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Verso la vittoria

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(6 Ottobre 2012) Enzo Apicella
Domenica 7 ottobre elezioni presidenziali in Venezuela

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    (La rivoluzione bolivariana)

    Cronache Bolivariane/2

    corrispondenza di Fulvio Grimaldi da Caracas

    (19 Agosto 2004)

    Sta placandosi il tempo della grande festa. Come rilanciata dalla fiondata impressa,come suole, dalla controrivoluzione, riparte la rivoluzione bolivariana che, per Chavez, piaccia o non piaccia all'oligarchia fascista e golpista spodestata e ai suoi sponsor e padroni USA,"ahora vamos a aprofundir". E parte anche la Grande Provocazione. Poche ore fa, nel lunedì della travolgente vittoria del popder popular, finita l'intervista con William Lara, braccio destro di Chavez e coordinatore nazionale del suo partito, MVR, ero andato a vedere le facce livide dei sopravvisuti alla "derrota" dei 20 punti di differenza nella più massiccia votazione nella storia di questo paese. Erano rimasti, nella roccaforte di Plaza Altamira, non più di un migliaio di sopravvissuti, piccola e media borghesia creola profondamente reazionaria, la carne da cannone dei grossi capitalisti e latifondisti, politici maneggioni e scaltri della dalemiana Azione Democratica e del democristiano Copei, giá in volo per Miami (i Cisneiros, i Mendoza), sulla scia dei golpisti finiti in quel pozzo nero, ricettacolo di ogni turpitudine mafiosa e di ogni imbroglio bushiano, nel 2oo2. Questi, urlando contro la "fraude" e contro Carter che avrebbe accettato la "fraude" chavista in cambio di petrolio, dovevano reggere la coda ai rimasugli di destabilizzazione messa in atto all'indomani della disfatta, già consacrata da proprio tutti i sondaggi pre-referendum e poi sancita nientemeno che da Gaviria, per l'OSA, e da Carter per gli USA, cioè nientemeno che da coloro di cui l'oligarchia più si fidava (fiducia che sarebbe stata giustificata se solo il popolo venezuelano avesse deciso di misura e non a valanga).

    Con la coazione a ripetere del potere impunito, ecco che spuntano tre energumeni, a faccia scoperta, a piedi, in mezzo alla piazza bloccata su tutti i lati dalla polizia amica e dai pompieri, sparano nel mucchio dei capannelli vocianti , falciano otto persone, una morirá, spariscono senza che nessuno delle centinaia tra agenti e vigili faccia neppure la mossa di catturarli. Scena identica a quella del giorno prima, quando bande di ignoti in motocicletta hanno sparato sulla folla in coda per votare nei quartieri popolari e hanno ucciso. Scena ancora più identica a quella dell'aprile 2002, allorchè una manifestazione dei riccastri di Caracas Est contro Chavez fu bersaglio di cecchini che poi furono identificati come agenti israeliani. Poi fu il golpe e la controbotta della giustizia proletaria. Scopo evidente di questi remake: provocare una risposta, far perdere il controllo alle parti in causa, suscitare la scalata della violenza , fino alla guerra civile. Erano in attesa dei loro capibastone, le signore inanellate e pur sempre fresche di estetista e i giovanotti muscolosi con occhiali a specchio e supermoto, ma i magnate dell'informazione e della pandemia di menzogne alla Cisneiros, i delinquenti pseudosindacali alla Carlos Ortega, la cosca del governatore dello Stato di Miranda, Enrique Mendoza e del suo improponibile rivale nella successione a Chavez, Marcel Granier, altro berlusconide dei media e della mafia, giá erano a Miami, ad ascoltare le istruzioni del padrone per la nuova situazione e, soprattutto, a mettere al sicuro i frutti di secolari rapine al popolo vampirizzato. Si presenta solamente un numero tre o quattro dell'AD-Copei, che, nel tornado di bile che lo investe, invoca la calma, la pazienza, l'autocontrollo. Eh gíà ci sono le telecamere, quelle internazionali... Le istruzioni vere, quelle appropriate si daranno dopo, al chiuso.Se si daranno. Giacchè questa marmaglia è profondamente divisa, la disfatta l'ha inviperita ulteriormente, c'è un addossare la colpa al rivale nell'impossibile gara a una rivalsa democratica nella scadenza del 2006, c'è chi da retta ai sion-nazisti di Washington che vorrebbeero torrenti di sangue per le strade, fino a un intervento dalla Colombia per accaparrare almeno lo Stato confinante di Zulia (ancora sotto governatore di destra), quello che galleggia sul petrolio, alla maniera di Panama, o del Kuwait. E c'è chi dice calma e dollari, ora il petrolio costa troppo, magari Bush perde le elezioni, serve un Venezuela che non interrompa il flusso del combustibile capitalista per soddisfare i terratenientes. Ci penseremo dopo ad annegare nel sangue, in qualche modo, questi rigurgiti di Americhe reaparecide.

