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Come il gatto col topo

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L’Europa al bivio

(17 Giugno 2012)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

E’ in corso uno scontro tra chi vuole l’uscita dall’euro e chi ne vuole invece il rafforzamento. I lavoratori non devono arruolarsi in alcuna frazione della borghesia, quella nazionalista, sostenuta da alcuni settori dell’estrema sinistra, dall’estrema destra e da un buon numero di giornalisti, e quella ‘europeista’, sostenuta dal governo, e, almeno a parole, dalla maggioranza dei parlamentari. In entrambi i casi si chiederà ai lavoratori, ai disoccupati, ai pensionati di pagarne le spese, in ambedue i casi gli oppressi, se non vogliono soccombere, dovranno affrontare lotte estremamente pesanti e darsi gli strumenti organizzativi adeguati.

La borghesia italiana ha di fronte una scelta: se resta nell’euro – ammesso che questo sopravviva alla pesante crisi odierna - non potendo recuperare il vantaggio della svalutazione, continuerà a perdere industrie, e quelle rimaste lavoreranno per la Germania, ossia l’industria italiana si trasformerà in un gigantesco indotto di quella tedesca. Per un certo periodo, ci sarà l’emigrazione di tecnici verso l’industria tedesca, almeno finché la crisi non avrà colpito gravemente anche quella. La borghesia italiana ne avrebbe vantaggi, con una crescente integrazione finanziaria e una forte partecipazione agli utili. Non altrettanto la piccola borghesia, spinta sempre più verso il nazionalismo e la polemica antitedesca. Il permanere di una forte disoccupazione porterebbe alla ripresa dell’emigrazione.

Tutto questo perché, in un mercato sempre più unificato, si formano poli di sviluppo e poli di sottosviluppo. A scala maggiore, si riprodurrebbe ciò che è avvenuto con l’unificazione d’Italia tra nord e sud, che ha portato all’estinzione della nascente industria meridionale, non più protetta da confini e dogane. Una parte dell’Italia settentrionale s’integrerebbe col motore tedesco, il resto della penisola sarebbe inesorabilmente tagliato fuori.

L’altra ipotesi, quella del ritorno alla lira, porterebbe a una svalutazione selvaggia, colpendo inesorabilmente i pensionati e tutti coloro che hanno un reddito fisso, vedrebbe una forte emigrazioni di capitali, per sfuggire alla svalutazione, verso la Svizzera e l’Europa più avanzata, o verso il Vaticano e altri paradisi fiscali, per tornare poi, almeno in parte, sotto le mentite spoglie di investimenti esteri. I salari sarebbero bassissimi, e l’occupazione, almeno nel breve periodo, crescerebbe e così le esportazioni. Ma nessuno sogni un ritorno al boom economico degli anni ’50 e ’60, ancor meno una riconquistata autonomia nazionale. Uscire dall’euro vorrebbe dire integrarsi nell’area del dollaro, visto che gli USA sono ancora in grado di impedire più stretti contatti con paesi come l’Iran o la Russia che, per la loro produzioni di gas e petrolio, sarebbero perfettamente complementari con un paese dalla tradizione manifatturiera come l’Italia. La lotta odierna tra borghesi italiani è, come in altre occasioni, tra filotedeschi e filoamericani. Guai se il proletariato vi si lascia coinvolgere in nome di una presunta indipendenza nazionale!

Si dirà: ma l’Italia è un paese imperialista o una colonia? Imperialista in quanto partecipa allo sfruttamento di altri popoli e alle guerre coloniali (anche se la storiografia ufficiale ha stabilito che il colonialismo, l’imperialismo, l’apartheid, i cartelli, il protezionismo, ecc. sono fenomeni del passato! Anche la storiografia accademica fa parte del sistema, e deve difenderlo.) Un imperialismo minore, tuttavia, dipende dal capobanda. Non è una novità: Lenin diceva che, precedentemente alla prima guerra mondiale, veramente indipendenti erano solo Stati Uniti, Inghilterra e Germania, e più volte Trotsky predisse che la Francia sarebbe diventata un “Grande Belgio”. Nel 1917, la Russia di Kerenskij sull’orlo del crollo dovette riprendere i combattimenti, costretta dalle scadenze dei debiti con l’occidente.

Ciò che è veramente morto è l’europeismo democratico, quello che sognava un’unione dei popoli sul piano di parità e uguaglianza. Il manifesto di Ventotene, redatto da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, durante il confino, e poi diffuso da Eugenio Colorni, diceva:

“la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l'unità internazionale.”

Illusioni, per quanto nobili. Nell’epoca imperialistica, l’unificazione può avvenire solo attraverso la subordinazione, la violenza. Ma neppure nell’era liberale si scherzava, e l’unificazione d’Italia e Germania avvenne col ferro, col fuoco e col sangue, non solo quello dei soldati. Lo stato non è di tutti, è saldamente nelle mani della borghesia – questo lo verifichiamo ogni giorno – quali che siano le liturgie elettorali per scegliere, come diceva Marx, da quale esponente della classe dominante farci governare. In Italia, grazie al porcellum del “buonanima” Calderoli (che fine ha fatto?), anche questa scelta c’è stata tolta, e abbiamo un parlamento nominato, octroyé, concesso, come al tempo delle vecchie monarchie.

