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ISOLE GALLEGGIANTI

Antologia di poesia femminile dal Sudafrica (1948 – 2008)

(14 Settembre 2012)

Ci sono ferite.

Scritte sul vento o sull’acqua
La parola è carne. Presto o tardi
La carne parlerà con suoni
Così cupi da bucare la pelle.

Le stigmate sono visibili
In questi casi : ci sono ferite
Dentro cui un Tommaso non oserebbe
Affondare la mano.

Ruth Miller



“Isole galleggianti” (a cura di Paola Splendori e Jane Wilkinson, edizioni Le Lettere, 2011) raccoglie le voci di alcune donne sudafricane che, attraverso le loro poesie, raccontano il loro Paese. Il titolo del libro richiama simbolicamente l’esistenza di piccoli mondi, costruiti e nascosti da cumuli aggrovigliati di erba, radici, canne e zolle di terra circondata dall’acqua, isole di terra spazzate da venti e correnti, ma che esprimono una loro peculiare ed autonoma forma di vita. Metaforicamente si presentano come zattere, piccole barche alla deriva che non seguono un percorso certo e definito. Leggendo i versi delle poetesse sudafricane si ottiene lo stesso effetto : il loro destino è quello di aggirarsi senza meta, sperdute e disperate tra le rovine della guerra che ha insanguinato il Sudafrica cercando, con i loro versi, il riscatto e la loro identità. Il titolo del libro è tratto da una poesia di Ruth Miller, la cui opera si ricollega, idealmente, ai versi di Dorothy Wordswork, antesignana della poesia di queste donne, ancora oggi ricordata per i suoi “Diari di Grasmere”, pubblicati postumi. Pur scrivendo all’ombra del celebre fratello, che incluse nelle sue opere alcune sue poesie, la Wordswork descrive l’isola di Gresmere ricoperta dalle acque del lago omonimo, terra seminascosta, dunque, rintracciabile, metaforicamente, nei semi testardi ed indipendenti che svelano la creatività femminile, humus che feconda la poesia sudafricana. Ruth Miller, la prima poetessa dell’antologia, fa rivivere nella sua poetica il testo di Dorothy in una veste nuova. Con i suoi versi sposta l’isola dal lago inglese ad una località africana lambita dal flusso vorticoso dello Zambesi che corre inarrestabile verso “Fumo tonante”, nome che gli Africani hanno dato alle famose Cascate Vittoria. La Miller popola la sua isola galleggiante di branchi di cervi intrappolati e spaventati. Svanisce così il panorama descritto dalla Wordswork, svaniscono fiori, piante ed uccelli canterini.. Le sue poesie descrivono la storia del Sudafrica, raccontano dell’apartheid, di una Terra attraversata da ferite, perdite ed interruzioni, espropri, esili e migrazioni.
Partenze ed addii raccontate da “Il canto delle afflitte”, la prima composizione raccolta da un missionario nel 1836, incorporata nella più celebre “Canto delle Vedove”, le donne rimaste a piangere gli uomini morti in guerra, abbandonate al loro dolore da un destino che si rinnova all’infinito. Tuttavia in mezzo a questo lacerante lamento si innalza la voce di una sorella che piange il fratello caduto in battaglia, il morto più recente, a cui promette un domani dove anche le donne possano combattere a fianco dei loro uomini. Questo scenario si ritrova nel “Bambino ucciso dai soldati a Nyanga”, poesia composta nel 1960 da Ingrid Jomker. I suoi versi lamentano si una morte (una tra le tante avvenute in una delle tante manifestazioni di protesta non violente dei Neri contro il regime dell’apartheid [1], a Nyanga, Orlando, Langa, Sharpeville). Versi che sottolineano con decisione come il Bambino, divenuto un “Gigante” attraversi l’Africa senza lasciapassare, il documento con cui in Sudafrica si limitava la libertà di movimento dei Neri, ritorni un giorno a trovare i propri familiari dispersi dall’apatheid . La poesia “Il bambino ucciso dai soldati a Nyanga” è scritta in afrikaans e successivamente tradotta in inglese e zulu.
