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(1 Settembre 2011) Enzo Apicella

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(L'unico straniero è il capitalismo)

ESSE e ACCA (una storia europea)

(4 Maggio 2004)

Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza. [Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo]

Le frontiere mi hanno sempre messa in ansia, innervosita: i territori, i paesi, i villaggi non terminano, semplicemente si diluiscono l'uno dentro l'altro, e le frontiere sono impedimenti innaturali. Mi sono chiesta spesso come si vive in una città di frontiera, ancor di più come possa essere la vita in quei minuscoli villaggi spezzati in due da una sottile striscia di terra di nessuno: uno stato a destra, uno a sinistra. E' indubbio che gli abitanti si percepiscano come un unico corpo sociale, che tutto si sia mescolato - la lingua, i sapori del cibo, i colori del paesaggio, le amicizie, gli amori - e che la frontiera stia lì a far da frattura forzata in un luogo che non accetterebbe spaccature naturali. Mi sono sempre chiesta perché non abolirle, le frontiere. Perché non lasciar libera la gente di andare dove vuole. Perché non dare a tutti il diritto ad essere cittadini dello stesso mondo. Tornando dai Balcani mi è capitato spesso di dover scegliere fra lo sportello Schengen e quello non-Schengen, ai posti di frontiera. Io sono una persona di tipo "Schengen", che mi piaccia o no. Mi è capitato spesso di dovermi separare fisicamente dagli amici con i quali viaggiavo, che erano persone di tipo "non Schengen". L'ho vissuta, questa separazione, come un'umiliazione. Molte pagine dei miei taccuini raccontano l'orrore delle frontiere e dei posti di blocco, e l'ipocrisia dell'Europa che si dice 'unione di uomini' e altro non è che traffico di merci, ciclopico ipermercato dove i containers vanno senza intoppi e dove gli uomini vengono respinti, rigettati, fermati, incasellati. Ci sono aspetti dell'Europa che mi fanno ribrezzo: il concetto di "clandestino", i centri di "accoglienza" per forestieri, la logica dei bastioni. Un continente chiuso, un continente che respinge il nomade o il viandante è un continente destinato a una morte lenta. Ancor più paradossale è l'idea che questa abbottonatura, questa selezione e questa chiusura siano la nuova logica di un luogo geografico come il Mediterraneo, che è la culla della civiltà proprio perché è un mare aperto. Se Bossi e Fini avessero avuto avi somiglianti, oggi non possederemmo né la filosofia ateniese né l'architettura veneziana. Chissà se gliene frega qualcosa, agli uomini che fanno le leggi sull'immigrazione. La storia di Esse e di suo fratello Acca mi ha colpita molto per questa semplice ragione: è la prova di un'Europa che non c'è, che non sappiamo costruire, che lasciamo precipitare nelle mani viscide delle burocrazie o delle polizie (o degli isterismi nazionali?) e sottraiamo agli uomini. La storia di Esse, che sto per raccontarvi, è una storia vera. Ho conosciuto Esse grazie ad un'amica comune, ci siamo scritti alcune lettere nelle quali lui mi ha raccontato, nei dettagli, quanto è accaduto alla sua famiglia. Gli ho chiesto il permesso di narrare daccapo la sua storia con parole mie, e spero di riuscire nell'intento: mi piacerebbe che provaste un po' di sana paura, leggendola. Qualcosa di vagamente kafkiano, quell'inquietudine che ti fa riporre il libro per pensare: potrebbe accadere benissimo anche a me.

