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Un bel di' vedremo

Un bel di' vedremo

(16 Dicembre 2010) Enzo Apicella
In tutta l'Europa cresce la protesta contro il capitalismo della crisi

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(Lotte operaie nella crisi)

CON GLI OPERAI DELL'ALCOA PER L'INDIPENDENZA DI CLASSE

(16 Ottobre 2012)

Bisogna traguardare con attenzione la mobilitazione degli operai, comprenderne i difficili passaggi, la resistenza contro il capitale, le forme di lotta che si esprimono contro il sistema politico e della stampa, che vuole relegarli a comparse disperate di una narrazione pietistica nazional-popolare, buona per i talk show, le omelie dei preti e le prediche buoniste di sindacalisti che fanno il filo al PD, il partito che con l'UDC, più di ogni altro sta sostenendo il governo Monti.
Vedere gli operai dell'ALCOA lottare come hanno fatto e stanno facendo, mi rimanda a un mio scritto inedito del 31 marzo 2004, dal titolo “La violenza sovrana”. Una critica severa alla sinistra radicale italiana di allora, profondamente attuale e anticipatrice della questione epocale che ci troveremo ad affrontare nei prossimi anni.

A sinistra si dibatte sulla violenza e la nonviolenza.
Entrare nel dibattito è imbarazzante, significherebbe andare al battesimo dei luoghi comuni più scontati.
O cercare tracce di sensatezza in ciascuno dei contendenti più intelligenti. E significherebbe scegliere Rossanda contro Revelli, Tronti contro Bertinotti, il Papa contro Bush.
Proverei a rovesciare l’approccio partendo da un presupposto: una classe con catene radicali è il prodotto massimo degli attuali rapporti sociali. Gli operai, la classe degli schiavi moderni. A subire il peso dell’estorsione di lavoro eccedente, a vivere sulla propria pelle il dispotismo del capitale, a sperimentare, nella forma pura della contraddizione, l’inconciliabilità dei propri interessi con quelli del capitale. A subire la volontà reale del potere ogni giorno. La volontà reale del capitalista in fabbrica, come arbitrio, come volontà di potenza illimitata. Questa violenza è inscritta nella regolazione sociale dei rapporti tra le classi. E’ la condizione normale, prodotto del meccanismo della riproduzione sociale e dei rapporti di produzione capitalistici.
Nello stato di pace, di crescita economica, di sviluppo della produzione di massa, tale violenza appare come opportunità, occasione di crescita, di migliorarsi socialmente. Come forma di emancipazione dalla marginalità rurale e provinciale. Una sovrappopolazione liberata dal giogo della sottooccupazione nelle campagne. Si ricordi cosa abbia significato l’esodo forzato dalle campagne di una massa pronta e disponibile a farsi assoldare dai capitalisti industriali nel secondo dopoguerra del novecento, Ansaldo, Breda, Pirelli, Falck, Fiat, IRI. Tale processo non appariva come cieco e inconsapevole risultato dell’egoismo e del cinismo delle classi dominanti, ma come ricostruzione nazionale, come opportunità per tutte le classi sociali.
Questo contesto fu la peculiare realtà in cui si riorganizzarono i capitalisti collettivi, vincitori e perdenti della guerra, e si sviluppò il mercato internazionale. Si delinearono nuovi assetti statali e si formarono le democrazie parlamentari, gli istituti internazionali, la coesistenza pacifica, lo sviluppo del libero commercio, con una nuova divisione sociale del lavoro su scala planetaria. L’idea di progresso sociale veniva a coincidere con lotte che potessero condizionare la legiferazione a favore dei ceti meno abbienti, per gli operai, i braccianti, le nuove figure sociali di estrazione popolare che uscivano dagli istituti tecnici, una nuova piccola-borghesia studentesca che faceva della critica radicale in tempo di pace una occasione di conquiste sociali più avanzate. Pochi furono a mettere chiaramente in luce il dispotismo del capitale, la violenza inscritta nei meccanismi della riproduzione sociale, gli stessi meccanismi che negli anni addietro scatenarono la più grande delle guerre mai esistite.
Il dibattito attuale è genitura vecchia, stantìa creatività di quegli anni, con l’illusione che la guerra sarebbe stata ripudiata per sempre, che lo stato di pace e il ciclo economico espansivo avrebbero garantito lunga e duratura prosperità alle concezioni riformiste della trasformazione sociale possibile attraverso l’uso delle istituzioni statali. Un secondo novecento nuovo, dove il conflitto poteva sedersi in parlamento, apparentarsi con la violenza dello stato sovrano, condizionando la società civile e l’andamento dei rapporti tra le classi. E non si trattava mica di cretinismo parlamentare, ma di un parlamentarismo che soggiogava gli operai, garantendo un futuro ai loro figli. Anche l’operaio vuole il figlio dottore, diceva una canzone.