    Kuwait, Iraq. Non c'è intervento pubblico di Chavez in questi giorni in cui non si riferisca all'Iraq, sia per far capire quanto si rischiava e quanto si è evitato, per ora, sia per un debito nei confronti di quegli altri che stanno mettendo in ginocchio statunitensi e loro camerieri e boia: i partigiani iracheni. C'è in tutto il processo bolivariano un collegamento diretto con gli Stati Canaglia, con quei paesi che, ci piaccia o no, sono l'argine all'olocausto, un lavoro verso quel fronte antimperialista che Chavez già negli anni passati aveva adombrato stringendo rapporti con paesi come Iran, Iraq, Corea del Nord, Libia a fottendosi sia della collera imperialista, sia dei nasi arricciati dei nostri utili idioti. Sapendo meglio di loro che cosa fosse in gioco. E William Lara, che può essere considerato il massimo artefice organizzativo della stravittoria, in quanto responsabile nazionale di quell'incredibile organizzazione che ha visto la mobilitazione di migliaia di militanti (qui si dice così, non "volontari" o "attivisti") nelle "Pattuglie Elettorali", nelle "Unità di combattimento (qui si dice così, mi dispiace, Lidia Menapace o Gennaro "Migliore")elettorale", nei Circoli Bolivariani, veri Soviet onnipresenti nei luoghi della vita, dello studio, del lavoro, della sofferenza, William Lara ribadisce l'originalità dell'esperienza bolivariana, che non vuole essere modello a nessuno, ma che crede anche profondamente nell'"ALBA". "Alba", per Alternativa Bolivariana per l'America, in guerra dichiarata contro l'ALCA, che è il modo statunitense per ricolonizzare quanto perso dalla Spagna, dal Portogallo, dall'Inghilterra, da una Chiesa che, in questoi paese, è proprio una fetecchia filofascista, dai feudatari, dai gorilla e dalle multinazionali USA, quello contro il quale insorsero i maja del Messico, illusi e abbandonati, fetticcio abusato di vaneggiamenti nonviolenti, quello contro il quale qualcosa serpeggia con forza in tutto il continente Sud. Perchè, come ci ha detto ierisera Chavez in una conferenza stampa tutta sui generis, che vedeva il presidente prorompere in canti, risate, nomignoli per i giornalisti riconosciuti, qui non basta dire dei NO, no all'Alca, no all'FMI, alla Banca Mondiale, alle multinazionali, al mercato-dio. Qui bisogna fare progetti, essere positivi, impari Fassino (ma quando mai), proporre qualcosa di radicalmente diverso, rovesciare il sistema, pensare a un banco continentale etico per davvero, per il microcredito che qui ha fatto fiorire un'economia di cooperative al posto del latifondo e della grande distribuzione e produzione, per i finanziamenti allo sviluppo sociale, alla sanità, all'uscita dalla fame. E intanto c'è il Mercosud, cui il Venezuela si è associato e in cui più di Lula, che sta dando segni di inquietudine da egemonismo brasiliano messo in crisi dalla più forte e vincente radicalità bolivariana, ma in sintonia con Kirchner e con i grandi movimenti in Bolivia, Uruguay, Ecuador (dove oggi, al tradimento del finto indio Lucio Guiterrez si è risposto con la creazione di un Movimento Bolivariano dell'Ecuador che raccoglie tutta la lotta di massa di questi anni), Chavez e i suoi vedono la chiave per opporre al moloch del Nord uno schieramento in grado di fare da solo, meglio, con una sovranità rafforzata dall'integrazione. E' ovviamente l'unica via. Ci fosse un Chavez nel mondo arabo... C'erano. Ma li hanno saputi stroncare. Avrebbero provato a stroncare anche questo non fosse per tre carte invincibili che lui ha in mano: la coscienza politica matura e irreversibile delle masse popolari aderenti al processo rivoluzionario, oggi ribadita con il nono voto in 6 anni, ma anche con la prontezza di occupare la piazza contro la penetrazione anche del più perfido scarafaggio (chiedendo scusa al povero animaletto) e, se necessario,di difendersi con ogni mezzo necessario da pezzi di pseudumanità "pronti - come dice Chavez - a tutto"; il successo in un lavoro, disconosciuto dai masturbatori soloni della nostra sinistra, nelle forze armate, perseguito per tutti gli anni'80 in clandestine campagne che brandivano i testi di Lenin e di Gramsci, approfondito nel corso di questi anni di rivoluzione vittoriosa facendo affluire nell'esercito le facce cappuccino forte o leggero degli indios e dei meticci, mutando di un corpo, identificato da sempre con la reazione e la conservazione, l'ideologia e le lealtà, il senso della nazione, il mandante e destinatario delle proprie responsabilità. E poi Cuba. Senza Cuba resistente e vittoriosa a dispetto di tutto, a che cosa si sarebbero potute attaccare le masse nel momento della repressione, a quale cima annaspata tra gli scogli, nel momento in cui da tutte le fonti di rumore non venivano che inganni, sozzura, menzogna?