Al principio, la storia è lineare: Esse vive in una città del nord Italia, diremo Milano per comodità, con il fratello Acca, che ha una moglie e due bambini ancora piccoli. Esse e Acca appartengono ad una famiglia di Rom Khorakhanè, il cui luogo di origine è il Kosovo. E' una famiglia ampia, la loro, allargata, come spesso accade nelle famiglie d'origine nomade. Esse è nato "per puro caso" a Zagabria, ed è entrato in Italia da bambino, molti anni fa: da clandestino, attraverso i boschi. in Italia è cresciuto, si è diplomato, vive e lavora, ed è - naturalmente - cittadino italiano. Suo fratello Acca, invece, è ancora cittadino serbo: lo ha raggiunto più recentemente, e vive e lavora a Milano - come moltissimi - grazie a un permesso di soggiorno che, con pazienza, potrà un giorno diventare una cittadinanza. I tempi, per chi si sposta in quest'Europa poco confortevole, sono lunghi, e la burocrazia è insensibile alle esistenze (e spesso anche ai diritti). La burocrazia gioca con cifre, sigle, calcoli: basta pochissimo per trovarsi avviluppati nel filo spinato dei pubblici ufficiali, dei colletti bianchi, delle dogane. Basta una serata storta. La serata storta di Acca accade a Gorizia, a fine ottobre: Acca è stato a una festa ospite di amici; Gorizia non la conosce affatto, ed è già stanco. Lo aspettano a Milano la moglie ed i bambini e suo fratello Esse, sicché Acca si mette in macchina di buona lena e si avvia verso l'autostrada. Capita a tutti di sbagliare, di confondere un luogo per un altro, basta una distrazione. Quando Acca nota la segnaletica in un'altra lingua si rende conto d'essere in Slovenia, quel piccolo paese che da ieri è parte dell'Europa schengeniana. Ma siamo nell'ottobre del 2003, e Acca ha di fatto ha passato un confine incustodito. Chissà dov'era il doganiere: a bersi un buon caffè, probabilmente. Acca si rende conto in fretta del guaio in cui potrebbe essersi cacciato: inversione a U e torna immediatamente indietro. Purtroppo per lui, il caffè del doganiere era un caffè ristretto, perché al suo passaggio scende la sbarra e al nostro Acca vengono chiesti i documenti. "Favorisca il passaporto": la frase d'ordinanza che siamo abituati a sentire. Ma Acca il passaporto (serbo) non ce l'ha, l'ha lasciato a Milano, a casa. Ha la carta d'identità italiana, con sé. "Favorisca il permesso di soggiorno", insiste il doganiere. Acca prende dal portafogli la denuncia di smarrimento del permesso di soggiorno, perché Acca il permesso di soggiorno l'ha perduto nel mese di agosto, e l'ufficio competente gliene ha promesso uno nuovo per il 24 di novembre: tempi lunghi, quelli dei burocrati. Naturalmente, a rigor di logica, è tutto perfettamente regolare: la denuncia di smarrimento, scrupolosamente emessa da una questura italiana, sostituisce il foglio rubato a tutti gli effetti. Non dovrebbe esserci problema, pensa Acca: invece il problema c'è. Il doganiere probabilmente non si fida, vorrebbe il passaporto, la legge è legge, e senza chiedersi qual è la storia personale di un uomo che ha commesso, ahi ahi, il gravissimo errore di sbagliare strada in una buia cittadina di confine e di aver lasciato a Milano il suo stramaledetto passaporto, il doganiere gli intima di tornarsene in Slovenia. Dieci metri più in là, nella terra di nessuno. Dieci metri più in là non viene accolto con ricchi premi e cotillions, il nostro Acca: la legge è legge anche in Slovenia, Acca è cittadino serbo senza passaporto, dei documenti italiani gli sloveni non sanno che farsene, sicché viene dichiarato, su due piedi, clandestino. Guardate: clandestino è una parola agghiacciante. Letteralmente significa "di nascosto", in pratica significa "privato dei diritti". Il clandestino, canta Manu Chao, è anche un desaparecido. E' uno scomparso, un numero che rischia di non apparire sul quadrante della storia. E' così che, in meno di un'ora, Acca passa da una festa con amici in quel di Gorizia a un centro di "accoglienza per stranieri" in Slovenia. Il nostro sistema politico, lo sapete, modifica il linguaggio, lo adatta alle esigenze del potere. Io i centri di "accoglienza" li ho visti da vicino (chi si ricorda Via Corelli?), e l'accoglienza è un paradosso. I centri di "accoglienza" sono carceri speciali: carceri per innocenti. Fa freddo, si mangia poco, si ha diritto a trenta minuti di visite, a qualche telefonata (chi ha gli spiccioli), e si annega nella solitudine, nelle domande (che fare per uscire di qui, io non ho fatto niente): puniti per essere di un altro luogo, puniti per un timbro che manca (e spesso manca per negligenza dell'apparato, che dei destini individuali se ne frega), puniti per un foglio firmato di sghembo, o - come accade a Acca - per un passaporto lasciato a casa nel cassetto d'un comodino.