Ma quale peculiarità assumono le concezioni democratiche figlie di quegli anni in uno stato di guerra e necessità degli Stati nella profonda e incalzante crisi internazionale? Che roba è questo pacifismo, questo discorrere di nonviolenza e violenza, quale altra magia della violenza dello stato sovrano si sta preparando alle lotte operaie? Che gli autoferrotranvieri violentemente precettati debbano scioperare nel rispetto dell’egoismo della vita privata delle altre classi? Che fare i picchetti impedendo ad altri compagni di fabbrica le lavorazioni sia qualcosa da disdegnare?
Chi si è inventato questo dibattito se tra gli operai non è all’ordine del giorno? E per quali scopi?
I conflitti non si devono gestire con l’uso della forza, dicono. Ma se le contraddizioni sono fondate sulla violenza dei rapporti sociali, ha persino ragione un Tronti nel dire che anche una legge del Parlamento è un atto di violenza. Infatti che dire sulle modifiche delle norme per il riconoscimento degli esposti all’amianto? Non è genocidio di classe senza impunità? E neanche i morti ci vogliono pagare. Si perché non si tratta di morti da seppellire e commemorare come caduti sul lavoro in tempo di pace, ma morti in tempo di guerra, sui quali bisogna risparmiare, perché sul fronte dei conti non c’è tempo.
Se gli Stati e ciascun capitalista individuale nei confronti dei propri operai, manifestano una esasperata volontà di potenza, una autodeterminazione nella quale si esprime l’estremo della decisione, che roba è questo tirare i piedi su violenza e nonviolenza per confondere le idee, in un momento in cui nelle forme iniziali, e ancora deboli e divisi dalla concorrenza, gli operai stanno cercando come classe di resistere e cercare una propria autodeterminazione?
La faccenda è seria.
E’ tale il significato di quello che è accaduto a Genova, la profondità dei contrasti insanabili, una insofferenza generalizzata che si accumula ogni giorno nella società del capitale, una rabbia che si produce contro le angherie e le prepotenze dei ricchi, che i partiti pacifisti del movimento contro la globalizzazione hanno sentito l’esigenza di fare dei distinguo. Le solite abiure e condanne nei confronti delle spinte provenienti dagli strati sociali più immiseriti e radicali, per accreditarsi, nei confronti delle classi superiori, al salotto della politica ufficiale.
La crisi è così generalizzata che costringe le classi a misurarsi su concetti come violenza e nonviolenza. E questo dibattito riflette del resto la stratificazione sociale interna al movimento dei movimenti. I diseredati, i disoccupati, i giovani che hanno imparato in fretta nelle strade di Genova, sono fuori dal dibattito, ritenendolo un falso problema. Per dirla con un Casarini: per scavalcare un muro di un centro di detenzione per immigrati occorre una scala, per evitare le manganellate, meglio uno scudo e un casco. Questa è la posizione disincantata, ironica, chiara, il livello massimo di teorizzazione della piccola borghesia radicale, dinanzi alla violenza dei potenti. Allora non resta che da chiedersi: a chi appartiene il dibattito in corso?
La faccenda può essere spiegata in due modi. Se ci limitassimo a vedere i proclami, le idee e gli slogan, diremmo: sono dei nostalgici dello stato sociale in tempo di pace, degli ingenui e bravi umanitari. Ma si tratta invece non di una professione di ascetismo o filantropia, quanto piuttosto di una posizione politica che ha a che fare con un movimento sociale particolare all’interno dello stato di guerra e di necessità del capitalista collettivo.
Questo particolare movimento sociale professa una particolare forma di gesuitismo di stato, con accanimento nazionale non indifferente, uno spirito angusto e fedele all’ordine costituito. E’ lo spazio vitale di determinati strati sociali che cercano di scongiurare le forme violente che lo scontro sta assumendo. Guardano al ruolo dell’Europa e dell’Italia non berlusconiana con la speranza di ricavarci qualcosa. Qualche sovvenzione per la cooperazione e lo sviluppo internazionale, qualche fondo per gestire la compravendita della forza lavoro immigrata, qualche soldo per continuare a vivere in pace, senza mai mettere in discussione la violenza della sottomissione degli operai al capitale, e prendendo le distanze dalle spinte sociali più radicali del movimento antiglobalizzazione. Non potendo arrivare ai pozzi petroliferi si accontenterebbero di organizzare qualche scuola di recupero per i minori a rischio, qualche museo virtuale di promozione della cultura scientifica occidentale a Bagdad, come tributo alla al-giabr dei padri arabi.
Si tratta di un pacifismo nazionale, cioè dell’altra politica degli stati in tempo di guerra. Sono le truppe civili della medesima guerra che viene combattuta dagli eserciti. E non sul fronte opposto, ma dalla parte della medesima violenza della legge imposta dagli stati nazionali, a cui questi pacifismi appartengono, fino al punto di volersi candidare alla corsa verso i governi.
