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(4 Luglio 2012)

hormuz

Martedì 03 Luglio 2012 23:00
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L’escalation di minacce nei confronti dell’Iran da parte occidentale ha fatto registrare ulteriori passi avanti nei giorni scorsi con l’entrata in vigore delle più recenti sanzioni americane e dell’embargo petrolifero approvato dall’Unione Europea. Oltre a queste misure, destinate a farsi sentire in maniera pesante sull’economia iraniana, la vigilia del nuovo round di negoziati, in scena questa settimana a Istanbul, è stata segnata da provocazioni e avvertimenti reciproci che indicano un progressivo aggravarsi della crisi costruita attorno al programma nucleare della Repubblica Islamica.

Lo stop alle importazioni di petrolio iraniano per tutti i membri UE era stato deciso già lo scorso gennaio, ma Bruxelles ha atteso fino al primo luglio per implementarlo, così da permettere ai paesi maggiormente dipendenti dal greggio di Teheran (Grecia, Italia e Spagna) di trovare forniture alternative.

L’embargo costituisce una sorta di autogol da parte europea, nonché un chiaro cedimento alle richieste statunitensi, dal momento che il venir meno del petrolio dall’Iran potrebbe creare non poche difficoltà di approvvigionamento e far aumentare le quotazioni, aggravando ulteriormente la crisi economica in atto.

Oltre al divieto di importare petrolio, le misure UE prevedono anche la proibizione per le compagnie assicurative del vecchio continente di stipulare polizze per le petroliere che trasportano il greggio iraniano, anche verso paesi terzi. Questa disposizione risulta particolarmente minacciosa per Teheran, poiché le compagnie europee provvedono per la maggior parte dei contratti assicurativi in questo ambito.

Gli ostacoli riguarderanno soprattutto le esportazioni verso i paesi asiatici. Se, ad esempio, il Giappone ha da poco approvato coperture assicurative garantite dal governo, la Corea del Sud, quarto importatore di greggio dall’Iran, ha invece annunciato che, alla luce della nuova realtà, sarà costretta a interrompere del tutto le forniture provenienti da Teheran.

La legislazione americana è entrata a sua volta in vigore il 28 giugno e prevede l’imposizione di sanzioni per qualsiasi entità o compagnia straniera che intrattenga rapporti d’affari con la Banca Centrale iraniana. L’amministrazione Obama ha però escluso temporaneamente dalle sanzioni una ventina di paesi, dopo che questi hanno ridotto più o meno sensibilmente le proprie importazioni di petrolio dall’Iran. In questa lista di paesi non figurava inizialmente la Cina, la quale è stata aggiunta solo all’ultimo momento per evitare il precipitare delle relazioni tra Pechino e Washington.

Fino allo scorso anno, i paesi dell’Unione Europea importavano poco meno di un quinto del greggio esportato da Teheran. Più in generale, le varie sanzioni unilaterali adottate in questi ultimi mesi sembrano aver ridotto le vendite di petrolio iraniano di circa il 40%.

Le conseguenze sull’economia del paese sono molto pesanti e colpiscono in particolare la classe media e i ceti più disagiati. Non solo la moneta iraniana (rial) ha visto il proprio valore crollare, ma l’inflazione ha subito una netta impennata fino ad arrivare, secondo i dati ufficiali, al 25%, anche se per i generi di prima necessità risulta di gran lunga superiore.

Secondo la versione ufficiale, le sanzioni farebbero parte di un approccio che, come sostengono gli Stati Uniti e i loro alleati, dovrebbe convincere Teheran a cedere alle richieste del gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) sulla questione del nucleare.

In realtà, le intenzioni reali di Washington, la cui posizione prevale all’interno dei P5+1, sono quelle di indebolire il più possibile l’economia e il governo iraniani, così da preparare il campo ad un sempre più probabile intervento armato per rovesciare il regime.

Le manovre americane a questo scopo sono d’altra parte evidenti. A confermalo più recentemente è stato un articolo del New York Times di martedì, secondo il quale gli USA starebbero inviando “significativi” rinforzi militari nel Golfo Persico per impedire l’eventuale chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui transita una buona parte delle esportazioni di petrolio proveniente dal Medio Oriente, e per avere a disposizione un maggior numero di aerei da guerra in grado di colpire obiettivi in territorio iraniano in caso di conflitto con Teheran.

Un simile dispiegamento di forze per accerchiare l’Iran avviene ovviamente in stretta collaborazione con le monarchie sunnite assolute riunite nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), tutte alleate di Washington e fortemente ostili all’espansione dell’influenza della Repubblica Islamica sciita nella regione.

A questa escalation militare, che rappresenta una seria minaccia per la sicurezza iraniana, vanno aggiunte poi le altre tattiche impiegate da Stati Uniti e Israele per provocare la reazione di Teheran, così da giustificare un’aggressione armata.

Tra di esse spiccano gli assassini di svariati scienziati nucleari in territorio iraniano negli ultimi anni e un vero e proprio programma di guerra informatica - operazione “Giochi Olimpici”, avviata ai tempi di George W. Bush e ripresa da Obama - per colpire e danneggiare le installazioni nucleari di Teheran.

Con ogni probabilità in risposta a queste ed altre provocazioni occidentali e di Tel Aviv, lunedì da Teheran è circolata la notizia che il parlamento starebbe valutando un provvedimento per chiudere lo Stretto di Hormuz alle petroliere dirette verso quei paesi che hanno adottato l’embargo del greggio iraniano. Martedì, inoltre, il governo della Repubblica Islamica ha annunciato di aver testato con successo dei missili a medio raggio in grado di colpire Israele in caso di minaccia alla propria sicurezza.

I negoziati, intanto, sono ripresi nella capitale turca ma l’incontro è stato esclusivamente tra personale tecnico di entrambe le parti e senza diplomatici di alto livello. Dopo il sostanziale fallimento dei vertici di Baghdad e di Mosca, l’obiettivo del summit di Istanbul riflette la crescente distanza tra le posizioni e prevede soltanto la verifica della possibilità di tenere aperto un qualche canale di comunicazione tra l’Iran e i P5+1.

Gli Stati Uniti, su richiesta di Israele, continuano d’altra parte a chiedere condizioni inaccettabili a Teheran senza promettere nulla di sostanziale in cambio. Che le trattative in corso e sull’orlo del tracollo, così come l’intera questione del nucleare, fabbricata ad arte dall’Occidente con la complicità dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), siano solo un pretesto per fare pressioni sull’Iran in vista di un futuro cambio di regime viene ormai confermato più o meno apertamente anche dal governo americano.

Infatti, una fonte anonima interna al Pentagono ha ammesso martedì in un’intervista al New York Times che il dispiegamento di forze USA nel Golfo “non ha a che fare solo con le ambizioni nucleari di Teheran”, peraltro legittime, bensì anche “con le ambizioni egemoniche regionali” della Repubblica Islamica.

In altre parole, a guidare la politica aggressiva di Washington nei confronti dell’Iran non sono tanto le preoccupazioni, del tutto infondate, per la possibile produzione di armi atomiche, quanto le aspirazioni di questo governo a svolgere un ruolo di primo piano nella regione. Aspirazioni, quelle iraniane, che ostacolano l’espansione e il controllo assoluto da parte americana di un’area strategica cruciale che si estende dal Medio Oriente fino all’Asia centrale.

Michele Paris - Altrenotizie

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