Acca comunque è ottimista: basta una telefonata, basta che suo fratello Esse faccia una volata a Gorizia, poco dopo il confine, e gli porti quel passaporto: poche ore e tutto va a posto. Così crede Acca, e così crede anche Esse, che da Milano in fretta e furia lo raggiunge. E si porta appresso, da uomo previdente, tutti i documenti che provano l'esistenza di Acca, i suoi diritti: ha un lavoro, suo fratello, con un contratto regolare; ha una casa in affitto, suo fratello, con un contratto regolare; ha un codice fiscale, un tesserino sanitario, un certificato di residenza. E' ovvio che si tratti di un errore: è ovvio per la storia degli uomini, ma le segreterie e gli uffici l'errore non lo calcolano, né sanno comprendere il malinteso, la svista. I documenti che Esse porta a suo fratello Acca non bastano, c'è un piccolo dettaglio che non quadra: il passaporto di Acca è scaduto. D'accordo, ma i tempi tecnici di rinnovo sono di sei mesi, accidenti: entro sei mesi l'avrebbe rinnovato, che fretta c'è, la legge lo prevede. Sono discorsi a cui i burocrati sono sordi: Acca è già caduto nella trappola della clandestinità, e da questo punto in poi il percorso si fa labirintico; troppe coincidenze, troppi dettagli di cui tenere conto. Acca è un rinchiuso, ormai. I giorni naturalmente passano, e lui deve affidarsi a suo fratello Esse, che smuove mari e monti: avvocati (si pagano, e si pagano cari), associazioni varie, chiunque possa aiutare un ipotetico clandestino - che clandestino non è - a ritornarsene a casa sua e lasciarsi alle spalle un episodio tanto kafkiano. Le soluzioni, legalmente parlando, sembrano due: domandare alle autorità slovene d'inoltrare alle autorità italiane una richiesta di rimpatrio, e attendere la risposta italiana, oppure domandare di essere trasferito in Serbia da cittadino serbo: in Serbia Acca potrebbe rinnovare il passaporto, far richiesta di ingresso in Italia nuovamente, e ripartire da zero. Già, come la fanno facile, i nostri burocrati: ogni timbro è denaro, ogni spostamento è denaro, ogni giorno perso è denaro sprecato, e come ben sapete non tutti i portatori di permesso di soggiorno hanno la rendita del nostro audace Cavaliere. Perché i documenti si paghino, poi, nessuno se l'è mai domandato? E si pagano carissimi: ogni frontiera ingoia soldi, ogni ufficio estorce marche da bollo. E ogni viaggio che Esse è costretto a fare per raggiungere suo fratello Acca in Slovenia costa soldi, fatica, frustrazioni. Gli sloveni, per facilitare i due, d'ufficio prendono Acca e lo sbattono in un secondo centro di "accoglienza": al confine con l'Ungheria, stavolta. Chissenefrega? Questioni logistiche, normale ridistribuzione degli "accolti" sul territorio nazionale. Nessuno sa che i viaggi di Esse - avanti e indietro per tirar fuori suo fratello da quel dedalo di timbri e pile di cartacce - raddoppiano il chilometraggio. Dieci ore di viaggio per trenta minuti di colloquio. Avanti e indietro. E i giorni passano, le settimane passano.

Dovendo scegliere fra burocrazia serba e burocrazia italiana, voi a chi affidereste la vostra misera sorte? E' un bel dilemma. Quella italiana a Esse e Acca sembra più affidabile: dopotutto, gli sloveni hanno assicurato che una richiesta di rimpatrio viene evasa in minimo due giorni, massimo due settimane. Di certo, però, non ci può essere niente. Chissà se i segretari che smistano i fascicoli con i nostri nomi sanno che attaccato ad ogni nome-e-cognome c'è un individuo: probabilmente no, vista la negligenza. Ai primi di dicembre, della risposta italiana alla richiesta slovena ancora non c'è traccia: Acca è ancora incastrato lì, destino in bilico, sbattuto in un buco sloveno ai margini dell'Ungheria. Mangia quello che c'è, dorme quando può. Ma come diavolo funziona una procedura di richiesta di rimpatrio? Mentre Acca si deprime, Esse si mette in contatto con chiunque possa dargli una risposta decente, e scopre il complesso di ingranaggi: la Slovenia chiede formalmente il rimpatrio al Ministero degli Interni italiano, il quale gira la domanda alla Questura di competenza; quindi la Questura, in caso di risposta affermativa, invia il nullaosta al Ministero degli Interni a Roma, il quale provvede a rigirarlo al Ministero degli Interni sloveno affinché venga comunicato al centro d'accoglienza. Itinerario di un incubo. La richiesta di Acca è ferma su una scrivania da settimane. Esse, con l'aiuto di un'associazione, sollecita la pratica: in Italia si può dimenticare un cittadino? Certo che si può. E un cittadino, imparatelo ora, può avere anche una data di scadenza: il termine massimo di permanenza per un clandestino in Slovenia è di sessanta giorni, trascorsi i quali scatta l'espatrio: se Roma non dà risposta entro il 27 di dicembre, Ljubljana espelle Acca, direzione Belgrado. Quanto hanno sperato, Acca e suo fratello Esse, di farcela in tempo? Forse domani, forse fra due giorni, forse dopodomani. I carteggi fra ministeri e questure non computano mai le giornate di lavoro perso, le bollette del telefono che Esse paga e ripaga per coprire le tante, troppe telefonate internazionali (attenda in linea! Ma lo sanno, quelli che ci parcheggiano lì con le loro musichette, che dietro una telefonata a un consolato, a un'associazione, può esserci qualcuno che non avrà i soldi per pagare la telefonata e che ha bisogno di quella dannata informazione?) E le questure e i ministeri non tengono conto dei bambini di Acca che chiedono dov'è papà, perché non torna a casa per il mio compleanno, ma non torna nemmeno per Natale? Sperano invano, Esse e Acca: le autorità slovene consigliano di non sperare più, e di far richiesta di espatrio prima che scatti il decreto di espulsione. E' una storia brutta, il decreto di espulsione, e se Acca ne ricevesse uno potrebbe mettere una bella croce sopra la Slovenia per sempre: niente transito, niente turismo. Meglio domandare d'essere mandati a Belgrado spontaneamente, prima che l'orologio dei clandestini batta il suo sessantesimo giorno. Il pomeriggio del 22 dicembre, Acca viene caricato sull'aereo che lo scaricherà a Belgrado.