Le isole galleggianti vengono descritte anche da Joan Metelerkamp che nel suo “Floating Islands” (2001) rievoca i versi di due poetesse, la Wordsword e della Miller, scrittrici che l’hanno preceduta nella descrizione della situazione politica e post segregazionista. La Metelerkamp, infatti, appartiene alla generazione successiva alle due autrici prese a riferimento; lei che sembra aver perso l’identità e l’appartenenza ad un gruppo particolare riversa quest’ansia nelle sue composizioni, che descrivono il suo sentirsi priva di una strada sicura da seguire e l’assenza di punti di riferimento precisi a cui affidarsi. E’ questo il tema che viene condiviso anche dalle altre scrittrici sue coetanee. L’identità delle donne sudafricane, per quanto fragile, non si spezza come afferma la Galatea di Miller scolpita, amata ed animata da Pigmalione che parla, sicura del suo “non sapere niente………se non sa……chi era prima che lo sguardo audace di Pigmalione……….le avesse imposto un identità non sua. Ero me stessa prima che tu mi toccassi”.
E alla Galatea, statua-diventata-donna, si ispira, anche Eva Bezodva (1942-1976), morta suicida. La sua “Galatea” parla un linguaggio muto, privo di parole, ma che grida forte la propria nostalgia per lo stato precedente ed il suo desiderio di tornare ad essere materia prima, fonte potenziale di nuove ed autonome creazioni di sé e non il prodotto finito di Pigmalione. Dunque le “Galatee” sudafricane non sono desiderose né di divinità, né della perfezione di un opera artistica : chiedono di esprimersi in una loro identità personale che sia espressione della loro identità di donne che vivono in un paese diverso da quello dell’apartheid.
Di fronte a questa perfezione statuaria di “Galatea” sorgono i “fili inutili” dell’artista donna che tesse la tela definitiva d’un essere nuovo e più certo. Ed è sempre la Miller che ci descrive nei suoi versi la creazione, il dispiegarsi dell’atto della tessitrice che “in silenzio, solenne e incurvata,/La pura necessità – un sudario” (“Il Ragno”). L’emblematica figura del ragno che tesse la sua delicata e sottile tela compare anche nei versi di “Le mani di mia madre”), composta da Yvette Christiansë, dedicata alla madre morta, che racconta anche di altre donne che ricuciono ferite e vestiti per i loro familiari. La morte, sfuggente, si ferma con le mani della madre che tesse, ripara, cuce, rammaglia. Azioni consuete dell’antica arte femminile del cucito e del ricamo. Azioni quotidiane che ritroviamo intatte nei versi di Ingrid de Kok (“Rammendo”) e Karen Press (“Lavoro di ago”). Il rammendo fa pensare a “cose strappate” (tessuto, stoffa, ma anche Vite ed Affetti), così come afferma la de Kok che descrive la simbologia degli oggetti riparati dalle mani delle donne che partecipano ai lavori della Commissione per la Verità e Riconciliazione che mirava a “curare” le ferite, le rotture ed i traumi prodotte dall’apartheid. Il cucito di cui si parla nell’intervista della de Kok è la ricongiunzione dei lembi di pelle e di stoffa restaurando i tessuti e le ferite degli uomini e delle donne del Sudafrica. Tuttavia, anche dopo la cura restano le tracce del dolore ben rappresentante dalle cicatrici bianche che rimangono sul vaso amorevolmente assemblato dopo la rottura, immagine di Derek Walcott riprese dalla de Kok in una sua riflessione sulle forme della memoria nel post apartheid. Il “paesaggio” è ingombro di frammenti corporali dispersi, ai quali si accompagnano predicati rigenerativi, che augurano una guarigione.”Quando si è ridotti all’osso” come dice una poesia della Miller vuol dire che “i sogni nella carne sognante sono stati frenati e condannati”.