L’unico paese che avrebbe la possibilità di unificare l’Europa è la Germania, spina dorsale del continente. I suoi tentativi bellici di unificazione, con un esercito e una direzione militare paragonabile solo a quella giapponese, non riuscirono perché non potevano competere con l’immensa produzione bellica degli USA e il sacrificio di milioni e milioni di russi.

Dopo la guerra la Germania fu divisa, non per soffocare gli ultimi resti del nazismo (l’America fece incetta di scienziati, tecnici, spie e aguzzini fino allora al servizio del nazismo) ma perché gli alleati sapevano bene che in una Germania occupata e divisa non era possibile che si ripetessero gli sviluppi rivoluzionari del primo dopoguerra. Per analoghi motivi l’imperialismo impedì l’unificazione dei paesi arabi, del subcontinente indiano, e divise la Corea. E’ un trucco che già gli antichi romani conoscevano.

Quando la Germania si riunificò, Mitterrand e Andreotti non nascosero le loro preoccupazioni, e i vari trattati ebbero anche lo scopo di diluirne la forza entro il contesto europeo. Fatica inutile, l’industria e la finanza tedesca riconquistarono con i loro prodotti i territori dell’Europa dell’est che la Russia aveva dovuto sgombrare, anche se dovettero lasciarne il controllo militare alla potenza egemone, che veste ancora la divisa della Nato, e che prima o poi dovrà liberarsi di questa logora casacca.

In seguito, la Germania sembrò abbandonare il suo progetto, l’Europa le era quasi di peso, mirava ai grandi mercati di Cina, India, Russia, Brasile. Ma la crisi economica, che non risparmia nessuno – anche se fiumi di dollari inflazionati daranno un breve respiro (elettorale) all’economia americana – costringerà Berlino a prendere nuovamente in considerazione l’orticello europeo. Allora, la spietata concorrenza industriale tedesca costringerà Francia, Italia, Gran Bretagna e Spagna a nascondersi sotto l’ala del loro protettore (termine dall’ambiguo significato) di Washington. In parte sta già avvenendo, se si considerano il rinascere di un sentimento antitedesco. Non è un buon segno. Internazionalista non è chi denuncia solo l’imperialismo del paese avversario, ma chi accusa tutti gli imperialismi, a cominciare da quello del proprio paese. Cominciano a circolare nuovamente i luoghi comuni sulle diverse nazionalità: i tedeschi militaristi col chiodo in testa o con l’elmetto nazista, i greci e gli italiani che non hanno voglia di lavorare, gli ebrei che pensano solo ai soldi. Attenzione, dalle barzellette si passa a ben altro, la borghesia ha interesse a mettere un popolo contro gli altri, a erigere muri, ancor più nell’epoca della cosiddetta globalizzazione. Se la stragrande maggioranza della popolazione, proletari o comunque sfruttati, si unifica nella lotta, per il capitale finanziario sono guai. Allora mobilita i suoi servi ben pasciuti della politica o dei media, e delle diverse associazioni “umanitarie” per mettere l’italiano e il francese contro il tedesco o il libico e il siriano, quest’ultimo contro i rom, i greci, gli spagnoli, gli ebrei contro gli iraniani e i palestinesi, e così via all’infinito. Cresce l’antisemitismo, quello antiarabo e antiebraico, che confonde i popoli con la loro classe dirigente.

Se si permette a questo autentico tumore di crescere, non ci sarà oppressione verso minoranze o interi popoli, non ci saranno guerre che non trovino una loro falsa giustificazione.

Lottare contro l’acquisto degli F 35 e poi piangere sulla povera Italia oppressa dai tedeschi? Vuol dire dimenticare che il nostro primo oppressore, il nostro aguzzino principale è la borghesia imperialista italiana, che ci vende al capitale tedesco o statunitense, anzi a tutt’e due, come nella tradizione dei migliori truffatori, alla quale il capitale italiota si è sempre ispirato.

Respingiamo quindi questi appelli a salvare l’Italia, che troppo spesso in realtà vogliono salvare il portafoglio dei capitalisti nostrani. Il nostro internazionalismo, però, è diverso da quello di Spinelli. Non pensiamo che sia possibile unire i popoli finché resta il capitalismo, e l’infernale marcia del profitto. Finché ci sarà sfruttamento dei lavoratori, il capitale avrà interesse a porre un paese contro l’altro, a sfruttare le differenze di lingua, dialetto, religione, sesso, opinioni, tradizioni, per creare sempre nuove barriere, sempre nuovi ghetti. Occorre ribaltare il regime del capitale, quale che sia la forma politica sotto cui prospera: repubblica democratica borghese parlamentare o presidenziale, monarchia costituzionale, pseudo socialismo cinese, repubblica islamica, monarchia assoluta (Stati del Golfo, Vaticano), e così via.

Non per tornare a una antica democrazia borghese – quale la Francia dei primi anni della grande rivoluzione o gli Stati dell’ovest degli Stati Uniti (con l’esclusione degli indiani che venivano massacrati), soluzione impossibile, la storia non torna indietro - ma per instaurare le repubbliche dei consigli, i cui primi esempi furono schiacciati, prima ancora che dai borghesi, dall’opportunismo e dallo sciovinismo della socialdemocrazia e del Termidoro russo.

15 giugno 2012

Michele Basso

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