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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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Ai licenziamenti di massa rispondere con il conflitto!

(19 Settembre 2012)

Il presidente del consiglio Monti recentemente ha dichiarato che la ripresa c’è ma non si vede, arrivando ad affermazioni mistiche come “la ripresa è dentro di noi”, dopo che in soli dieci mesi di governo ha portato avanti la più dura controriforma sulle pensioni, abolito l’articolo 18, saccheggiato le tasche dei lavoratori con Iva, aumento dell’inflazione e tasse, per un totale di oltre 250 miliardi di maggiori introiti.

Ma la realtà racconta un’altra storia. Sono 180mila lavoratori a rischio di cui oltre 30mila solo nell’industria. Una crisi devastante che deve ancora dispiegarsi in tutta la sua drammaticità e di cui le recenti vertenze del Carbosulcis e Alcoa ci dicono quale sarà la musica dei prossimi mesi: calo verticale dei consumi, -3,3% stimato per il 2012; disoccupazione alle stelle, 10,7% (quasi tre milioni di disoccupati), che miete vittime in particolare tra i giovani (un terzo è senza lavoro); cassaintegrazione in aumento del 10% rispetto al 2011 (già anno record con oltre un miliardo di ore di Cig); tre milioni di precari, di cui 100mila solo nell’amministrazione pubblica; emigrazione di massa dal sud verso il nord e all’estero, oltre 600mila giovani negli ultimi 10 anni; espulsione dal settore pubblico di centinaia di migliaia di lavoratori nei prossimi anni, 25mila subito; tagli indiscriminati a tutti i servizi sociali a partire dalla sanità.

Di nuovo in recessione

All’inizio del 2010 il governo e i soliti esperti di economia ci spiegavano che il peggio era passato. Non solo non è passato, ma siamo agli stessi livelli del 2009 (anno in cui la crisi raggiunse il suo apice), e anche il 2013 sarà un anno di recessione in Italia e non solo.

Davanti a tale prospettiva è impressionante l’inconsistenza delle proposte del sindacato. Nessuno stupore: è ancora fresco il ricordo della resa ingloriosa di questa primavera sull’articolo 18, con lo “sciopero generale fantasma” rimandato per mesi e poi revocato nel modo più pietoso.

Susanna Camusso si prodiga a produrre insistenti quanto inutili appelli al governo per avere un fantomatico piano straordinario per l’occupazione, chiedendo quattro soldi detassando le prossime tredicesime dei lavoratori
e proponendo per la milionesima volta l’immancabile lotta all’evasione fiscale, la patrimoniale, la tassazione della speculazione
finanziaria e tante altre belle cose.

Lo chiede allo stesso governo di cui il ministro per lo sviluppo economico Passera ha dichiarato l’altro ieri che sull’Alcoa non c’è nulla da fare, che ha sostenuto la politica devastante di Marchionne, che a Fincantieri porta avanti l’obiettivo di espellere dai cantieri 1.300 lavoratori più l’indotto e nell’impiego pubblico vuole licenziare 300mila lavoratori.

I vertici sindacali, al loro minimo storico per credibilità, producono solo parole che nessuno ascolta e fra chi in questi ultimi anni ha rappresentato in qualche modo un argine agli attacchi padronali, i metalmeccanici della Fiom, sono sempre più chiari i segnali di ripiegamento.

All’ultimo Comitato centrale della Fiom, il segretario Landini, davanti allo spettro di un nuovo contratto separato anziché serrare le fila e rilanciare la mobilitazione, ha proposto a padroni e a Fim e Uilm, un accordo per il lavoro. Cioè un accordo per tutto il 2013 dove, in attesa che la crisi venga superata, si incentivi la defiscalizzazione dei salari, si promuovano i contratti di solidarietà nelle aziende in crisi, si diano incentivi fiscali alle aziende che difendono l’occupazione e si utilizzino i soldi dei fondi pensione non per la speculazione finanziaria ma per rilanciare l’industria (e questo è il colmo: i padroni chiudono le imprese e i lavoratori se le dovrebbero comprare…). Il tutto senza neanche proporre almeno la moratoria dei licenziamenti.

