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Afghanistan. L'altra faccia del conflitto

(3 Ottobre 2012)

Nello scorso aprile, tra le tante pseudo-notizie veicolate dalle agenzie di stampa, una in particolare era degna d’essere archiviata: la candidatura di Barbie per la Casa Bianca. Una famosa fabbrica statunitense di giocattoli, infatti, ha nuovamente riproposto sul mercato una versione “presidenziale” della notissima bambola, con caratteristiche etniche a scelta. Una responsabile del marketing della ditta aveva anche precisato che, senza essere Democratica né Repubblicana, il nuovo giocattolo era investito della missione di “essere un modello per ispirare le ragazze e le donne ad avere un maggiore coinvolgimento politico”, tanto da essere sponsorizzata dalla “White House Project”, un’associazione che si prefigge di sostenere le donne a far carriera nei posti di potere.

Cosa invece per le donne significa nella realtà il potere statunitense, democratico come repubblicano, è tragicamente confermato dall’ultima strage causata da un bombardamento Isaf-Nato in Afghanistan lo scorso 16 settembre: otto, forse nove, donne uccise e altrettante ferite, tra le quali diverse bambine, mentre raccoglievano legna e pinoli in un bosco nella provincia orientale di Langham, nei pressi del villaggio di Dilaram. I brillanti top-gun della Nato le avrebbero scambiate per un gruppo di “insorti” e nel dubbio hanno seminato morte, uccidendo sedici persone derubricate a vittime dell’ennesimo effetto collaterale.

Se si ricorda che, nell’ottobre 2001, quando iniziò l’aggressione Usa all’Afghanistan, l’allora governo Bush propagandò l’operazione “Enduring Freedom” non solo come la risposta alla rete terroristica di Al Qaeda, ma pure come intervento umanitario e democratico necessario per “liberare” le donne oppresse dal regime talebano, c’è molto da riflettere sugli esiti di quell’intervento militare.

Il “mezzo”, infatti, per conseguire tale liberazione, era evidentemente contrastante con il fine: una coalizione imperialista di eserciti d’occupazione che, dopo undici anni, ha sicuramente sterminato più civili innocenti che “terroristi”, senza peraltro riuscire a vincere la guerra, poteva solo aggiungere oppressione all’oppressione, violenza alla violenza.

Le notizie, seppure parziali e frammentarie, che ci giungono dalle città e dalle campagne afgane sulle condizioni di vita delle donne, soffocate tra stato di guerra, permanenza, “tradizionale” discriminazione tribale e legge islamica, sono oltremodo eloquenti e non possono che indurre al pessimismo, ma i tentativi e le scelte di ribellione – anche estrema - che nonostante tutto rompono tale accerchiamento dovrebbero dare forza all’opposizione contro la guerra che anche lo stato italiano sta conducendo in Afghanistan.

Per questo, dopo tanti articoli e servizi dedicati alle vittime americane dell’Undici settembre, appare doveroso almeno accennare a quest’altra faccia del conflitto attraverso le cronache che in quest’ultimi mesi sono rimasti pressoché ignorati dall’informazione e, soprattutto, da quanti – in Italia come negli Stati Uniti – discutono di bilanci e di governi, senza mai mettere in discussione le loro criminose quanto costosissime politiche di guerra.

Lo scorso 17 maggio, Lal Bibi, una giovane di diciotto anni appartenente ad una famiglia di pastori Kuchi, veniva rapita nei dintorni di Kunduz da cinque agenti appartenenti alla Polizia locale afgana, addestrati e alle dipendenze delle forze speciali Usa, e per cinque giorni incatenata, picchiata e stuprata per “vendicare” un presunto affronto subito dal vice-comandante dell’unità di polizia da parte di un parente della ragazza. Contrariamente all’usanza tribale per il quale una donna violentata o viene uccisa dagli stessi familiari per riparare al “disonore” oppure finisce per darsi la morte (a un ritmo tragico di 6 suicidi al giorno), stavolta la giovane ha denunciato i suoi aguzzini che dopo essere stati tratti in arresto, hanno sostenuto che un mullah l’aveva sposata ad uno di loro.

In luglio, invece, nella provincia di Helmand due sorelle (una di 15 e l’altra di 16 anni) dopo che erano fuggite per quattro giorni assieme ad un giovane impiegato come interprete per l’Isaf, sono state rintracciate dalla polizia e ricondotte dal padre che poche ore dopo le ha uccise a fucilate, appellandosi al “delitto d’onore”.

Episodi simili, nell’Afghanistan “riconquistato alla democrazia”, sono prassi pressoché quotidiana anche perché gli “eccessi” compiuti da uomini o gruppi trovano un riflesso nella struttura sociale patriarcale, nella vigente legislazione civile ispirata alla Sharia islamica e nelle misure di polizia atte a tutelare la moralità. Basti dire che, alcuni mesi addietro, il presidente Karzai ha riconosciuto un editto del Consiglio degli Ulema, la principale autorità religiosa, in cui si sostiene che le donne non devono “mischiarsi a uomini estranei in attività di carattere sociale come l' istruzione, nei mercati, negli uffici e in altri aspetti della vita” precisando che “molestare, importunare e picchiare le donne” è sì vietato “a meno che non avvenga per un motivo legato alla Sharia”.

Secondo un recente rapporto dell' organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch sono circa 400 le donne accusate o condannate per “crimini contro la moralità” rinchiuse nei carceri femminili in Afghanistan, costruiti peraltro anche con fondi e supervisione italiana. In taluni casi, devono restarci per oltre 10 anni. I loro reati: fuggire da mariti-padroni o da matrimoni forzati; avere avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio. Inoltre, il nuovo diritto di famiglia promesso dal governo nel 2007 non è ancora legge: ottenere il divorzio è difficilissimo per una donna, semplice per un uomo. Ma non è soltanto un problema di leggi, dato che polizia, procuratori e giudici - afferma il rapporto - trattano le donne da criminali anche quando denunciano di essere vittime di soprusi e violenze. Se fuggono da casa, si trovano sovente incriminate per adulterio da giudici che spesso le condannano solo in base a "confessioni" rilasciate in assenza di legali e "firmate" senza essere state lette da donne condannate all’analfabetismo.

Anche questa è guerra, anche se di altro genere.

Altra Informazione - Umanità Nova (n. 29, anno 92)

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