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(28 Luglio 2010) Enzo Apicella
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Quel viaggio dall'ovest all'est alla ricerca del lavoro delocalizzato

Storie dell'altra Europa: Saint-Avold (Mosella) e Jelez (Polonia) - articolo di Liberazione

(13 Luglio 2004)

E' un po' pazzesco ma incoraggiante il viaggio che hanno affrontato la settimana scorsa i lavoratori della fabbrica Renol di Saint-Avold: hanno attraversato la Germania in autobus, per andare a incontrarsi, solo per poche ore, con i lavoratori polacchi che lavorano nello stesso gruppo, che produce cerchioni per automobili.

I 170 dipendenti della Ronal-France si battono da due mesi contro la chiusura della loro fabbrica. Mentre la direzione del gruppo accampava il pretesto di difficoltà economiche per giustificare il blocco della produzione, hanno scoperto che aveva creato in Polonia, nel 1995 e nel 2001, due fabbriche comprendenti oltre 1.000 operai. Quanto alle difficoltà economiche, in realtà si trattava semplicemente della voglia di ricavare sempre maggiori profitti, sfruttando la manodopera polacca.

Invece di entrare nella logica del "ci stanno soffiando il nostro lavoro", i dipendenti della Ronal-France hanno deciso di invertire l'andazzo dell'essere messi in concorrenza fra loro, cercando di delineare un abbozzo di solidarietà al di là dei confini. È stato l'avvocato del comitato di fabbrica, la dottoressa Blindaüer, a lanciare l'idea dei viaggi.

Prima di arrivare in Polonia, i lavoratori si sono preliminarmente spostati in Germania, in due fabbriche del gruppo anch'esse minacciate di chiusura, a Först e a Landau.

1.000 chilometri di strada

Martedì 15 giugno, alle ore 20, l'autobus parte dalla fabbrica di Saint-Avold, per affrontare 1.000 chilometri di strada, da un bacino carbonifero a un altro, dalla Lorena verso la Bassa Slesia. A bordo una quarantina di operai, tra cui una sola donna, e una manciata di capisquadra. Quelli che restano sorveglieranno la fabbrica, garantendo un minimo di produzione.

«Vogliamo spiegare ai dipendenti polacchi la politica del gruppo», dicea Stéphane Zerves, delegato della CGT. «Vogliamo dire loro come si è comportata la Ronal con noi e che c'è il rischio che faccia altrettanto con loro, perché abbiamo sentito parlare di un progetto di spostamento dalla Polonia all'Ucraina… Lo scopo del viaggio è quello di incontrare queste persone che non parlano la nostra stessa lingua e hanno una cultura diversa dalla nostra, ma hanno gli stessi interessi che abbiamo noi». Nell'autobus si organizzano partite a carte, girano birra e barzellette. Un clima da comitiva in vacanza, malgrado le prospettive pesanti. «Ci si sfoga per allentare la pressione», racconta un dipendente. «Il tribunale ha respinto il deposito del bilancio e ci ha concesso un rinvio fino al 29 giugno, ma poi non si sa che cosa succederà». «Se la fabbrica chiude, nella zona non c'è lavoro per noi», conferma Stéphen Zervos. «Il sindaco di Saint-Avold ha dichiarato che, dopo la chiusura del bacino carbonifero, l'industria in Lorena è finita, largo ai servizi. Ma servizi per che cosa? L'informatica, la pulizia, ma di che cosa se non c'è più industria?».

L'indomani, risveglio a Dresda, dopo qualche ora di sonno spezzato. Zervos distribuisce vitamine. All'alba, l'autobus fa il suo ingresso in Polonia. Dopo un giro per la fabbrica della Ronal di Walbrzych, finalmente si arriva a Jelcz. L'obiettivo è incontrare gli operai al cambio turno, alle ore 14, e di distribuire loro volantini scritti in polacco. È qui che l'avvocato Blindaüer, che è riuscita a convincere un rappresentante di Solidarnosc ad associarsi all'iniziativa, deve incontrarsi con gli operai. Solidarnosc ha posto le sue condizioni: che la frase "spezzare la macchina delle delocalizzazioni" fosse messa tra virgolette nel volantino, per non passare per terroristi… Che a quelle della Cgt fossero abbinate le bandiere della Cftc. Infine, che si andasse davanti alla fabbrica a gruppetti, perché la legislazione polacca vieta le manifestazioni di più di 15 persone se non autorizzate. Prima dell'iniziativa, il sindacalista polacco spiega che gli operai polacchi della Ronal «non sono favorevoli alla creazione di un sindacato, per paura del padrone. Probabilmente, non dimostreranno simpatia per la vostra causa, perché qui il tasso di disoccupazione è molto alto, intorno al 25%, da quando sono state chiuse le miniere. Quindi, si accontentano di avere un lavoro, anche se mal pagato».

Sul posto la realtà è un po' diversa. C'è già la polizia, per vigilare su quel che succede, e una ventina di guardie di una società privata, schierate a una cinquantina di metri dai cancelli. Alle ore 14, gli operai non escono in massa: verosimilmente la direzione li ha trattenuti per non farli incontrare con i loro colleghi francesi. Ma quello scarso centinaio di operai che escono prendono volentieri il volantino.