Con queste proposte a vuoto Landini mette a nudo le difficoltà della Fiom dovute all’assoluta mancanza di una strategia di lotta che possa fronteggiare Federmeccanica. Basterebbe che il gruppo dirigente mettesse in campo la metà della determinazione che hanno mostrato i lavoratori di Alcoa e Carbosulcis per cambiare il quadro e trasmettere ai metalmeccanici il messaggio chiaro che c’è una direzione capace e che intende farsi carico di organizzare un conflitto all’altezza delle necessità.

In assenza di ciò, non si capisce perché i padroni dovrebbero sprecarsi a rispondere. Per loro la crisi rappresenta una grande occasione per comprimere ulteriormente salari e condizioni di lavoro, tanto è vero che hanno da tempo dichiarato di essere disposti a rinnovare il contratto solo alle loro condizioni: abolizione degli aumenti minimi per tutti, abolizione del pagamento dei primi tre giorni di malattia, aumento dell’orario di lavoro a parità di salario, con 250 ore di straordinario non contrattabile che porterebbero l’orario di fatto a 45 ore settimanali.

Serve lo sciopero generale

Anche in Fiat, oggi più che nel 2010, a un numero crescente di lavoratori è sempre più evidente che il piano di investimenti di Marchionne è svanito. Il rinvio dei modelli promessi, la minaccia di un altro stabilimento da chiudere (dopo Termini Imerese e Irisbus), l’utilizzo spregiudicato della cassa integrazione in tutti gli stabilimenti (compresa Pomigliano che doveva diventare la colonna portante del rilancio degli stabilimenti in Italia), e contemporaneamente la distribuzione di lauti profitti agli azionisti, nonostante il calo verticale delle vendite in Italia e in Europa, presto o tardi faranno esplodere la rabbia dei lavoratori. Alla Fiom non può bastare una strategia tutta imperniata sulle cause in tribunale di fronte a questa situazione

Più che un patto con chi sta approfittando della crisi per ridisegnare i rapporti di forza nelle aziende sono necessari un programma e una strategia di lotta adeguati. Le campagne referendarie proposte (articolo 18, articolo 8 dell’ultima manovra di Berlusconi) possono aiutare a creare un’informazione e un terreno ausiliario attorno al conflitto nei luoghi di lavoro, ma non possono aggirare il nodo essenziale: costruire nei luoghi di lavoro un percorso credibile, con piattaforme forti, discusse e condivise dai lavoratori, con una piena assunzione di responsabilità da parte del gruppo dirigente, per iniziare a mutare i rapporti di forza nelle aziende.

Serve un programma che parli di blocco dei licenziamenti, di estensione degli ammortizzatori sociali, di riduzione d’orario a parità di salario, di ridistribuzione del lavoro, di nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori delle banche, del credito e dei principali gruppi industriali travolti dalla crisi o dagli scandali come Alcoa, Ilva, Fincantieri e appunto Fiat.

Su queste basi ha senso rilanciare la necessità di un vero sciopero generale che pieghi i padroni e che faccia cadere questo governo (che la stessa Camusso ha dichiarato essere al capolinea) indipendentemente da una sua fine anticipata. Perché i lavoratori non possono aspettare e soprattutto perché chi si candida a sostituire il governo Monti porterà avanti le stesse identiche politiche.

A fine settembre ci sarà lo sciopero del pubblico impiego, sciopero che deve rappresentare l’inizio della mobilitazione autunnale dei lavoratori. Il nostro compito, come sinistra sindacale, come settore più consapevole della classe, deve essere quello di promuoverlo e sostenere tutte le lotte che si produrranno. Ma soprattutto discutere e coinvolgere i lavoratori, puntando all’estensione e alla radicalizzazione del conflitto, rompendo con la pratica degli scioperi puramente dimostrativi, utili magari a promuovere la campagna elettorale del Partito democratico in vista delle elezioni politiche, ma non certo a difendere i nostri diritti.

Paolo Grassi - FalceMartello

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