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Marghera ieri, oggi... e domani?

Intervista a Manuela Pellarin, autrice del documentario “Marghera, ultimi fuochi”

(21 Luglio 2004)

Con molta buona volontà, un po’ di soldi dell’assessorato al lavoro della Provincia di Venezia ma, soprattutto, con grande onestà culturale e umana partecipazione Emanuela Pellarin presenta in questi giorni il suo documentario “Marghera, ultimi fuochi”.

Sono immagini senza retorica di un gigante in ginocchio: anche se sfiora altre realtà - la Fincantieri, ancora attiva - il cortometraggio è, di fatto, centrato sulla crisi della chimica: averlo costruito tutto sul riandare tra passato e presente accentua il senso di smarrimento e di incertezza che, - è inutile negarlo - stanno vivendo i lavoratori e la città circa il loro futuro economico e sociale.

Aver intercalato il presente fatiscente di impianti enormi e inutili con le testimonianze vive dei protagonisti delle lotte di quasi mezzo secolo conferisce al lavoro un valore non soltanto storico, ma, soprattutto di stimolo alla riflessione. Ne sono prova gli accesi dibattiti che in questi giorni seguono alla proiezione. dando voce a chi le lotte per il salario e per le condizioni di lavoro le ha fatte negli anni ‘50, a chi, alla fine degli anni ‘60, è stato protagonista della grande ondata sociale e politica per l’affermazione della democrazia operaia in fabbrica e fuori, Emanuela Pellarin mostra con l’efficacia del vissuto l’altra faccia di una sviluppo industriale selvaggio e criminale le cui ferite sono ancora aperte.

E’ la lucida intelligenza di Augusto Finzi, scomparso qualche giorno fa, a riportarci a quei giorni in cui la volontà - e la capacità - operaia riuscì a proiettarsi dalla fabbrica al territorio per cambiare non solo le condizioni di lavoro e della rappresentanza all’interno degli stabilimenti, ma incise profondamente nei rapporti sociali, nella cultura e nel costume della società veneziana.


Ringraziando Emanuela Pellarin per questo suo lavoro, le chiediamo:

Da dove è nata l’esigenza di fare questo documentario?

L’esigenza nasce dalla voglia di conoscere la storia del polo industriale di Porto Marghera, nel momento in cui è arrivato alla fase conclusiva, almeno di quello che è stato lo sviluppo della prima e della seconda zona industriale, dal momento che a queste realtà industriali non ne sono subentrate di altre e non ci sono stati processi di riconversione.
Mi sembrava importante raccogliere quello che avevano rappresentato la prima zona dal 1917, quando sono state stipulate le prime concessioni, e poi dal 1922 quando hanno cominciato a costruire per arrivare poi, alla fine degli anni ‘20, inizio degli anni ‘30, con i primi lavori, coi tipi di insediamenti industriali che ci sono stati in prima zona e dopo la storia e lo sviluppo di Porto Marghera dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Nel tuo documentario tu dedichi una grossa parte alle lotte del ventennio ‘50-’70. Queste lotte come sono viste nel tuo lavoro? Come storia, come passato, di cui ci si deve rendere conto, ma è passato, o come un momento che ha una continuità nel presente?

Le lotte del ‘68 sono un momento di passaggio obbligatorio. Penso che non si possa parlare di storia operaia e di storia industriale prescindendo dagli anni del ‘68. Nel documentario il periodo del ’68 è anticipato solo dalle lotte alla Breda, ma solo perché non era possibile nell’economia del documentario raccontare anche altri momenti come la Sirma, per esempio, o anche altri passaggi che possono esserci stati nel ‘63 e nel ‘65.
Il ‘68 in realtà coinvolge tutte le fabbriche e quindi era un momento in cui era ancora possibile far convergere esperienze, in cui parlando di alcuni si parlava poi di tutti.
E in più tutte le istanze e le elaborazioni degli anni precedenti in qualche modo sono arrivate al momento culminante sia dell’elaborazione teorica sia delle forme di lotta, perché prima le forme di lotta non erano così avanzate come lo sono state poi nel ‘68.
Quello che io ho capito facendo questo lavoro e che prima non avevo colto, è che anche per capire quello che è successo dopo, quindi tutti i meccanismi di ristrutturazione e la fine del fordismo, il ‘68 è un punto di snodo cruciale, per capire le trasformazione successive, i nuovi modelli industriali e il nuovo tipo di sviluppo.

Una domanda particolare: in qualche tua inquadratura ho recepito l’eco di alcuni film, film a soggetto non documentari, degli anni ‘20 e ‘30 dell’espressionismo tedesco: la macchina come entità materiale, il luogo del lavoro con questo aspetto sia gigantesco sia degradato. Hai avuto in mente questi vecchi modelli?

