisi del movimento contro la guerra. Vi sono naturalmente ragioni per così dire «strutturali», legate alla militarizzazione globale, all’instaurarsi di una crisi mondiale che sta ridisegnando poteri e diritti e così via.
    Allo stesso tempo ci sono errori fatti da tutte/i noi a diversi livelli di responsabilità – che non abbiamo saputo consolidare le esperienze più alte (non solo di mobilitazione di piazza, ma anche di comitati sul territorio, pensiamo al No Dal Molin, o alle reti per la riconversione…).
    Così come è evidente che, quasi specularmente alla moderazione della Tavola, sono state dannose posizioni settarie dichiaratamente «antimperialiste» presenti nel movimento.

    Ma pesa soprattutto la pessima esperienza vissuta di fronte al «governo amico” e all’incapacità di tenere alta la mobilitazione contro l’intervento in Afghanistan, e contro tutte le «riforme” delle politiche militari approvate anche dal centrosinistra (che le condivide, vedi la coppia Forcieri/Pinotti…) e a volte anche dalla sinistra (la firma sugli F35 è avvenuta con la «sinistra radicale” al governo…)
    Insomma, se la forza del movimento è stato il binomio «Unità e radicalità» – al quale va sempre messo insieme il valore dell’autonomia, dal quadro politico e dai partiti di «riferimento» – quel binomio si è scisso da tempo, e mi pare improbabile pensare di ricostruirlo oggi con i soggetti presenti.
    Siamo tutte/i disponibili alla radicalità» richiesta dal momento: ritiro da tutte le missioni militari, taglio verticale delle spese militari, disarmo delle forze armate (scusate il gioco di parole), riconversione delle industrie belliche?
    Siamo tutte/i decise/i a salvaguardare una reale «autonomia» dal quadro politico? Lo sono anche quei soggetti che vivono grazie al sostegno politico e finanziario degli stessi partiti responsabili delle politiche di guerra e dei crimini italiani nel mondo (Pd in primis)?
    Non ne sono purtroppo molto convinto….

    Senza questa riflessione critica e autocritica, penso sia difficile provare a rispondere davvero alle domande profonde e difficili che questo «Forum» si pone. Costruire la pace oggi, in questa crisi globale, significa riconnettere le politiche di guerra alle dinamiche e alle responsabilità stesse della crisi.
    E’ ormai evidente che questa crisi è il risultato di un sistema capitalista che ha scelto la via del profitto finanziario e speculativo e quella interconnessa dell’aumento dello sfruttamento a livello planetario.
    Questo sfruttamento può essere mantenuto solamente attraverso un progressivo svuotamento della partecipazione democratica e dei diritti di donne e uomini, e per poterlo fare non è secondario lo strumento militare, interno ed esterno agli stati: quindi repressione e guerra – guerra contro i popoli.
    Battersi per un mondo senza guerre e senza repressione militare significa stare dalla parte degli oppressi nei loro percorsi di liberazione e sostenere con forza e con passione le dinamiche che in tutto il mondo nascono per questa liberazione. Le rivoluzioni arabe cominciate un anno e mezzo fa sono un segnale fondamentale di questa «rivolta globale».
    In questa crisi costruire la pace significa costruire la giustizia sociale. E il primo punto passa dal rifiuto delle politiche di gestione della crisi che ci vogliono imporre: rifiuto del pagamento del debito pubblico, per farlo pagare a banche, finanze e chi ha vissuto e prosperato negli ultimi 30 anni – tra cui i bilanci militari e il «complesso militare-industriale».
    Per questo credo che il primo punto all’ordine del giorno sia proprio l’abbattimento della spesa militare e la riconversione in spesa sociale.
    Un impegno che deve partire da una rinnovata «mobilitazione» contro la guerra – che non significa solamente cortei, ma anche attivismo diffuso e capillare perché tutti i soggetti che davvero vogliono una politica di pace si sottraggano alle politiche di guerra: che senso ha che ci siano Enti locali «per la pace» che sostengono progetti del governo israeliano? o, più vicino a noi, rendano possibili gli insediamenti militari e le infrastrutture belliche?
    Anche le istituzioni locali possono essere parte della rottura del sistema bellico, se davvero lo vogliono rompere però, non con l’istituzione di «assessorati per la pace» che non si pongono mai in contrasto con le scelte fondamentali di riarmo (e di militarizzazione del territorio).
    Mi fermo qui. So di essere stato fastidioso e poco «propositivo». Spero e vi auguro con tutto il cuore che i lavori di questo Forum possano aprire un cammino nuovo al movimento contro le guerre.
    Per quanto mi riguarda proverò ancora a fare la mia parte.
    Un abbraccio,

    Piero Maestri – redazione Guerre&Pace; portavoce Sinistra Critica

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