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    (La rivoluzione bolivariana)

    Venezuela: Chavez contro gli USA

    (5 Ottobre 2012)

    nedcontrochavez

    4 ottobre 2012 ore 23.00

    Il Venezuela è pronto: domenica prossima sceglierà se confermare per la quarta volta la popolarità di Hugo Chavez oppure se votare Henrique Capriles, tornando così ai tempi in cui Washington stabiliva chi e come governava a Caracas. Il presidente, guarito dal tumore, chiamando al voto le classi più povere del paese e il ceto medio, cioè i settori che hanno goduto delle politiche sociali di questi anni, ha annunciato un ulteriore rilancio del suo progetto socialista, fatto d’integrazione latinoamericana e nazionalismo, giustizia sociale e politica economica redistributiva.

    I risultati delle politiche economiche e sociali dell’era Chavez indicano del resto come i tempi nei quali i partiti legati a Washington governavano, accaparrandosi le straordinarie risorse petrolifere mentre il 60% della popolazione viveva sotto la soglia della povertà, sono oggi un lontano ricordo. Chavez ha decisamente invertito la tendenza ed il livellamento verso l’alto delle condizioni della parte più povera della popolazione e dello stesso ceto medio, è stato il carburante del motore bolivariano di questi anni. Mai, negli ultimi 60 anni, il paese ha avuto così bassi i tassi di disoccupazione, povertà estrema e povertà generale, mortalità infantile e mortalità materna.

    Anche per questo, a leggere i sondaggi, il candidato dell’opposizione - un cartello di venti partiti diversi, ma con un solo padrone - non pare avere particolari possibilità di sconfiggere il Presidente. La regia della sua campagna elettorale, a Miami, informa e avverte che Capriles da il meglio di sé sulle lunghe distanze: sarà curioso vederlo. Perché Chavez sembra titolare di un vantaggio numerico che difficilmente le incognite dell’ultima ora potrebbero concretamente mettere in discussione.

    Ma la battaglia, benché da questo lato dell’oceano possa apparire poco credibile, è decisamente tra due opzioni completamente alternative. Gli Stati Uniti, che non hanno mai smesso di tentare di sovvertire il governo venezuelano, arrivando persino a organizzare il golpe del 2002 che per 36 ore depose Chavez (poi reintegrato al palazzo di Miraflores dall’insurrezione popolare che costrinse i golpisti a scarcerarlo e ad imbarcarsi in tutta fretta sui primi voli privati per Miami) sono impegnati pancia a terra nel cercare di interferire con ogni mezzo sulla contesa elettorale.

    Rispetto al personale politico-imprenditoriale solitamente utilizzato, Washington stavolta ha scelto una figura relativamente nuova e di qualche successo. Capriles, infatti, dispone comunque di un bagaglio di credibilità elettorale superiore a quello dei vecchi arnesi reazionari venezuelani. Ma il nuovo é solo apparenza: per giovane che sia, Capriles é ben inserito nel sistema di potere storicamente dominante verso il paese e dominato da fuori. E' dunque, per gli USA, la soluzione migliore nella situazione peggiore.

    Perché la convinzione che un colpo di stato sia la soluzione migliore per Caracas, a Washington non l’hanno mai persa, ma memori della sberla ricevuta nell’Aprile del 2002, stavolta lavorano più sulle tappe intermedie, privilegiando intanto la via dell’intorbidimento progressivo e costante della campagna elettorale per favorire un clima violento, conveniente alla delegittimazione del risultato ove fosse favorevole a Chavez.

    Nulla è lasciato al caso e nulla in mano dell’opposizione venezuelana, incapace cronicamente di sviluppare qualunque iniziativa credibile. Allo scopo, consiglieri militari e d’intelligence statunitensi, oltre che funzionari del Dipartimento di Stato, sono sbarcati negli ultimi mesi in Venezuela. Uno dei nomi più significativi è quello del Colonnello Richard Nazario, aggregato militare dell’ambasciata Usa a Caracas, coinvolto nel golpe del 2002, dove agiva agli ordini di Otto Reich, plenipotenziario di George Bush per l’America Latina.