In Serbia, Esse e Acca hanno l'anziano padre. I rapporti non sono granché, ma meglio di niente: può dare un supporto logistico, vive a Nis, e poi Acca almeno è libero. Può camminare per la strada, può muoversi, può esistere. Acca si fionda all'ambasciata serba, dove conta di rinnovare il passaporto: dopotutto è solo un timbro, o così crede. "Serve la carta d'identità serba", gli spiega l'impiegato. Ma quale carta d'identità serba? Acca se n'è andato dalla Serbia che era un ragazzino, la carta d'identità nemmeno l'ha mai avuta, ha quella italiana, vive in Italia, che dovrebbe mai farsene d'una licna karta? "La legge è legge", spiega l'impiegato: anche in Serbia. Per ottenere una carta d'identità, dopotutto, basta soltanto procurarsi certificato di nascita e di cittadinanza. Lei dov'è nato?, domanda l'impiegato. A Vucitrn, risponde Acca, sono nato a Vucitrn. Chi di voi ha familiarità con la geografia jugoslava è già rabbrividito, perché Vucitrn di fatto vuol dire: Kosovo i Metohija, laggiù, nel territorio stile far west amministrato malamente da Onu e Nato. Dio, com'è facile venir scaraventati da una festa con amici a Gorizia fin nel profondo buco nero delle guerre Al nostro Acca tocca andare a fino a Vucitrn, dove probabilmente l'impiegato di servizio, nel suo gabbiotto scrostato, lo fissa sconsolato: c'è stata una guerra, molte guerriglie, i documenti vanno persi, si spostano, bruciano, scompaiono: e Acca è serbo, e i serbi in Kosovo non hanno più un'esistenza. I documenti Acca deve andare a Kraljevo a domandarli. Kraljevo, più su, in Serbia. Immaginate Acca che per due settimane transita da Nis a Belgrado, da Belgrado a Nis, da Nis a Vucitrn, da Vucitrn a Nis, da Nis a Kraljevo, da Kraljevo a Nis. Fino alla prefettura, dove esibisce, finalmente, tutti i suoi incartamenti regolari e freschi di timbratura. "Ma lei è un serbo kosovaro ", sospira l'impiegato della prefettura, lasciando presagire il peggio. In questo frammento di vita di Acca c'è tutta la tragedia di un pezzo di popolo che nessuno vuole più: i serbi del Kosovo hanno perduto il Kosovo, cacciati, e non sono mai veramente divenuti serbi. Così: uomini sospesi nella storia che ha giocato loro un brutto tiro. Hai voglia a discutere se la colpa sia stata di Milosevic o di Thaci: ma che ne sanno, Thaci e Milosevic, dei tanti poveri cristi fatti dondolare da un territorio a un altro, gli albanesi in fuga in Albania, i serbi in fuga in Serbia, e se non hai i documenti non lavori, e se non lavori non mangi, e se non hai i documenti non transiti, non passi, torni indietro, ma indietro dove? Non ho più niente, indietro, la guerra s'è divorata tutto: quante volte ho letto, ho sentito, ho trascritto queste piccole frasi. Acca sospira: dove devo andare, in Kosovo, per rinnovare questo passaporto? Chissà. Il Kosovo, signori miei, è un casino. A Vucitrn, dove Acca è nato? Pare di no: Vucitrn è un posto piccolo piccolo, mica ci sarà una prefettura. Forse a Pristina, ecco, sì, a Pristina, che è il capoluogo. No, nemmeno Pristina va bene, ormai è albanese: i documenti serbi a Pristina non si fanno più. Bisogna andare a Mitrovica, quella Mitrovica divisa in due, dove - qualche mese dopo - bruceranno le case e gli ospedali. A Mitrovica Acca scopre di essere caduto dentro un pozzo: per cominciare, perché non ha portato il modulo di richiesta del rinvio del servizio militare? Perché nessuno mi ha detto che era indispensabile, risponde Acca E poi, perché il suo nome è ACCA I e qui c'è scritto ACCA U? Naturalmente un errore. Un errore? Eh già, l'alfabeto cirillico: la I che sembra una U latina, scritta in corsivo. Chi ha trascritto il nome di Acca il cirillico probabilmente non lo sa: è facile che accada, in Kosovo. Questi dettagli - una dimenticanza, una trascrizione frettolosa - costano a Acca quattro settimane di attesa: avanti e indietro, da Nis a Mitrovica, da Mitrovica a Nis. Siamo a metà marzo, e Acca deve fare in fretta: il suo permesso di soggiorno (sì, quello smarrito, che deve essere rifatto e rinnovato in Italia) scade il 19 aprile. Se Acca non torna è fuori dall'Italia: ci sono i suoi due bambini, in Italia, c'è sua moglie, che non vede da una buia sera di ottobre in cui, a Gorizia, ha soltanto sbagliato strada.

