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No Tav

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(12 Aprile 2012) Enzo Apicella

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Il grembiule a quadretti

(28 Luglio 2012)

Questo testo verrà distribuito alla marcia dal Giaglione a Chiomonte di sabato 28 luglio

all'asilo

C’è chi pensa che la lotta No Tav attraverserà le prossime generazioni. Il No Tav ha già segnato le vite di tante persone. Oggi in piazza ci sono ragazzi che ieri erano bambini, tante volte ci è capitato di accompagnare nell’ultimo viaggio uno di noi.
Finora le botte, gli arresti, la violenza non sono bastate a piegarci. Anzi! Ogni volta che hanno colpito duro la nostra rivolta è dilagata ovunque mettendoli in difficoltà.
Ma.
Le lotte e i movimenti durano quando segnano punti all’avversario. Le sconfitte alla lunga logorano. La rassegnazione è una malattia insidiosa e mortale, è la malattia che attraversa da lunghi anni il nostro paese, la malattia di chi ha perso la speranza che questo non sia il solo mondo possibile.
È su questo che puntano i nostri avversari. Auspicano che un anno di occupazione militare riesca a fiaccare la nostra resistenza. Non sgomberano subito il campeggio, perché sanno che sapremmo reagire, ma provano a soffocarci con continui controlli, con i fogli di via, con l’esistenza stessa del cantiere militarizzato.
Non siamo più nel 2005. Allora si andò di slancio e il governo venne preso alla sprovvista: c’era in noi tutta la forza della prima volta, l’insurrezione si fece con la spontaneità con cui si impastano i sogni dei bambini. Prima che arrivi il buon senso, la disciplina che incarcera i corpi ed ingabbia le menti, prima del grembiule a quadretti, della campanella, del banco, del tempo rubato che dalla scuola porta alla servitù del lavoro.
In questi sette anni siamo stati in gamba. I giochi della politica, gli amministratori voltagabbana, la sottile illusione che il gioco delle istituzioni si potesse giocare con altre carte, tra liste civiche e “democrazia partecipativa” non ci hanno fatto smarrire la via.
Quando le armi della politica hanno ceduto il passo alla politica delle armi abbiamo saputo ancora una volta metterci di mezzo, nella chiara consapevolezza che solo la nostra azione diretta poteva impedire che l’arroganza e la violenza dispiegata dello Stato cantassero indisturbate la loro canzone.
Sapevamo che quando il potere non riesce a sedurre, quando il grande fratello non riesce a farsi amare, allora colpisce ed uccide.
Oggi ci serve forza ed intelligenza. I nostri avversari sono cattivi ma non sono stupidi, sanno usare l’inganno e la violenza, i giudici e i poliziotti, i giornalisti e l’illusione partecipativa.
Oggi la partita non è (più) solo sul Tav. In ballo c’è il disciplinamento di un movimento che ha saputo rimettere al centro la questione sociale, che ha saputo riprendersi la facoltà di decidere e di pensare un altro futuro, perché sa vivere un altro presente.
Questa volta, lo sappiamo bene, lo Stato intende andare sino in fondo per spezzare un movimento divenuto simbolo di rivolta un po’ ovunque.
Dobbiamo tenerne conto. Soprattutto dobbiamo decidere il senso di una lotta il cui esito resta comunque incerto. Abbiamo l’ambizione di vincere, perché abbiamo imparato che vincere fa bene. Conta anche vincere bene, senza deleghe a qualche cacciatore di poltrone, senza rinunciare mai alla propria dimensione di movimento popolare, senza affidarsi ai giochi della politica internazionale.
In quest’anno e più di lotta durissima abbiamo imparato tanto, ma non sempre l’abbiamo saputo mettere a frutto.
Lontani dal loro fortino/cantiere, lontani dalle recinzioni e dal filo spinato, siamo riusciti a metterli in difficoltà, rendendo visibile la violenza dispiegata dello Stato. Una violenza legale, che sempre meno persone considerano legittima.
Hanno scelto con cura il posto dove fare il tunnel geognostico. Un’area poco abitata, lontano dalle case e dagli occhi dei più, un posto perfetto per un’occupazione militare. Sperano che il movimento si estenui nell’assedio del cantiere militarizzato.
Gli ingranaggi dell’occupazione militare e della macchina che lucra e propaganda il Tav sono dappertutto. Anche noi possiamo essere dappertutto.
Sinora però siamo stati quasi timidi. Siamo usciti dal catino solo per reagire alla loro violenza, non abbiamo saputo costruire una solida rete che metta in difficoltà tutti gli snodi dell’occupazione militare.
Quando le nostre barricate attraverseranno tutti i paesi, quando le truppe saranno obbligate a valicare dal Sestriere, perché questa valle gli si chiuderà ancora una volta davanti allora – come nel dicembre del 2005 e nel febbraio del 2010 – li vedremo fare marcia indietro.
Ridurre la nostra resistenza alla ripetizione rituale della pressione sul cantiere, sperando che il tempo sia dalla nostra, è il primo sintomo della rassegnazione. Si va perché si deve, si va perché non si vuole fare la fine di altri movimenti, ridotti ad un ruolo meramente testimoniale, si va perché quelle reti, quelle ruspe, quegli uomini in armi sono intollerabili. Si va perché è giusto andarci.
Ma.
Non basta e non può esaurire la nostra lotta. Sarebbe miope non vederlo.
Il fortino non è una via crucis da percorrere per celebrare il rito collettivo del taglio di qualche metro di filo spinato.
Il taglio delle reti è indubbiamente il segnale forte della volontà di rifiutare le regole di un gioco truccato. Ma se resta un esercizio, diviene inutile. Tanto inutile che tanti che lo praticavano oggi restano a casa. I militari fanno scavare le buche e poi le fanno riempire, perché i soldati non devono pensare ma ubbidire. Noi non siamo soldati, siamo gente che decide di testa propria senza farsi comandare da nessuno.
La Val Susa è un laboratorio vivo dove radicalità dell’agire e radicamento sociale si coniugano in una sintesi felice, mai data per sempre, ma costantemente rinnovantesi, nella sfida ai poteri forti.
Una sfida che può e deve tornare a coinvolgere tutti, che può e deve puntare al blocco della valle, allo sciopero generale, alla rivolta che li obblighi a mollare senza rimettere in moto i tavoli di mediazione, i giochi della politica come accadde nel dicembre del 2005, quando la vittoria ci sfuggì di mano per aver esitato a mantenere ferma la resistenza.
In questi lunghi mesi tanta gente di ogni dove è scesa in piazza al nostro fianco, perché le nostre ragioni sono quelle di tanti. Il governo ha fatto una macelleria sociale senza precedenti. Si sono presi quello che restava di libertà e tutele, si sono presi la nostra salute, l’accesso ai saperi, alle risorse indispensabili alla vita. Nonostante piovano pietre prevale la paura, l’io speriamo che me la cavo, la ricerca meschina di una salvezza individuale. Ma i sommersi sono ben più dei salvati.