    L’ambasciata statunitense ha messo in piedi un centro di monitoraggio che servirà a realizzare il computo dei voti parallelo e alternativo a quello ufficiale. E’ stato allocato nella casa del suo funzionario James Derham, e ricade sotto la supervisione di David Mueller, specialista in informazione tecnologica. A propostito: anche Mueller, con gli stessi compiti, lavorava nel 2002 durante il golpe.

    Sia chiaro: l’installazione di un centro di calcolo elettorale parallelo da parte di uno stato straniero è in aperta e flagrante violazione di tutte le norme che stabiliscono il funzionamento delle rappresentanza diplomatiche all’estero, ma ormai le legalità internazionale è come il debito: si poggia solo sulle spalle dei piccoli.

    La stessa ambasciata si è resa poi protagonista di una serie di investimenti economici che fanno pensare: grandi quantitativi di giubbotti antiproiettile e maschere antigas, affitto di diverse macchine blindate e acquisto di grandi quantitativi di cibo in scatola, persino materassi e lenzuola. Si potrebbe dire: ma che c’entrano questi prodotti con le strategie golpiste? C’entrano eccome, giacché acquistarne ora prevede l’impossibilità di farlo nei prossimi giorni e non sarà un caso che esattamente gli stessi prodotti erano stati acquistati in grande quantità alla vigilia del golpe del 2002.

    Alcune voci raccolte dalla stampa risultano decisamente inquietanti: rivolte nelle carceri, blocco delle strade e assalti agli aereoporti sarebbero alcune delle opzioni allo studio, mentre Eleazar Diaz Rangel, direttore del quotidiano Ultimas noticias di Caracas, ha dichiarato che la stessa Conferenza Episcopale appoggia con entusiasmo la strategia sovversiva.

    Intanto, sempre nel quadro delle ingerenze Usa, va segnalato che funzionari statunitensi s’incontrano ogni giorno con i vertici del comitato organizzatore di Capriles, con i partiti che compongono la sua coalizione, con i titolari delle agenzie di sondaggi e anche con i manager dei media radio-televisivi e della carta stampata più importanti (Venevision, El Nacional, El Universal, El Siglo, Televen, Globovision, Canal 1, etc.).

    A tutti costori Gregg Adams, addetto stampa dell’ambasciata Usa a Caracas, detta la linea da seguire, impostata negli incontri con Jonh MCnamara e Simon Henshaw, funzionari del Dipartimento di Stato giunti in Venezuela. A questa pletora di questuanti, i funzionari venuti da Washington danno ordini e orientamenti precisi sulla campagna elettorale e su come e cosa fare, prima e dopo il voto, per portare il paese in stallo: dagli slogan alle dichiarazioni, nulla di quello che ruota intorno a Capriles ha a che vedere con lui; si ordina in inglese e si obbedisce in spagnolo.

    La strategia statunitense, insomma, si muove su due varianti: quella preventiva e quella successiva al voto. E se preparano lo scenario con le modalità appena accennate, è proprio perché sono consapevoli di come il vantaggio del Presidente sullo sfidante sia difficile da colmare. Per questo, non appena si sono resi conto che i sondaggi non sembrano lasciare speranze al loro candidato Capriles, hanno diffuso in lungo e largo obiezioni e contestazioni sulla regolarità della consultazione; si cerca di alzare una cortina fumogena che costruisca un clima interno e internazionale che disconoscesca e dunque delegittimi l’eventuale vittoria di Chavez. Riferendosi all’attività sovversiva degli Stati Uniti, Vicente Rangel, giornalista ed ex Vicepresidente della Repubblica, ha avvertito che “il fantasma della violenza che passeggia sulla scena potrebbe drammaticamente materializzarsi non appena si conosceranno i risultati elettorali”.