    Sono stati tre giorni di festa, dopo l'incredibile prova di domenica, in cui si è resistito a tutto, alle fandonie del pomeriggio di una valanga oligarchica, al CD che falsificava la voce di Francisco Carrasquero, presidente del CNE (Comitato Elettorale Nazionale) e gli faceva dire, alle presunte ore 20, che i Sì alla revoca avevano vinto; alle aggressioni omicide che volevano impedire il voto nei quartieri proletari e nei ranchos del riscatto in marcia; a 25 ore di attesa nella fredda alba tropicale, nella canicola spaccasassi del mezzogiorno, nell'estenuante prolungarsi dell'orario di voto, dalle 16 alle 18, no,alle 20, alle 24, fino a quando c'è ancora un votante. E si è finito alle tre, con la più bassa percentuale di non votanti della storia di questo paese. E la festa ha sollevato a mezzo cielo mezza città, quel cielo rojo che aveva auspicato Chavez parlando davanti ai milioni della domenica prima. Si è come levato in alto un'enorme creatura rossa, magliette rosse, berretti e baschi rossi, fazzoletti rossi, bandiere rosse, palloncini rossi, fuochi d'artificio rossi. La spina dorsale era quell'Avenida Urduneda che nasce tre i piedi del Palacio Miraflores, dove governa il presidente, e fluisce enormizzata dalla folla fino all'estremo occidentale della città proletaria, con i suoi laghi rossi a Plaza Bolivar, in faccia al municipio del sindaco golpista (la sua polizia, milizia privata dell'oligarchia, come tutte le altre, è rimasta consegnata in caserma per tutta la giornata referendaria), in Plaza Candelaria, dove si suona, si balla, si canta (non ricordo altre rivoluzioni cantate come questa, Manu Chao sarà anche simpatico e benvenuto, ma qui la musica, come nella lotta irlandese, nasce dal basso)...

