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Uccidevano per divertimento

Uccidevano per divertimento

(22 Settembre 2010) Enzo Apicella
Cinque soldati usa in Afghanistan sotto corte marziale perché uccidevano civili afghani senza alcuna ragione se non il divertimento personale

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    Afghanistan, undici anni di guerra

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    Era il 7 ottobre 2001, alle ore 20.45 in Afghanistan (le 16.15 in Italia), quando iniziò l’aggressione militare anglo-statunitense con vari bombardamenti aerei su Kabul. Kandahar e Jalalabad.

    Tre quarti d’ora dopo, Bush e Blair informarono i cittadini delle rispettive nazioni di essere in guerra, mentre le televisioni la trasformavano in spettacolo; uno spettacolo di morte che, peraltro, i movimenti antiguerra non sono mai riusciti a inceppare.

    Non era trascorso neanche un mese dall’Undici settembre, ma i piani dell’intervento bellico in Afghanistan erano pronti da tempo, in attesa soltanto di essere legittimati come operazione contro il terrorismo internazionale.

    A distanza di undici anni, il bilancio di quella operazione e della successiva occupazione militare parla da solo.

    Per le autorità, i soldati Usa morti sono duemila, anche se su tale cifra ufficiale da sempre vengono nutriti forti quando fondati dubbi. Infatti, secondo un’organizzazione indipendente che dal 2003 segue tale “contabilità”, i caduti statunitensi sarebbero almeno 125 di più; ma, soprattutto, si ignora quanti militari feriti gravemente e ricoverati in Germania sono successivamente deceduti, così come non è noto il numero dei soldati appartenenti alle forze armate Usa, ma non ancora cittadini americani (in attesa della famosa Green card), caduti per una patria che li disconosce.

    Escludendo i duemila soldati statunitensi, nel conflitto ne sono morti altri 1066 della coalizione Isaf-Nato, tra i quali cinquanta italiani, e circa 10 mila delle forze governative afgane.

    Le vittime civili della guerra, invece, assommano a decine di migliaia: ventimila secondo le stime Onu, ma circa settantamila secondo altre fonti.

    Dopo l’incremento di circa 33 mila militari in Afghanistan, deciso dal “pacifista” Obama tre anni fa dopo il ritiro delle truppe dall’Irak, e nonostante l’impiego su vasta scala dei droni killer, le perdite statunitensi sono aumentate e la guerra è ormai, dichiaratamente, persa mentre si attende di trovare una exit strategy che salvi almeno le apparenze e, soprattutto, gli interessi economici futuri.

    Tale esito disastroso evoca quello dell’occupazione sovietica, sconfitta dalla resistenza dei mujaheddin - allora appoggiati dagli Stati Uniti - sulle montagne e gli altopiani afghani nel decennio 1979-‘89.

    Una resistenza che, finché non iniziarono ad affluire armamenti e finanziamenti dall’estero, era in grado di fabbricare artigianalmente, pezzo per pezzo, i famosi Ak-47 e di distruggere i moderni carri armati dell’Armata Rossa con antiche tattiche di guerriglia.

    Ma quest’ultimo, ultradecennale conflitto, ricorda forse ancor più quello che, nell’Ottocento, vide la sconfitta del colonialismo britannico.

    La regione afgana si trovò allora dentro quello che venne chiamato il “Grande Gioco” ossia lo scontro che, a partire dai primi anni del 1800, si aprì tra l’avanzante Russia zarista verso sud e l’espansionismo dall’India verso nord dell’Impero britannico.

    Sia le mire di Mosca che giunse a dominare il Caucaso e l’Asia Centrale, come quelle coloniali inglesi, si infransero in un territorio che si mantenne sostanzialmente indipendente, giocando sullo scontro delle due superpotenze ma anche sulle peculiarità di un territorio impervio e inospitale che gli eserciti di conquista hanno attraversato, talvolta anche occupato, ma mai del tutto controllato.

    Le diverse realtà claniche, l’esperienza guerresca e un territorio particolarmente favorevole ai combattenti irregolari rendevano e rendono ancora l’Afghanistan un territorio piuttosto che uno stato-nazione, dove le peculiarità sociali, politiche, etniche e religiose non sono governabili da un’autorità centrale e tanto meno disposte a sottomettersi agli eserciti stranieri.

    Durante il primo conflitto anglo-afgano, durato dal 1839 al 1842, in stretta correlazione con la prima “Guerra dell’oppio”, la guarnigione britannica in ritirata venne annientata al passo Khyber: su 16.000 uomini vi fu solo un superstite. Le forze britanniche riuscirono a rioccupare e devastare Kabul per dare prova della loro potenza, ma anche questo successo durò poco.

    La seconda guerra anglo-afghana, combattuta tra il 1878 e il 1880, iniziò con un attacco inglese su tre fronti con circa 40.000 soldati, per lo più britannici e indiani, per contrastare l'espansione russa nel paese. Nonostante la gravissima sconfitta subita a Maiwand, gli Inglesi dopo la decisiva vittoria conseguita a Kandahar riuscìrono ad imporre all'Emirato afgano una sorta di protettorato, con il versamento di un tributo annuale e il controllo di un funzionario del Regno Unito a Kabul, ma appena la missione diplomatica si stabilì nella città, tutti i suoi membri vennero uccisi.

    Infine nel 1919, una terza guerra, vide, a differenza delle altre due, le forze afgane attaccare in India quelle britanniche, composte per lo più da soldati indiani. Le operazioni belliche da parte afghana iniziarono con l'assedio del forte di Landi Kotal, preceduto dalla conquista della città di Bagh. Al termine di questo breve conflitto, costato comunque all’esercito di Sua maestà oltre 1700 perdite, l’Impero britannico dovette rinunciare ai suoi interessi in Afghanistan che divenne un Regno indipendente.

    Tale sconfitta rappresentò per la Gran Bretagna un vero e proprio trauma nazionale, tanto che se ne trova frequente richiamo anche nella letteratura dell’epoca: persino l’ineffabile dottor Watson, fedele compagno di Sherlock Holmes, ricordava sovente di essere reduce della guerra in Afghanistan, sopravvissuto non solo alle pallottole nemiche ma anche agli eccessi dell’oppio.

    Evidentemente, chi nel 2001 credeva di vincere la guerra in poche settimane, non aveva letto Conan Doyle.

    Altra Informazione (Umanità Nova, n. 32, anno 92)

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