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(25 Settembre 2012)

ali4pakist

Lunedì 24 Settembre 2012 19:00

Il devastante incendio scoppiato un paio di settimane fa in una fabbrica pakistana, causando la morte di oltre 300 operai, rimasti intrappolati a causa del mancato rispetto delle più normali procedure di sicurezza, continua ad alimentare discussioni e polemiche. Il bilancio della strage è il più grave in assoluto nella storia dei disastri industriali e ha portato alla luce non solo le drammatiche condizioni in cui sono costretti i lavoratori di molte strutture produttive in paesi che offrono alle multinazionali manodopera a bassissimo costo, ma anche la discutibilità di un sistema di certificazione che spesso non garantisce l’applicazione effettiva delle basilari norme a difesa della salute dei lavoratori stessi.

L’incidente è avvenuto l’11 settembre scorso presso la Ali Enterprises, una fabbrica tessile situata nei pressi di Karachi, la più popolata città del Pakistan, di cui è considerata la capitale commerciale. Al momento dello scoppio dell’incendio erano presenti circa 650 operai che si sono trovati di fronte ad uscite di sicurezza e finestre sbarrate. Nella ressa per assicurarsi l’unica via d’uscita dall’edificio sono morti carbonizzati o asfissiati almeno 315 lavoratori, mentre i feriti sono stati oltre 200, tra cui molti versano tuttora in gravi condizioni. Secondo quanto riportato dai media, gli stipendi dei dipendenti di Ali Enterprises oscillano tra i 50 e i 100 dollari mensili.

Le condizioni di sicurezza della fabbrica colpita dal grave incendio sono comuni a quasi tutte le strutture di Karachi, una megalopoli di 18 milioni di abitanti che ospita circa dieci mila edifici adibiti ad attività industriali. Di questi ultimi, secondo quanto rivelato all’agenzia di stampa AFP da un ex amministratore locale, solo alcune decine risultano avere uscite di sicurezza adeguate.

Ali Enterprises produce in particolare jeans per svariati marchi occidentali, anche se finora l’unica azienda ad aver confermato di avere rapporti d’affari con la fabbrica pakistana è stata la catena tedesca di abbigliamento KiK. Nonostante un fatturato di oltre un miliardo di euro e i 3.200 punti vendita tra Germania, Austria ed Europea Orientale, KiK (“Kunde ist König”, “Il cliente è il Re”) è già stata nel recente passato al centro di polemiche per essersi rifornita in fabbriche del Bangladesh che impiegavano manodopera minorile pagata con un minimo di 18 euro al mese.

Dopo la strage di Karachi, KiK ha fatto sapere di avere ordinato negli ultimi anni tre ispezioni indipendenti nella struttura di Ali Enterprises. Un controllo svolto nel 2007 aveva rilevato gravi carenze del sistema di sicurezza anti-incendio ma un’ulteriore indagine nel dicembre dello scorso anno ha evidenziato invece una situazione adeguata e il sostanziale rispetto delle norme.

Come ha rivelato qualche giorno fa un articolo del New York Times, controlli ufficialmente indipendenti presso Ali Enterprises sono stati condotti anche più recentemente. Infatti, addirittura poche settimane prima del disastro, nella struttura di Karachi era stata eseguita un’ispezione patrocinata da Social Accountability International (SAI), un’organizzazione non governativa finanziata e sostenuta da aziende private, tra cui alcuni importanti marchi dell’abbigliamento come Burberry, Gap, Gucci, H&M, Marks & Spencer e Timberland.

Secondo il suo sito web, lo scopo di SAI sarebbe “il miglioramento dei luoghi di lavoro e delle comunità tramite lo sviluppo e l’implementazione di principi socialmente responsabili”. Per ottenere questo obiettivo, tra l’altro, nel 1997 SAI ha lanciato la prestigiosa certificazione SA8000 (Social Accountability 8000), modellata sulle convenzioni ONU e dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro (ILO), per il cui ottenimento le aziende ispezionate devono mostrare l’adozione di “standard” internazionali in vari ambiti, tra cui quello della sicurezza e della salute dei luoghi di lavoro, della manodopera minorile e della libertà di associazione.

A condurre materialmente l’audit presso Ali Enterprises è stato un noto ente certificatore italiano, RINA Group, che il 20 agosto scorso ha rilasciato la certificazione SA8000 all’azienda pakistana. RINA Group ha fatto sapere di non essere disponibile a rilasciare alcun commento sulla vicenda, ma sul proprio sito ha pubblicato una dichiarazione ufficiale nella quale conferma che i suoi ispettori hanno effettuato l’audit a Karachi tra la fine di giugno e i primi di luglio, rilevando la presenza e il rispetto delle misure di sicurezza necessarie al rilascio della certificazione.