Questa storia è finita quasi bene: c'è voluta ancora una buona dose di fatica, altre telefonate per affrettare le pratiche dell'ambasciata, il nullaosta di Roma, altri giorni di attesa e su e giù fra Belgrado e Nis, ma in aprile Acca è tornato a casa. Adesso attende che gli rinnovino il permesso di soggiorno, senza il quale non può lavorare: "a corollario di quanto è successo", mi scrive oggi suo fratello Esse, "ti posso solo dire che proprio oggi dopo sette giorni di tentativi siamo riusciti a contattare il numero telefonico messo a disposizione dalla questura per prenotare l'appuntamento per il rinnovo del permesso di soggiorno: ce l'hanno fissato per il 15 settembre! E quello è solo il giorno in cui si va a consegnare la modulistica. Dopo dovrà passare almeno un altro mese affinché il permesso sia pronto. Questo significa che mio fratello non potrà lavorare in regola fino a metà ottobre 2004. Il tutto perché una sera di ottobre 2003, un doganiere non era al suo posto e mio fratello ha sbagliato strada "

La storia di Esse e di Acca è vera: l'ho raccontata a modo mio, ma non ho aggiunto nulla. Ho solo omesso alcuni particolari burocratici, il nome della città italiana in cui vivono - che non è Milano - e i loro nomi reali, e l'ho commentata lasciando scivolare qua e là i miei pensieri malinconici. Esse e io siamo in contatto, e se lasciate un messaggio lo leggerà. La storia di Esse e Acca è una storia che dovrebbe stare nelle pagine di storia dell'Europa, alla voce: come si sopravviveva nel 2004 nella gabbia di Schengen. Invece, nei libri di storia ci entreranno i discorsi solenni tenuti nelle capitali della nuova Europa allargata l'altroieri notte, i discorsi solenni del Continente Unito: il continente dove un ragazzo serbo che ha dimenticato il passaporto a casa e sbagliato strada in una sera buia può essere tenuto lontano dalla sua famiglia sei mesi, costretto in carcere senza aver commesso alcun reato, sparato da una città all'altra come una pallina dentro un flipper.

P.S. In questa storia ho voluto lasciare le maiuscole, perché spero che molti la riportino su altri siti. In genere non amo farmi notare e non cerco visibilità, ma mi auguro, questa volta, che la storia di Esse e di Acca faccia il giro del web e insegni qualcosa ai cittadini del continente-Europa. Volevo dir grazie a Esse, per tutto.

[è possibile commentare l'articolo sul sito http://www.exju.org/]

babsi jone
www.exju.com

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