La lotta dei No Tav è stata l’unica scintilla che ha spezzato la paura che ha rotto la rassegnazione, che ha dato fiducia nella possibilità di invertire la rotta.
Questa scintilla, se riesce a mantenere forte la propria fiamma, se riesce a farsi pratica viva può accendere ovunque nuovi focolai di lotta.
Oggi occorre un nuovo patto di mutuo soccorso. Un patto vero che si costruisca spontaneamente tra chi lotta in ogni dove, non certo l’ennesima assise politica dell’ennesimo super movimento, l’ultima delle creature che uccidono in breve chi le ha partorite.
Presto ci saranno le elezioni, presto i giochi della politica istituzionale in chiave partecipativa reclameranno le loro vittime. È tempo di costruire una prospettiva diversa. È tempo che la capacità di fare politica senza deleghe sperimentata in questi anni tra una barricata e un pranzo condiviso, esca fuori dalla gabbia istituzionale.
Costruire assemblee popolari che in ogni contrada avochino a se la facoltà decisione, svuotando e delegittimando chi gioca il gioco del potere, è una prospettiva possibile un po’ ovunque. Tante Libere Repubbliche, tante Comuni contro il Comune, tanti spazi di libertà che allarghino il fronte, che mettano in gioco intelligenze e cuori, che ridisegnino la mappa del territorio in cui viviamo.
Solo se sapremo scandire con intelligenza e passione un tempo altro potremo mettere – ancora una volta – in difficoltà un avversario che non fa sconti a nessuno. Occorre estendere il conflitto, aprire sempre nuovi ambiti di autogestione, per spezzare l’accerchiamento e creare le condizioni per mandarli via. E non solo dalle reti di Clarea. Non c’è pace per chi viene a farci guerra.
Non siamo più bambini. Non permetteremo a nessuno di metterci il grembiule a quadretti per rubarci i sogni.

anarres-info

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