    Sarò, mi consenta, irriverente, ma forse no, dato che credo che tutti gli esseri viventi siano rivestiti di pari dignità, basta mettersi nei loro piedi. E che la folla che si sbracciava, agitava tutti i pezzi di corpo agitabili e anche quelli non agitabili lungo Avenida Urduneda, in Avenida Bolivar, in Avenida del Mexico, rideva, rideva, rideva, poi esplodeva in urli sconnessi, ti guardava, si guardava con amore, riconoscendosi, si faceva passare nei visi bagliori di memorie desolate, torti inenarrabili subiti nei secoli, tosto dissipati da un altro giro di danza, abbraccio, capriola: Uh-Ah - Chavez no se va, El pueblo unido...No volveran (non torneranno). L'irriverenza sta nell'accostamento che m'è venuto con il mio bassotto Nando, quando rientro a casa dopo prolungate e sofferte da entrambi distanze. Sono momenti di incontinente follia dove l'esplosione emotiva di felicità si deve per forza contrastare con un sentimento contrario, che ristabilisca un limite, giustificato o no. E allora tra i baci, scodinzolamenti furiosi, contorcimenti, andarivieni a scatto, ecco che irrompe il ringhio, per non uscir di testa, per restare nei binari della ragione, per una possibilità di equilibrio. Poi tutto si addolcisce, il bacio più lento, il ringhio che diventa brontolìo, la tenera collisione-collusione. Così in Avenida Urduneda, all'ombra di un capo che non si adora perchè è il capo del Grande Partito, depositario e mandatario delle nostre speranze (ragazzi, le fregature dal '44 in poi!), ma di un capo che è noi, che ha la faccia nostra, che noi teniamo in piedi e che a noi traccia la strada che insieme stiamo costruendo.E' uno di cui ci si fida e cui si vuole bene. Un sacco di bene. Penso a Ho Ci Min, a Fidel, più che al Che, anche se quel Che lì è qui onnipresente, scultura nera sul rosso di sconfinati tessuti, perchè il cinismo è da noi lontano come la Casa Bianca dalla foresta della Bolivia.

    Un tassista con cui pettinavo le lunghissime colonne di donne, uomini, vecchi, bambini al seguito, seggiolini, muriccioli affastellati come da gabbiani, ombrelli antisole in marcia verso il diritto a dire la propria parola decisiva, mi ha fulminato come Socrate poteva aver fatto con Alcibiade, la saggezza dell'ovvietà assoluta. "Questa non è come le solite - mi ha detto -, questa è una guerra tra ricchi e poveri". Poteva anche dire: tra sfruttati e sfruttatori, tra capitale e lavoro, tra oppressi e oppressori, tra imperialismo e sovranità, tra borghesia e proletariato, ma era un tassista del Venezuela e il suo capo ama Gramsci. Non c'entra, o forse sì. Che tristezza, che meraviglia, compagni. Da noi la guerra vera, quella tra ricchi e poveri, quella di classe, se la sono bevuta, forse proprio da quel '44 in poi. Collateralisti piú o meno consapevoli ci hanno confuso nelle "moltitudini" dell'Impero, nella clausura dei municipalismi partecipati e, nel capitalismo, senza il becco di un quattrino da partecipare. A farci delle gran pippe, mentre altrove si accoppiavano. Ma che forse è una guerra tra ricchi e poveri quella tra Fassino, corredato di un Bertinotti qualsiasi, e Berlusconi, tra Amato e Montezemolo, tra Kerry e Bush, tra laburisti e tories, tra Chirac e PSF? Ci hanno tolto la guerra, altro che la violenza. La guerra vera, quella che in un modo o nell'altro avremmo vinto, e l'hanno rimpiazzata con le sciabolate e mazzate finte tra pupi. Con noi, gli altri, quelli che conterebbero davvero e davvero dovrebbero battersi, alla finestra, anzi, nel sottoscala, anzi alle bocche di lupo.

    Che bravo quel tassista, che bravi questi venezuelani, che bella questa rivoluzione!

    Caracas, 17/8/04

    Fulvio Grimaldi

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