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La fatalità dominante

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Ilva: La salute si difende eliminando la nocività

(23 Agosto 2012)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in ciptagarelli.jimdo.com

Ilva taranto

foto: ciptagarelli.jimdo.com

All’Ilva, come in molte fabbriche, esiste la necessità immediata e l’urgenza di intervenire con misure di protezione per bonificare la fabbrica e l’ambiente, sottraendo i lavoratori e i cittadini al lento - ma inevitabile - massacro cui sono sottoposti. Le prime vittime dell’Ilva sono gli operai che ci lavorano e le loro famiglie.

Come scrive il Tribunale del Riesame di Taranto “Inquinare fu una scelta” che impone “l’interruzione della catena dei reati ancora in atto”. Inquinamento attuato coscientemente con la complicità di istituzioni comprate a suon di “mazzette”.

La contrapposizione fra difesa del posto di lavoro e del salario e salute in fabbrica e nel territorio da sempre attraversa il movimento sindacale e operaio.

Negli anni 70’, in un’altra situazione economica, nelle fabbriche di Sesto San Giovanni la contraddizione fu risolta direttamente dagli operai con fermate improvvise, scioperi spontanei di gruppi di lavoratori, in particolare delle lavorazioni a caldo di forgia e fonderia (costretti a lavorare a lavorare pezzi di acciaio dai 1250 ai 1500 gradi centigradi) quando, nei mesi estivi, la temperatura sul posto di lavoro diventava intollerabile provocando continui svenimenti fra gli operai.

Queste lotte contro la nocività - che non delegavano a nessuno il problema della salute in fabbrica, né al padrone né al sindacato, attraverso cortei interni e discussioni con tutti gli operai - costrinsero i sindacati a rincorrere gli operai anche sul problema dell’organizzazione capitalistica del lavoro.

All’Ilva i sindacati confederali, invece di intervenire nel dibattito organizzando assemblee e lotte per la tutela del posto di lavoro e della salute operaia, denunciando i rischi per la salute in fabbrica e nel territorio - da anni hanno sposato la linea del padrone della competitività e della produzione ad ogni costo, ponendosi ora alla testa della mobilitazione reazionaria a favore del padrone e dei suoi leccapiedi.

La giustizia e la legge dello stato dei padroni anche in questo caso usa due pesi e due misure. Arresti domiciliari (nelle loro lussuose case) per Riva e i dirigenti responsabili della morte per cancro di migliaia di operai e cittadini. Galera per i NO TAV e coloro che hanno protestato contro il G8 di Genova.

Il dominio incontrastato del padrone nella fabbrica e nella società si evidenzia con le istituzioni che si schierano sempre col padrone. Come si sapeva da anni ed ora si è evidenziato nelle inchieste, in questi anni politici, sindacalisti, istituzioni, tecnici, erano e sono sul libro paga o usufruiscono delle generose “donazioni” della famiglia Riva. Contributi generosi padron Riva li ha dati a tutti. Dai 245 mila euro a Forza Italia ai 98mila del (futuro segretario del Pd), Pierluigi Bersani. Persino la chiesa e la parrocchia del quartiere Tamburi negli anni 2010 e 2011 hanno goduto di queste “donazioni” in cambio dell’assoluzione.
Con l’ultima donazione di 365 mila euro alla chiesa padron Riva, oltre che il paradiso, si è comprato la benevolenza dell’istituzione religiosa che nei suoi sermoni non perde occasione di magnificare la sua generosità.

Delegare il posto di lavoro e la salute al sindacato, alle istituzioni e al padrone, è il modo migliore per perderli.

La difesa del posto di lavoro e della salute si realizza solo nella critica all’organizzazione capitalistica del lavoro, quando gli operai manifestano la loro autonomia di classe concretizzandola con scioperi contro il padrone e i dirigenti responsabili della brutalità delle condizioni di lavoro nocive.

Delegare al padrone e agli istituti specializzati il controllo della nocività e dell’inquinamento ambientale sul lavoro e sul territorio è come legarsi al collo una corda sperando nella buona fede del boia che l’ha in mano.

Lottare oggi contro lo sfruttamento significa rischiare anche di perdere il posto di lavoro e un salario che, per quanto insufficiente alle necessità di vita permette di tirare avanti garantendo il pranzo e la cena, per quanto sempre più magri, in tempo di crisi.

Astenersi dalla lotta o, peggio, lottare per difendere il proprio padrone e i dirigenti accusati della morte di centinaia di operai e migliaia di cittadini, non garantisce in ogni caso né il posto di lavoro né la salute.

Il sistema capitalista, nella sua ricerca del massimo profitto, distrugge gli esseri umani e la natura e non si può accettare di barattare il lavoro di alcuni contro la salute di tutti.

Si lavora per vivere, non per morire! Se i padroni ci vogliono costringere a lavorare per continuare a intascare profitti facendoci rischiare la vita ogni giorno in fabbrica in reparti nocivi e inquinando il territorio, dobbiamo dire chiaramente che noi vogliamo lavorare in sicurezza e che a condizione di morte niente lavoro.

La scelta fra il morire di fame e il morire di cancro non è una scelta. La lotta del movimento operaio è da sempre una lotta contro lo sfruttamento, per eliminarne le cause, la società capitalista basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

La salute si rivendica e la nocività si elimina. Invece di fare cortei a favore del padrone, noi chiediamo la bonifica immediata dei siti inquinati e la chiusura dei reparti incriminati, con salario pieno per tutti i lavoratori interessati.

E’ questa la lotta che vale la pena di fare.


Sesto San Giovanni, 22 agosto 2012

Michele Michelino
Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio

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