No, sono i luoghi, sono questi posti in sé che hanno intrinsecamente questa valenza. Questo tipo di architettura, di struttura non possono che essere inquadrati in quel modo.
Io avevo bisogno di conoscere l’area industriale che va dalle barene fino a Fusina e volendo fino a Malamocco, di sapere che cosa c’era dentro, che cosa si faceva.
Sono oltre duemila ettari soltanto della prima e della seconda zona industriale,
un territorio maggiore a quello di Venezia, di Marghera e Mestre tutte tre assieme, dedicato soltanto alle fabbriche e in cui hanno lavorato, negli anni ‘70, oltre 40.000 persone.
E’ difficile non considerare questo luogo protagonista a tutti gli effetti anche per il contesto ambientale così delicato: in gronda lagunare con un centro storico speciale e unico al mondo come Venezia. Il suo impatto visivo rimane sotto gli occhi di tutti noi anche adesso che ci lavorano solo 10.000 persone o forse meno.

Facendo quegli inserti parlati con vecchi e nuovi protagonisti del mondo del lavoro di Marghera hai dato il senso di quella che è stata l’evoluzione del rapporto di classe all’interno del luogo di lavoro. Tu hai sentito una differenza tra le testimonianze di quelli prima del ‘68 e di quelli dopo il ‘68?

Sì c’è una differenza di identità evidente tra i giovani lavoratori, quelli che attualmente ancora lavorano dentro alle fabbriche di Porto Marghera, e i vecchi. Sono separati da un abisso.
Ad esempio per l’incertezza che ormai connota la vita dei nuovi lavoratori, che in qualche modo non hanno nessun futuro, specie quelli che sono occupati nel Petrolchimico che è destinato a chiudere.
Chiaramente c’è stato un grande equivoco alle origini della loro scelta lavorativa, perché vengono da degli istituti professionali che li preparavano a quel tipo di impiego, che poi si è rivelato non essere per niente sicuro.
Al tempo stesso proprio il Petrolchimico è stato uno dei posti dove si sono sviluppate le lotte più importanti per la storia di Porto Marghera.
Entrare nel merito se debba sopravvivere un’industria come il Petrolchimico con le lavorazioni che ci si fanno, con la chimica di base, con i morti e la devastazione che una scelta industriale come quella ha provocato, è una questione su cui io mi astengo, non entro nel merito.
Nel documentario mi limito soltanto a rappresentare la realtà: ci sono dei giovani lavoratori che ci lavorano, ci sono stati i vecchi che hanno combattuto perché ci fossero delle condizioni di lavoro migliori.
Io poi ho visto che cosa erano i vecchi impianti ed è stato in qualche modo come vedere un campo di sterminio.
E’ impressionante, si percepisce la sofferenza, si sentono le condizioni tragiche e drammatiche in cui si lavorava in tutti questi capannoni, tutti questi stabilimenti vicini tra di loro.
Ho avuto modo di vedere adesso mentre le stavano smontando le autoclavi dove i lavoratori entravano per fare pulizia con i raschietti, ho visto i cartelli di pericolo che hanno messo in fasi successive per avvisare di portare i guanti e di proteggersi in qualche modo.
E’ come andare in un museo dell’orrore, si capisce il prezzo che si è pagato per arrivare al presente.

Ogni opera d’arte, anche se usare questo vocabolo può essere enfatico, ha o dovrebbe avere una sua ragione morale, dovrebbe trasmettere qualcosa, dire qualcosa, ipotizzare qualcosa. Cosa ipotizza il tuo documentario?

Ipotizzare non ipotizza proprio niente. La sollecitazione nell’orientarmi in questi luoghi e in queste storie era l’importanza per me di conoscerli.
Penso che questo documentario possa interessare chi come me sente il bisogno di sapere un po’ di più di quello che è successo a Porto Marghera.
Il problema è che sia dal punto di vista di una documentazione filmata sia da quello di una documentazione libraria o di studi c’è molto poco.

Il documentario, per quanto un documentario non sia mai esauriente e non possa esserlo, offre dei suggerimenti e questo era l’obiettivo.
Cosa ha dato a te questo lavoro?


E’ stato fondamentale indagare su queste vicende umane che riguardano il lavoro, ma che riguardano anche le sfide dell’uomo, riferite sia al lavoro sia all’emancipazione.
Al tempo stesso sentivo il fascino della storia industriale, di quello che l’uomo costruisce strappandolo alla natura. Un discorso che forse non sono in grado di spiegare esattamente, perché è soprattutto filosofico, che però percepisco e trovo che abbia una grande forza.
Andando a Porto Marghera, in questi luoghi dove tanta storia umana e industriale è stata vissuta si percepisce sia il lavoro sia la sofferenza, sia la sfida umana, sia in qualche modo il progresso con tutte le sue contraddizioni.

Rimane un interrogativo: questo degrado, questo programmato abbandono quale futuro nasconde? Quali finalità speculative sulle aree vi sottostanno in vista di una terziarizzazione della zona?

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