Il lavoro di ricomposizione della memoria del passato sudafricano, l’elaborazione del lutto per i torti, le violenze e gli abusi dell’apartheid, si estendono anche ad altri scenari come quello della globalizzazione dove il Bambino che diviene Gigante, ora è un ragazzo che viaggia con il suo lasciapassare che pur essendo forte ed agile di mente è debole fisicamente e forse non ce la farà ad arrivare lontano, non riuscirà superare le catastrofi del futuro. Tracce del Bambino della poesia della Jonker si ritrovano nei bambini africani e sudafricani colpiti dall’epidemia di HIV-AIDS descritta con immagini forti nelle “Poesie della Peste” di Press e de Kok che richiamano altri scenari della morte e della guerra : è il “Trittico della morte” di Gabeba Baderoon che ritrae la sofferenza di un padre palestinese di fronte alla morte del figlio. Così le poetesse sudafricane
Dai versi della de Kok traspaiono anche alcune domande sul lavori di altre poetesse che evidenziano alcune questioni e tensioni della poesia femminile sudafricana. Le scrittrici si chiedono se sia ancora possibile credere che “……..le storie possano levarsi/in volo, su correnti, come argentei segali luminosi/levitare, alleggerite delle pietre delle pietre,/cominciare nel dolore e tendere alla grazia/ventilando la storia col fiato ritrovato?”.
Ma la scrittura al femminile di queste donne pone anche un'altra questione. Tutte le scrittrici cercano di forgiare una loro lingua che sia nuova e diversa, soprattutto da quella parlata dai dominatori. Quindi forte si pone la ricerca di una lingua v capace di esprimere il modo in cui ciascuna di queste poetesse sente le separazioni , le esclusioni e le separazioni che hanno caratterizzato la loro vita individuale e la storia collettiva del loro Paese. L’africans, la lingua delle loro madri, è associato agli ideatori dell’apartheid. Ma diviene la lingua che già parlavano gli schiavi portati al Capo Town dagli schiavisti della Compagnia delle Indie e che nel corso dei secoli si contamina con le altre lingue della regione. Così alcune di queste scrittrici – Yvette Christiansé e Malia Ndlovn, si rivolgono agli schiavi e alle schiave liberate riscoprendo così un proprio linguaggio, un eredità sepolta portata dal vento; frammenti di manoscritti dispersi nell’Oceano. Con le antenate schiave si parla mettendo in evidenza il carattere pluri o transculturale e linguistico del Sudafrica. Schiava e migrante insieme, è l’antenata che compare, ad esempio, nelle poesie di Elisabeth Eybers che ricerca linee alternative i miti della creazione del popolo africans La schiava Agar, a cui la poetessa si rivolge, reagisce alla solitudine e al dolore del proprio destino.
In una società in cui il potere oppressivo dello Stato ha deformato e dequalificato la parola, osserva una delle poetesse bisogna confrontarsi non solo con la lingua ma con il modo in cui la gente entra in relazione con essa e con le attese che questo crea con gli scrittori “la cui funzione è disfare la parola usandola” E qui un compito particolare spetta alle donne tese a “smontare , rimontare, interpretare, re-immaginare il proprio sé” e ad elaborare un linguaggio comune.
La ricerca di figure femminili del passato in cui identificarsi non è solo un modo in cui le poetesse sudafricane ricreano la loro identità, ma diventa anche il modo in cui noi donne possiamo esprimere la nostra creatività; ricerca che diviene una parte importante dell’impegno di tutte le donne.


[1] Nei pressi di alcune città fra cui Capo Town furono organizzate diverse manifestazioni di protesta non violenta contro le leggi sul lasciapassare, misura introdotta nel 1657 per il controllo degli schiavi che lavoravano a Capo Town, che con il tempo divenne obbligatoria; la stessa misura nel 1956, fu estesa anche alle donne.

Loredana Baglio

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