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(28 Luglio 2010) Enzo Apicella
Anche la Omsa di Faenza vuole delocalizzare in Serbia

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La delocalizzazione nel mondo

una pratica globale e in costante aumento (articolo di Liberazione)

(12 Luglio 2004)

La delocalizzazione delle imprese all'estero non è un fenomeno nuovo né provinciale. E' un modo di concepire l'impresa diffuso e in costante espansione. Soprattutto negli ultimi 10 anni e soprattutto nell'area Europea, delocalizzare la produzione sembra essere diventata una parola d'ordine. E se gli Stati Uniti hanno sempre avuto specialmente il Messico come territorio prelibato di caccia, Francia, Italia e Germania hanno sempre preferito rivolgersi ai Paesi dell'Europa orientale, Balcani, Romania e Paesi dell'ex Urss in primis, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino: «Quelle che noi chiamiamo le filiere internazionali - spiega Luciano Vasapollo, docente di economia aziendale della facoltà di scienze statistiche de La Sapienza - seguono questa rotta e non quella africana perché nei Paesi dell'Est la manodopera non è solamente priva di diritti e tutele, oltre che, ovviamente, a bassissimo costo, ma è anche molto specializzata». Seguendo il dogma del maggior profitto a minor costo possibile, delocalizzare un'impresa ha pochi e chiari metodi: «La parte del ciclo produttivo ad alto valore aggiunto viene mantenuta in Italia, o dove sia, mentre il processo produttivo viene portato all'estero». Una prassi che trova il suo successo al momento della vendita: «Il prodotto rientra non completamente finito in patria, dove viene definito e etichettato con il marchio che permette di avere ricavi infinitamente superiore ai costi». Una procedura che, fra l'altro, permette al produttore di non pagare neanche le tasse alle frontiere.

Proprio ieri sono stati diffusi i dati Istat sul trend delle importazioni ed esportazioni italiane: rispetto al mese di aprile, le prime sono aumentate dell'1,3%, le seconde del 10,5%. Le esportazioni sono incrementate specialmente verso l'Est: Turchia (+43%), Russia (+28,8%) e Cina (+22,2%), e hanno riguardato soprattutto il settore dei prodotti petroliferi raffinati (+72,5%) e dei metalli (+32,2%). Niente di strano né di «sintomatico della ripresa economica», come ha commentato il vice ministro delle attività produttive Adolfo Urso, se rapportato al flusso in uscita degli investimenti diretti che sono «investimenti con finalità strategiche di controllo o di coordinamento delle imprese», come per esempio le azioni. Secondo i dati Ice, questi investimenti sono esponenzialmente aumentati negli ultimi 10 anni, arrivando (l'ultimo dato è del 2000) a contare 2.573 imprese a partecipazione italiana, per un totale di 218.866 miliardi di vecchie lire di fatturato. Il nord-est, soprattutto l'area veneta è il luogo in cui le rilevazioni hanno uno scatto verso l'alto. I settori produttivi maggiormente interessari da questo fenomeno sono (o meglio, erano fino al 2000) nell'ordine, quello degli apparecchi meccanici, alimentari bevande e tabacco, e proprio i metalli e i prodotti derivati. «E' la nuova forma di colonialismo, non la morte del fordismo» - conclude il prof. Vasapollo - «La fabbrica non ha chiuso i cancelli, si è solo spostata in un altro Paese». Nella tabella degli indici di investimenti diretti, il settore del petrolio figurava al penultimo posto. Ma le guerre in Iraq ed in Afghanistan non c'erano ancora.

AM (da Liberazione del 25 giugno)

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