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La polveriera

Toghe, conflitto sociale e repressione

(17 Settembre 2012)

Da Umanità Nova, n. 27 anno 92
(Settembre)

sbarrepolveriera

Lo Stato italiano ha deciso di spingere l’acceleratore contro l’opposizione politica e sociale nel nostro paese.

Ridurre le questioni sociali a meri affari di ordine pubblico non è certo una strategia nuova, ma da svariati mesi la guerra a bassa intensità della magistratura si è fatta decisamente più calda.

Il nostro paese è come una polveriera pronta ad esplodere, senza che accada nulla. O quasi. I meri dati sull’occupazione, il limbo degli esodati, la precarietà a vita, il moltiplicarsi degli sfratti, l’abbattimento dei servizi sono il segno inequivocabile di una crisi sociale durissima. E senza prospettive di uscita.
Monti per tutta l’estate ha suonato la sua musica, richiedendo un nuovo patto sociale. Tradotto dalla retorica montiana significa che gli imprenditori potranno investire, perché i lavoratori lavoreranno ancora di più, ancora peggio, per sempre meno.

La Cina è sempre più vicina.

Per quanto il governo tenti di far partecipare emotivamente la gente al gioco dello spread, dei tassi, della finanza, la vita materiale dei più è altrove. Mentre c’è chi scommette sulle previsioni di rendimento di questo o quel derivato, ai poveri non restano che i video poker. Quelli, se non altro, lo sanno tutti che sono macchinette mangiasoldi.

Sinora ci sono state solo occasionali fiammate, che hanno bruciato per il breve tempo di una vertenza persa in partenza o di una giornata nel centro di Roma.

Trent’anni di individualismo, di sfiducia nell’azione collettiva, di berlusconismo trionfante hanno inciso profondamente l’immaginario sociale, rendendo più difficili percorsi di lotta di ampio respiro.
Il futuro si chiude tutto nella quotidianità eternizzata delle merce: cambiano le cose sugli scaffali, ma il rito, identico a se stesso, si ripete all’infinito.
Per ogni fabbrica che chiude, apre un centro commerciale: chi ci lavora è poco più di uno schiavo, chi ci va è poco più di un automa in carne e ossa.
Finché dura, finché ci sarà qualcosa da spolpare.

La politica istituzionale non offre alternative. Il centro sinistra fa le stesse politiche del centro destra, agitando la bandiera del moralismo: dalle mutande di Silvio agli stipendi dei parlamentari. Gli eroi dell’antipolitica, della partecipazione diretta, della democrazia rinnovata sono impastati di giustizialismo e moralismo, una sorta di edizione di sinistra dell’Uomo Qualunque.

L’opposizione sociale e politica è tutta al di fuori dell’ambito istituzionale. Pur minoranza, chi crede che una rottura radicale dell’ordine esistente sia desiderabile e possibile riesce, di tanto in tanto a catalizzare le lotte che comunque si sviluppano sul territorio.

Siamo onesti. Nulla che possa oggi impensierire davvero padroni e governanti, tuttavia la polveriera sociale che hanno creato e sulla quale sono seduti un giorno o l’altro potrebbe esplodere. Le conseguenze sarebbero devastanti, se la rivolta anomica di una qualche banlieaue cedesse il passo ad una lotta radicale e radicata, che mira a rompere le attuali relazioni sociali e politiche.

La solidarietà concreta e crescente intorno al movimento contro la Torino Lyon ne è un esempio non da poco. La scorsa primavera è bastata una scintilla, la caduta di un attivista da un traliccio, per mettere in moto tutta la penisola, perché ovunque ci fossero blocchi, cortei, occupazioni. Un segnale inquietante per politici e padroni.
Non certo per caso negli ultimi mesi le operazioni repressive si sono moltiplicate. Negli anni precedenti il mirino di governo e magistratura era prevalentemente rivolto verso gli immigrati, considerati pericolosi, proprio per lo status di non-cittadini che la legislazione italiana ed europea aveva cucito loro addosso. Oggi l’attenzione, comunque mai venuta meno, si sta concentrando anche sull’opposizione politica e, in particolar modo sugli anarchici.

