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"Incidenti"

(6 Novembre 2010) Enzo Apicella
Esplode la Eureco di Paderno Dugnano: sette operai feriti, quattro rischiano la vita. In Puglia tre morti sul lavoro nell'ultima settimana

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    (Di lavoro si muore)

    L'ecatombe di Karachi tra mafie e corruzione

    (13 Settembre 2012)

    Inferno in una fabbrica tessile della principale città pakistana. Almeno 289 operai sono morti tra le fiamme. Tutte le uscite erano bloccate. Anche a Lahore brucia uno stabilimento, muoiono altri 25 lavoratori

    karachinferno

    Il bilancio è destinato ad aggravarsi, dicono le autorità di Karachi. Ma è già un bilancio da inferno quello dell'incendio scoppiato martedì sera in una fabbrica tessile alla periferia della maggiore città del Pakistan: ieri dalle macerie fumanti erano stati estratti i corpi di 289 persone bruciate vive. E si sommano alle vittime di un altro incendio avvenuto sempre ieri in una fabbrichetta di scarpe alla periferia di Lahore, altra grande città pakistana, capitale del Punjab, dove sembra che siano morte 25 persone.
    Le fiamme sono scoppiate nel giorno di paga in uno dei tanti stabilimenti della zona chiamata Site, acronimo del maggiore distretto industriale di Karachi - con i suoi 18 milioni di abitanti, il porto e la sua cintura industriale , la metropoli affacciata sul mare arabico rappresenta l'ossatura dell'economia pakistana. Dunque l'edificio era pieno e le porte chiuse, come sempre, secondo i dirigenti aziendali per impedire furti - o che i lavoratori se ne andassero prima della fine del turno. Non è ancora stato detto con chiarezza cosa ha provocato le fiamme; certo è che sono divampate in fretta alimentate dai ritagli di stoffa e di materiali sintetici. In un paio di minuti tutto era avvolto dal fuoco. L'inferno, se esiste, deve assomigliare a quello che hanno raccontato gli operai sopravvissuti. «In due minuti tutto era in fiamme. Ma il cancello era chiuso, eravamo chiusi dentro» dice ai cronisti Liaqat Hussain 29 anni, ora ricoverato con il corpo coperto di ustioni. «Tutti hanno cominciato a urlare e correre alle finestre», racconta Mohammad Asif, operaio 20enne che ce l'ha fatta saltando dal terzo piano. I cronisti hanno raccolto lamenti disperati e pieni di rabbia all'obitorio del locale ospedale civile, dove sono ora accatastati i cadaveri avvolti in lenzuola bianche, molti ancora da identificare. Molti dei corpi senza vita sono stati estratti da due stanzoni sotterranei, non notati in un primo tempo: risparmiati dalle fiamme, i lavoratori sono morti asfissiati perché l'uscita era chiusa.
    «I padroni si preoccupano più di salvaguardare la loro fabbrica di vestiti e i loro affari che dei lavoratori», dice un altro sopravvissuto, mostrando la foto di un cugino che pure lavorava in quella fabbrica ma ora è disperso. Aggiunge: «Se non ci fossero state le griglie metalliche alle finestre, molte più persone si sarebbero salvate. E poi la fabbrica era sovraffollata. Ma chi si lamentava, rischiava il licenziamento». Lo stabilimento impiegava circa 1.500 persone, e il singolo turno di lavoro 450: ieri sera si contavano 35 feriti ma non si capiva ancora bene quanti dispersi mancassero ancora al conto. Sembrava che nell'edificio carbonizzato si trovassero ancora delle persone in vita, ma le autorità temevano un crollo prima di riuscire a trovarle. Mentre davanti alle macerie fumanti molti parenti angosciati aspettavano notizie.