    Questa strategia - togliere credibilità e prestigio alle elezioni dove vengono sconfitti i loro candidati, delegittimando il voto, insinuando brogli e irregolarità - è operazione politico-mediatica già tentata in moltissimi paesi (e in alcuni dell’ex Urss riuscita) ma che in questo caso si è scontrata sia con il governo venezuelano e gli altri paesi latinoamericani, sia con il più prestigioso degli osservatori internazionali di marca statunitense: il Centro Carter.

    L’ex presidente degli Stati Uniti, infatti, ha definito la macchina elettorale venezuelana “la migliore mai vista”, a prova di “ogni frode” e che “offre le maggiori garanzie per lo svolgimento corretto e ordinato delle operazioni di voto”. Un colpo alla bocca dello stomaco per il Dipartimento di Stato.

    Almeno sotto il profilo della propaganda mediatica le dichiarazioni del Carter Center hanno quindi costretto gli Stati Uniti - che comunque tengono in piedi tutte le operazioni interne per condizionare l’esito del voto - a concentrarsi da subito sul “dopo voto”, puntando all’obiettivo di non riconoscere l’eventuale vittoria del Presidente.

    E’ con questa finalità che Capriles, obbediente come sempre all’ambasciata Usa, ha rifiutato la proposta di Chavez di firmare un impegno che riconosca - quale che sia - il responso ufficiale del Consiglio Nazionale Elettorale, assegnando alla prestigiosa istituzione dedicata il ruolo di arbitro e giudice indiscusso della consultazione. Chavez, tra l’altro, non solo ha firmato il suo impegno, ma ha anche ripetuto in diverse occasioni che rispetterà i risultati qualunque essi siano.

    L’avversità statunitense contro il Venezuela, iniziata con la prima vittoria elettorale di Chavez, è andata crescendo dal 2004, quando venne dichiarato l’antiimperialismo del processo venezuelano e poi rafforzatasi nel 2006, quando il Presidente proclamò il carattere socialista della rivoluzione. Indipendenza nazionale, antiimperialismo e socialismo: tre aggettivi che scatenano la furia di Washington, convinta che il continente sia ancora quello immaginato dalla Dottrina Monroe (l’America agli americani ndr).

    Non succedeva dal 1962 a Cuba che un paese latinoamericano si definisse socialista; mezzo secolo di Washington consensus interrotto solo dai Sandinisti in Nicaragua, che improvvisamente veniva messo in discussione da un paese da cui, tra l’altro, gli Stati Uniti importano il 23 per cento del petrolio di cui hanno bisogno.

    Chavez è perfettamente conscio anche del rischio che la sua vittoria pronosticata dai sondaggi possa determinare nei suoi elettori un calo di attenzione e mobilitazione, ed è per questo che ieri ha lanciato un appello: "Quello che si gioca in Venezuela nei prossimi cento anni dipenderà dall’esito del voto del 7 Ottobre. E’ una battaglia memorabile, quindi nessuno dovrà abbassare la guardia, perché ci giocheremo la vita della patria”.

    Non sembrino solo parole tipiche della propaganda elettorale. Il ruolo di Chavez e il futuro del paese, l’indipendenza latinoamericana, il peso del blocco democratico latinoamericano e lo sviluppo socio-economico dei paesi aderenti all’ALBA, costituiscono i contenuti non scritti ma marchiati a fuoco nelle schede elettorali venezuelane. Su questo e per questo gli Stati Uniti giocano il tutto per tutto a Caracas. Una nuova vittoria di Chavez darebbe un’ulteriore impulso ai processi democratici nel continente, riducendo ancor più il peso geopolitico degli Stati Uniti a sud del Rio Bravo e, a tre settimane dal voto statunitense, aprirebbe anche un ulteriore crepa nel castello elettorale dello stesso Obama.

    Fabrizio Casari - Altrenotizie

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