Non si contano più le inchieste, le perquisizioni, il controllo ossessivo nei confronti degli antiautoritari.

Normali proteste sociali – blocchi, occupazioni, cortei spontanei, scritte - sono equiparati a atti terroristici, come l’assassinio di massa, la tortura, lo strupro, ossia le pratiche che hanno segnato le avventure belliche dell’esercito italiano in Somalia, Iraq, Afganistan…

Dopo la stretta disciplinare del luglio 2009, quando entrò in vigore il pacchetto sicurezza, che reintroduceva reati come l’insulto a pubblico ufficiale o l’imbrattamento di edifici, non ci sono stati altri ritocchi al codice penale. Non si può tuttavia escludere che prima o poi il governo rimetta mano alle leggi per inasprire le pene per chi occupa una strada, blocca una ferrovia, danneggia una banca.

O, chi sa?, per inventare una nuova fattispecie di reato associativo.

Negli ultimi anni si sono “accontentati” di una torsione delle regole attuali, che ha portato in galera decine di compagne e compagni.

Sappiamo bene che le norme dello Stato servono soprattutto a colpire i suoi nemici, resta tuttavia il fatto che persino le esili garanzie dell’ordinamento liberale sono state forzate, per consentire operazioni in grande stile, con enorme fracasso mediatico.

Fulcro di queste operazioni è la responsabilità collettiva, concetto che, in se estraneo ad un ordinamento che si basa sulla responsabilità penale individuale, viene invece utilizzato su larga scala per costruire teoremi repressivi.

Le strade scelte sono due. La prima è l’utilizzo di reati associativi specifici, come l’associazione sovversiva, l’associazione con finalità di terrorismo, l’associazione a delinquere. Questi reati tipicamente politici sono di difficile definizione se le associazioni vengono di fatto inventate dalla polizia, ma non sono mai state utilizzate pubblicamente per rivendicare azioni illegali. Negli anni Settanta e Ottanta esistevano organizzazioni armate, che rivendicavano pubblicamente i loro gesti, i cui aderenti proclamavano l’appartenenza al momento dell’arresto. L’inasprimento delle pene che venne attuato allora serviva a colpire militanti cui era difficile attribuire la responsabilità di gesti specifici. Le carceri italiane si riempirono anche di semplici simpatizzanti.

In questo primo decennio del nuovo secolo le organizzazioni armate di quel tipo sono pressoché scomparse.

Non sono tuttavia scomparsi i reati associativi, utilizzati per mettere insieme gesti diversi, di cui risulta difficile alla polizia individuare le responsabilità e, per di più, estranei ad una logica di lotta armata.

Una vera torsione delle stesse ferocissime regole del gioco costruite negli anni Settanta del secolo scorso.

Quando la magistratura non fa ricorso ai reati associativi o a questi comparabili come il reato di “devastazione e saccheggio” applicato per il G8 del 2001, utilizza comunque la presunzione di una responsabilità collettiva.

Eri lì quel giorno, eri insieme a quella persona, fai parte di un gruppo che sostiene tesi sovversive? Questo dimostra che tu sei responsabile di quel lancio di pietra, di quel blocco, di quella giornata di resistenza. Sei responsabile anche se la polizia non ha prove dirette del tuo coinvolgimento, anche se non ci sono foto, testimonianze, video. Anche se non c’è nulla.

Non solo. L’impalcatura delle inchieste sono i rapporti di polizia sugli attivisti più noti, che vengono dipinti come pericolosi per la loro normale attività politica e sociale. Decine di pagine delle inchieste sono state stilate per raccontare a quante normalissime manifestazioni ha partecipato il tale compagno o la tale compagna. Quanti articoli ha scritto caio, quante volte è stato fermato tizio mentre affiggeva manifesti.

Decine e decine di inchieste, con tanto di arresti e lunghe carcerazioni, che affondano le loro radici giudiziarie nella sabbia.

E nella paura. La paura dello Stato che la polveriera sociale esploda, che le idee sovversive diventino contagiose, innervando, come già fanno anche ora, i movimenti che si costituiscono in ogni dove contro questo mondo intollerabile.

Maria Matteo

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