Gli operai che stanno intentando la faticosa strada dell’indipendenza politica, sanno che dietro al dibattito in corso c’è una spinta sociale radicale che costringe intellettuali e dirigenti dei partiti pacifisti a prendere posizione nei confronti delle forme che tali contraddizioni assumono. Sanno che nell’ambito di tale movimento contro la globalizzazione ci sono diverse spinte, alcune di esse dirette ad attaccarli con queste fanfaronate sul carattere militarista che il movimento di classe degli operai ha assunto nell’arco della sua storia. Ma sanno anche che centinaia tra i loro giovani e altre migliaia impoveriti dalla crisi, vengono sospinti nello scontro e tirati in questo dibattito. Rigar diritto è il messaggio dei dirigenti istituzionali del movimento. Ma questi giovani hanno imparato in fretta nei giorni di Genova, e lo fanno ogni giorno dinanzi alle ingiustizie subite. Questo dibattito, da spacciatori incontinenti di illusioni tragicomiche sulla nonviolenza, nulla può dinanzi alle lezioni violente della storia, vissute sulla pelle di una nuova generazione di migliaia di giovani senza futuro.
Ma la cosa divertente di questo dibattito è che uno si aspetta la solita critica radicale al sistema sociale, quando d’un tratto ti distrai e ti accorgi che questi signori pacifisti e nonviolenti cominciano ad analizzare il sangue alle rotture operaie rivoluzionarie, vengono a rivisitare la storia politica del movimento operaio e a dirci che la classe operaia di ispirazione marxista nel lottare per la trasformazione sociale ha avuto una vocazione violenta e militarista.
Chiariamo innanzitutto una cosa. Gli operai, i non violenti a questo proprio non ci arrivano, più che militaristi, nella storia sono stati militarizzati, spremuti e terrorizzati. Gli operai sanno cosa vuol dire calar la testa con una pistola puntata dietro la nuca, mentre si tira avanti a produrre. Hanno conosciuto la paura, la produzione con gli stati d’assedio. La cavalleria e le fucilate sulle loro folle inermi.
Ora perché nel nostro attuale contesto sociale ci vengono a dire queste cose? Perché invece di dire che le borghesie imperialiste e fondamentaliste sparano per gli stessi motivi per cui ci sfruttano, ci licenziano e ci ricattano, introducono nel dibattito il principio secondo il quale gli operai in passato sono stati militaristi nel modo in cui hanno pensato e agito per farla finita con la società che li sfruttava? Luigi Buonaparte, Napoleone III, lo Zar, questi nonviolenti, non li hanno mai conosciuti.
Gli operai hanno imparato a considerarsi come membri di una classe determinata. La storia ha insegnato loro che una classe sottomessa per liberarsi dalle catene dello sfruttamento, per espropriare gli espropriatori, è costretta all’uso della forza, alla rivoluzione sociale violenta.
La decisione estrema ad autodeterminarsi contro la violenza di una società fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è l’unica possibilità per farla finita con le cause della violenza, con la divisione in classi della società. Gli operai sono l’unica classe che nella lotta per la propria liberazione vuole abolire tutte le classi, la libertà di sfruttamento. L’unica classe che agendo per il potere esprime l’estremo della decisione di farla finita con tutte le violenze.
Cosa dire ai signori impegnati in questo dibattito?
Gli operai sono schiacciati dalla produzione, sentono il peso della violenza della loro condizione, mentre dite loro che vi accingete a rompere con la tradizione violenta del movimento operaio. Un bel giochetto.
Li criticherete alla prossima occasione in cui vi impediranno di andare a lavorare comodamente?
Li criticherete se davanti ai cancelli impediranno fisicamente l’accesso per difendersi dalla rovina?
Se alzeranno un sampietrino contro le cariche?
Hanno capito cosa intendete col vostro dibattito.
La strada sarebbe votarvi e affidarsi a voi.
Avete scomodato l’antropologia e la sociologia più banale sull’eterogenesi dei fini che ogni rivoluzione sociale implica, per accreditarvi a gestire i rapporti elettorali con i vostri alleati guerrafondai del Triciclo.
Gli operai sono dalla parte della loro pace, voi dalla vostra.
Sottomessi e legati a catene radicali, per spezzarle sono costretti a seguire un’idea di pace diversa dalla vostra, senz’altro per loro, l’unica pace possibile.