Il compito di RINA Group, si legge poi nello stesso comunicato, non è quello di verificare l’implementazione costante delle norme di sicurezza, né di monitorare il continuo rispetto di esse, incombenze che ricadono rispettivamente sui vertici aziendali e sulle autorità locali pakistane. Da questa dichiarazione e, soprattutto, dal bilancio della strage dell’11 settembre e dal racconto dei sopravvissuti, si deduce in definitiva che in occasione dell’audit la direzione di Ali Enterprises potrebbe essersi adoperata affinché venisse data la parvenza del rispetto delle regole di sicurezza presso il proprio stabilimento e che, in seguito all’ottenimento della certificazione, la situazione relativa al rispetto delle misure di sicurezza sarebbe tornata rapidamente allo stato precedente.

Se non esiste motivo per dubitare di quanto ha rilevato RINA Group, è tuttavia doveroso interrogarsi sulla legittimità e sulla moralità di un sistema - nel quale sono coinvolti i vertici delle aziende e le autorità locali di paesi come il Pakistan, le multinazionali e gli stessi enti certificatori - che nella piena legalità consente l’attestazione di fronte alla comunità internazionale del rispetto di norme di sicurezza che invece, nella realtà quotidiana dei luoghi di lavoro, in fabbriche come Ali Enterprises sono puntualmente ignorate, tanto da causare stragi orrende quando si verificano incidenti come quello dell’11 settembre scorso.

I fini ambiziosi e i risultati ottenuti nel miglioramento delle condizioni di lavoro in molti paesi, come vengono descritti sul sito web di SAI, appaiono a molti quanto meno discutibili.

A trarre un bilancio di questo sistema è stato ad esempio Richard Locke, professore di scienze politiche presso l’M.I.T. ed esperto in procedure di certificazione, il quale in un’intervista al New York Times ha affermato che “anche dopo più di un decennio di controlli privati, simili programmi - al di là di quanto ben finanziati od organizzati siano e di quanto addestrati risultino essere gli ispettori - di per sé stessi semplicemente non producono miglioramenti significativi e duraturi negli standard lavorativi della maggior parte delle fabbriche”.

Di fronte alla gravità dei fatti di Karachi, il governo pakistano ha subito creato un’apposita commissione d’inchiesta, mentre i tre proprietari di Ali Enterprises sono già apparsi di fronte ad un tribunale e i loro beni sono stati congelati. Immediatamente, inoltre, sono emersi i racconti di colossali abusi del sistema di regolamentazione del settore industriale del paese centro-asiatico che rivelano imbarazzanti e diffuse collusioni tra i vertici delle aziende, la classe politica e gli enti teoricamente preposti al controllo del rispetto delle norme di sicurezza nelle fabbriche.

Nonostante le promesse e il cordoglio espresso, gli stessi esponenti del governo di Islamabad condividono la responsabilità morale dell’accaduto, dal momento che essi contribuiscono a perpetuare una situazione nella quale la gran parte degli operai pakistani è costretta ad accettare condizioni di lavoro pericolose per una manciata di dollari.

Le élite politiche agiscono infatti in totale accordo con i vertici delle aziende locali, le quali cercano in tutti i modi di abbassare i propri costi di produzione.

Questa situazione viene sfruttata dalle corporation che operano su scala globale, alla ricerca di fornitori che offrano prodotti a prezzi sempre più bassi, scatenando così a loro volta una competizione tra le aziende di paesi come Pakistan o Bangladesh, dalla quale ad uscire puntualmente sconfitta è la forza lavoro indigena, sfruttata e ridotta in condizioni degne degli opifici europei del XIX secolo.

Una volta spente le polemiche seguite alla strage di Karachi, perciò, è estremamente probabile che le cose non cambieranno di molto, anche perché, come ha scritto l’AFP nei giorni seguiti al rogo, “in un mercato globale sempre più competitivo… i proprietari delle fabbriche si trovano a fronteggiare un difficile dilemma, dal momento che standard di sicurezza più elevati comportano maggiori costi di produzione”.

In tempi di crisi e con una concorrenza spietata, quindi, il sistema produttivo che consente alle grandi aziende di aumentare comunque i loro profitti farà in modo che ad essere sacrificata sarà sempre

Michele Paris - Altrenotizie

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