    Un rapporto preliminare del governo provinciale del Sindh, la provincia meridionale di cui Karachi è la capitale, ha in effetti concluso che le uscite di sicurezza erano bloccate, e questo ha portato a un bilancio così pesante, e che le norme di sicurezza non erano rispettate. Non che questo stupisca nessuno: simili disastri incendi o esplosioni di fabbrichette, sono frequenti nelle periferie industriali di Karachi o di Lahore (l'ultimo caso risale a un paio d'anni fa). Ieri il ministro provinciale del lavoro ha ordinato ispezioni straordinarie di tutte le fabbriche e impianti industriali del Sindh nelle prossime 48 ore. Mentre il capo della polizia di Karachi ha annunciato che i suoi uomini stavano conducendo perquisizioni in diverse zone della città alla ricerca dei proprietari della fabbrica andata a fuoco, fuggiti appena si sono resi conto del disastro. Contro di loro sono state formalizzate imputazioni per negligenza, e il ministro dell'interno del governo federale ha annunciato di aver messo i loro nomi sulla lista di interdizione all'espatrio.
    Non è molto diversa la storia a Lahore: là sembra che l'incendio sia stato provocato da un generatore di corrente malfunzionante, e che la fabbrichetta sia una delle decine di unità industriali abusive che affollano la periferia della città per altro considerata tra le più benestanti e sofisticate del paese. Anche qui, in occasione di un analogo incidente un paio di anni fa le autorità provinciali avevano ordinato ispezioni e controlli di sicurezza, e minacciato multe. Poi, passata l'emozione suscitata da una tragedia, tutto torna come prima.
    Ieri un editoriale del The Express Tribune, quotidiano pakistano in lingua inglese con sede a Karachi, scriveva che incidenti simili sono da aspettarsi, visto che le autorità municipali non si sono mai curate davvero di far applicare le norme edilizie né di procedere a ispezioni di sicurezza: «La grave mancanza di sicurezza è una norma. Le mafie dei palazzinari hanno il sopravvento, e i funzionari di governo hanno dimostrato di non saper impedire illegalità e violazioni di ogni sorta».
    Altri sottolineano che negli ultimi due anni il governo civile è avvitato in una mortale lotta di potere che oppone il prsidente Asif Ali Zardari alla magistratura e all'esercito, mentre la corruzione dilaga, l'economia è al collasso, il paese va a rotoli. Karachi, città vitale per l'economia del paese, è sprofodata in una sorta di guerra interna combattuta da milizie religiose più o meno affiliate ai Taleban e da partiti etnici: ed è una guerra sanguinosa, che però ne oscura un'altra, non meno violenta, quella di relazioni industriali violente, dove il precariato è la norma, e dove gli operai (spesso operaie) che tentano di organizzarsi devono affrontare picchiatori, licenziamento, magari anche la galera. Questo ci aveva raccontato un gruppo di operaie e sindacaliste del tessile incontrate non molto tempo fa proprio a Karachi, nella sede dell'Istituto pakistano di ricerca sul lavoro (Piler), istituzione della società civile che riempie un vuoto importante: quello di un movimento operaio organizzato. Non che manchino le unioni di lavoratori, ma non sono riconosciute che come associazioni private. La principale fonte di sfruttamento è il sistema del subappalto, spiegavano: uno stabilimento può avere un migliaio di operai, ma ne assume solo cento: gli altri dipendono dal contractor. Così il lavoratore non ha modo di rivendicare nulla, non avrà neppure quei pochi benefici che a volte i padroni concedono, come il trasporto. Raccontavano storie di salari non pagati per mesi, o di buste paga che dichiarano cifre molto più alte di quelle che arrivano davvero in mano al lavoratore. «Il tribunale del lavoro non ci protegge davvero: subisce le pressioni degli industriali, che sono persone influenti. Magari non ti pagano il salario per parecchi mesi, oppure contano meno ore di quelle che abbiamo lavorato, e lo fanno in tutta impunità», raccontava un sindacalista. Così, affollamento e cancelli chiusi restano la norma. E se ne tornerà a parare alla prossima tragedia.

    Marina Forti - Il Manifesto

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