260 euro al mese di salario

Un dipendente racconta a una giornalista di Solidarnosc che le condizioni di lavoro sono dure, con i rumori, le temperature elevate della fonderia e le pressioni dei capi, ma almeno si è sicuri di avere un salario a fine mese, cosa che non succede in molte altre fabbriche. «Provano a mettere insieme un sindacato, ma il padrone non vuole e fa pressione», traduce. Guadagnano 1.200 zloty al mese, pari a 260 euro, cioè 4,5 volte meno dei lavoratori francesi. «È poco, perché i generi alimentari e la luce elettrica costano cari», commenta la giornalista. «Con un salario del genere, non si può andare al cinema né acquistare libri, né permettersi alcun extra per i figli. Qui, però, il salario minimo è di 820 zloty (180 euro) e il governo ha diminuito i sussidi di disoccupazione. Si versano se il tasso di disoccupazione in una zona è elevato, ma si aggirano intorno… ai 600 zloty soltanto (130 euro). Comunque, sono contenti di vedere i sindacalisti francesi e capiscono questa iniziativa. Sono sorpresi di trovarseli ai cancelli della loro fabbrica, perché normalmente è alla televisione che vedono le manifestazioni in Francia, le bandiere, i lavoratori ben organizzati». Sulla strada, alcuni abitanti di Jelcz e soprattutto dei lavoratori di altre fabbriche della zona si fermano per prendere i volantini e dare un'occhiata. Un operaio di Ronal-France, d'origine polacca e bilingue, spiega al megafono la situazione della sua fabbrica e lancia messaggi di solidarietà. I manifestanti gridano allo scandalo quando le guardie cominciano a strappare di mano i volantini di mano agli operai che entrano. Dopo più di un'ora, il via vai termina. Il corteo leva le tende.

Al ritorno, nonostante la brevità dell'iniziativa, gli operai non appaiono delusi. «È importante avere fatto passare un messaggio, avere fatto vedere ai polacchi la nostra forza», commenta Tierry Clauss, un delegato della Cgt. «Si vede che hanno paura. Ma anche da noi si aveva paura, e anche da noi la Ronal ha sempre cercato di fare fuori la Cgt. I militanti erano messi da parte, piazzati nei posti di lavoro più duri e senza mai affiancarli con altri lavoratori. All'inizio della disoccupazione parziale, un anno fa, la Cgt ha lanciato il segnale d'allarme chiedendo di conoscere la situazione; ma, dal momento che gli altri sindacati si sono opposti, non si è potuta otttenere a procedura della verifica contabile. Altrimenti, si sarebbe saputo molto prima che cosa stesse tramando la direzione». Michel, 39 anni, operaio d'origine congolese che lavora alla Ronal da tre anni, ritorna «scandalizzato dalla povertà della Polonia». «In Africa si è convinti che tutti i paesi europei siano sviluppati, ma sono rimasto impressionato da quello che ho visto qui. La gente ci guardava come se fossimo dei ricchi. La delocalizzazione è una brutta cosa, perché la nostra fabbrica chiuderà e ci troveremo per strada, con le famiglie da sfamare, con i debiti da pagare. Ma è positivo per quelli che stanno qui: un salario, anche se magro, permetterà loro di sfamarsi. Ad ogni modo, le fabbriche si spostano là dove otterranno maggiore profitto, decidono loro e noi subiamo». Cédric, 23 anni, nipote di un minatore siciliano trapiantato in Lorena, spera che «le cose si muoveranno in Polonia, che gli operai cominceranno a rivendicare salari uguali ai nostri. La direzione ha strappato loro di mano i volantini come se fossero dei bambini, e loro hanno lasciato fare perché non c'è lavoro, c'è la miseria. Quelli che hanno il potere sono davvero dei mascalzoni».

Lavoratori ancora più saldi

Qualche giorno dopo le elezioni europee, molti dichiarano di essersi astenuti. Uno ha infilato nell'urna un adesivo della Ronal. La maggior parte identificano l'Europa con la delocalizzazione, anche se la Ronal si è insediata in Polonia parecchi anni prima dell'allargamento dell'Unione Europea dello scorso 1° maggio. «Rifiuto tutto quello che è politica europea, perché mi toglie il posto di lavoro», prorompe André, anche lui d'origine polacca. «Tutti dicono che è colpa dell'Europa, ma non ne sono sicuro, perché le delocalizzazioni risalgono a prima dell'allargamento, e arrivano anche a Taiwan e in altre parti del mondo», azzarda un altro operaio. «Piuttosto è colpa dei finanziatori, che giocano con i posti di lavoro per guadagnare sempre più soldi».

Arrivando a Saint-Avold, dopo un'altra notte passata in autobus, Stéphan Zervos si compiace, perché questo viaggio ha rinsaldato ancora di più i lavoratori. In attesa della scadenza del 20 giugno, quando il tribunale deve pronunciarsi sulla liquidazione dell'impresa, i dipendenti della Ronal proseguiranno con le loro iniziative. Sembra che abbiano preso gusto ai iviaggi: questa mattina vanno a Bruxelles, per incontrare il deputato comunista europeo Francis Wurtz.

Fanny Domayrou
L'Humanité, (23-6-2004)
(Traduzione dal francese di Titti Pierini)

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