La loro idea della realtà non allude alla pacificazione degli attuali rapporti sociali, alla possibilità di una pratica mutualistica di governo della crisi dell’attuale sistema economico-sociale. Dove a loro resterebbe il compito di chinare la testa e tirare avanti mantenendo tutte le altre classi, per farle vivere e riprodurre in pace. Per loro non c’è pace fino a quando non verranno poste le condizioni dell’abolizione del loro sfruttamento. Fino a quando ci saranno le classi sociali e la violenza sovrana dello stato borghese non ci sarà pace, qualunque cosa voi intendiate dire con questa parola.
Per gli operai la vostra pace è smottamento del terreno sotto i piedi, sottrazione di capacità, colatura di sfacimento. Debolezza che si aggiunge a debolezza. Diciamolo pure che a questo servite. E’ un servigio di stato, un tributo alla violenza delle classi superiori. Come questuanti della pacificazione, della convivenza civile di popolo, per imbrigliare la lotta alla schiavitù del salariato e legarla a questo orizzonte sociale. Dite alla miseria di non ribellarsi con la forza. Ma in questa operazione in effetti il vostro interlocutore sovrano è il sistema della ricchezza, per accreditarvi a classe dirigente nella società del capitale. E nel farlo vi assumete una bella responsabilità dinanzi a tutti coloro che dite di rappresentare nell’epoca della globalizzazione.
La cavezza al collo si spezza, non si allenta.
La vostra politica allude alla pace come conciliazione degli interessi.
L’interesse della gola che soffoca non è conciliabile con l’interesse del laccio che stringe.
Di che pace parlate? La cugina bigotta della libertà (dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo)?
Gli operai sono violentati e violenti in quanto prodotto sociale degli attuali rapporti di produzione, sono operai salariati nella contraddizione di questo mondo, diavoli sul mercato di braccia, angeli decaduti e non pacifici paolotti, cortigiani dello Stato sovrano. Non si astengono, non trascendono, così come sono materialisticamente allenati a prenderle, sapranno fare astrazione, arrovesciando le acquisizioni dei tempi e metodi, in una inusitata metrica di strada. Qualcosa che scalzerà ogni dubbio, ogni balbettìo e ingenuo dribbling tra l’uso di un “sovversivo” scudo e una ruffianeria istituzionale. Per espropriare gli espropriatori, per spezzare il meccanismo della produzione sociale della ricchezza che li condanna alla miseria, non c’è altra strada che quella della violenza organizzata della classe operaia contro la classe dominante. Questo è l’unico principio storicamente fondato per la liberazione degli operai e per la loro emancipazione dalla schiavitù salariale. Chi parla di nonviolenza parla per nome e per conto di altri strati sociali che vogliono guadagnarsi un piccolo posto al sole o non andare miseramente in rovina nell’ambito dell’attuale meccanismo sociale fondato sulla schiavitù salariale. E’ questo il punto. Il ruolo storico degli operai nella società contemporanea, alle porte di crisi generalizzate, guerre e devastazioni, potrà esercitarsi solo e a condizione che gli operai riusciranno a dotarsi di una organizzazione indipendente dalle altre classi e solo se saranno in grado di esercitare la loro forza organizzata per spezzare la società del capitale.
Oggi non è ancora il loro momento per la critica delle armi, ma il vostro. E lo fate con le armi spuntate di una cultura politica della crisi e in crisi, un magma sociale amorfo, un pantano di vita, appeso lungo treni, piazze, festival, eventi, finanziamenti, istituzioni e dibattiti. Questo pantano chiama se stesso moltitudine. Ma sotto la cenere della produzione, il magma di uomini che si riproducono a condizioni sempre più infime, bolle e s’agita, schiacciato.
Il vostro pacifismo, il vostro modo di lottare accomodandovi al sistema sociale, ben espresso dalla libro di John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, parte da un presupposto, racchiuso nella prima frase di questo scritto: “In principio è il grido. Noi gridiamo”.
Tutte le classi gridano.
Per gli operai il modo di intendere la rottura sociale violenta si esprime esattamente a partire da una condizione opposta:
“In principio è il silenzio, il nostro silenzio di operai. Ogni giorno impariamo il silenzio dei nostri corpi di fronte alle macchine, e cominciamo a dare peso alle parole. A tutte le parole. Fondiamo la nostra lingua in sordina. Non parole disordinate e sbraitate, ma oracoli di lingua sussurrata e centellinata. Il principio di organizzazione del nostro costrutto. Un distillato di pensieri assertivi, nuovi. Da qui, lo scarto, da cui prendere le misure per cominciare a fare due conti. La sperimentazione quotidiana dei limiti del dominio del capitale, di un meccanismo della riproduzione sociale verso la rovina. Una lingua di bestemmia, arcana, imparando a pensare contro noi stessi, in quanto singoli individui, merci in mezzo ad altre merci”.

Rosario Zanni - scrittore e precario - Resp. provinciale tesseramento e radicamento PRC Napoli

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