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La privatizzazione delle farmacie comunali (ovvero a chi fa bene il mercato)

(24 Aprile 2003)

La privatizzazione delle farmacie comunali in corso a partire dal 1999 è un episodio minore della generale messa a valore capitalistica di alcuni tipici ambiti di controllo e di intervento pubblico, fra cui le privatizzazioni delle reti di distribuzione (acqua, gas, energia), della sanità e dei sistemi previdenziali. Sull’onda della reaganomics americana dei primi anni ’80, e della riduzione dei debiti pubblici decisa nell’UE con il Trattato di Maastricht (1992), il capitalismo italiano tenta di scrollarsi di dosso il peso delle amministrazioni pubbliche irrobustendo nel contempo i mercati finanziari attraverso la messa a valore dei servizi pubblici e sociali.

La questione delle farmacie comunali non può quindi essere considerata al di fuori del contesto generale della tendenza alla privatizzazione dei sistemi sanitari e di considerazioni sull’industria e sul mercato dei farmaci. Insieme alle assicurazioni sanitarie ed ai fondi previdenziali, il mercato del farmaco è il principale mercato legato alla salute; nel corso degli anni ’90 è stato caratterizzato da grandi investimenti motivati dalle previsioni di crescita dovute a fattori sia legati alla domanda (invecchiamento della popolazione nei paesi industrializzati) sia alla gestione dell’offerta (biotecnologie, terapie geniche e loro impatto sui costi dell’assistenza).

La crisi mondiale dei mercati di borsa ha posto in evidenza un ulteriore aspetto dell’interesse capitalistico per il mercato della salute: infatti i titoli legati all’industria ed alla distribuzione farmaceutica sono considerati “non ciclici”, ovvero relativamente indipendenti dalle tendenze positive o negative di borsa. A fronte della lunga crisi dei mercati finanziari e della ancor più lunga crisi di sovrapproduzione, queste attività sono fra quelle che offrono le migliori aspettative di profitto.

L’industria farmaceutica è stata quindi caratterizzata negli ultimi anni da un processo di concentrazione (tuttora in atto) per mezzo delle più grandi operazioni di acquisizione e fusione mai realizzate. Siamo di fronte alla creazione di oligopoli che si trovano nelle condizioni di esercitare un forte controllo sui prezzi, sia attraverso la proprietà di brevetti internazionali, sia con la costituzione di cartelli monopolistici. A riprova di questo si può ricordare il cartello mondiale per il controllo dei prezzi delle vitamine costituito da multinazionali europee e giapponesi, per il quale sono state inflitte multe sia dal Dipartimento di Giustizia americano (1999) sia dalla Commissione Europea (2001).

Lo strutturarsi, sempre nel corso degli anni ’90, di grandi gruppi di distribuzione farmaceutica di livello europeo è conseguenza diretta di questo scenario. Per questi gruppi, originariamente operanti nella vendita all’ingrosso, l’acquisizione ed il controllo diretto della rete al dettaglio, ovvero di catene di farmacie, sta diventando un fattore cruciale perché permette di contrattare sconti migliori con i produttori, e perché questo canale assicura profitti più elevati rispetto all’ingrosso. Questa necessità di integrare verticalmente la distribuzione all’ingrosso e al dettaglio è la prima motivazione che spinge all’acquisizione delle farmacie comunali.

L’altra faccia della medaglia dell’aumentato giro d’affari in questo settore di rilevanza sociale è costituita dalle misure nazionali di contenimento della spesa sanitaria, che sono una delle minacce immediate più gravi per queste imprese. D’altronde, uno dei motivi per cui le attività legate al settore farmaceutico sono meno dipendenti dagli andamenti generali della domanda, risiede proprio nell’impegno di spesa costante assicurato dai sistemi sanitari pubblici.

Fra le misure adottate da diversi paesi europei ci sono gli sconti obbligatori (imposti sia ai produttori che ai distributori) e l’incentivazione alla vendita dei farmaci generici, la maggior parte dei quali sono prodotti da aziende di paesi a capitalismo emergente, in particolare India e Cina. Un maggior consumo di farmaci generici rappresenta un reale fattore di diminuzione della spesa farmaceutica, cui le multinazionali della distribuzione reagiscono in parte allargando la propria gamma di offerta di generici. Di fronte invece all’imposizione di sconti obbligatori, in alcuni casi le aziende farmaceutiche ed i distributori reagiscono spingendo verso la privatizzazione di alcuni ambiti di spesa, puntando a sottrarli in questo modo al controllo esercitato dallo stato, favorendo la crescita delle assicurazioni sanitarie private e la liberalizzazione della vendita dei farmaci da banco.

Ma la strategia più sicura fin qui adottata contro queste misure di carattere nazionale è la diversificazione geografica del fatturato su base europea: e questa è la seconda motivazione del particolare interesse per l’ingresso nel mercato italiano attraverso l’acquisizione dei pacchetti azionari delle farmacie comunali.

Le farmacie comunali italiane sono quasi 1300 (tutte con bilanci in attivo e localizzate principalmente nel centro nord) contro le circa 15000 farmacie private. Le prime nascono all’inizio del ‘900, in epoca giolittiana, per ammortizzare lo scontro sociale attraverso la distribuzione di farmaci ai poveri, e la loro storia, con vicende molto alterne, attraversa tutto il secolo appena concluso. Fra privatizzazioni già fatte e privatizzazioni in corso, diverse centinaia sono già praticamente nelle mani dei privati. A causa delle limitazioni che in Italia, come nella maggior parte di paesi europei, regolano la possibilità di aprire e di essere titolari di una farmacia, l’acquisizione dei pacchetti azionari delle comunali costituisce l’unica forma possibile per costituire catene di distribuzione nell’ambito del quadro normativo attuale. È quindi un’occasione unica per le multinazionali della distribuzione del farmaco, perché costituisce il grimaldello che permette di fare ingresso nel mercato italiano, sia nel dettaglio che nell’ingrosso: acquisendo queste minicatene, che spesso dispongono anche di magazzini e riforniscono strutture sanitarie, si pongono infatti le basi di una struttura distributiva integrata di ingrosso e dettaglio. È emblematico a questo proposito quanto è accaduto in Norvegia nel 2001, dove la tedesca Gehe ha acquisito in un solo colpo l’NMD, ovvero l’azienda di stato privatizzata che, oltre a gestire una rete di farmacie, rifornisce tutti gli ospedali del paese.

Le formule di privatizzazione delle farmacie pubbliche passano sempre attraverso la creazione di una Spa, di cui i comuni a seconda dei casi cedono o il 75-80% (cioè il massimo consentito dalla legge) del pacchetto azionario, oppure il 49% (mantenendo quindi, almeno temporaneamente, il controllo di maggioranza. Da un esame delle privatizzazioni finora realizzate, è facile constatare che i soggetti interessati all’acquisizione sono i seguenti:

- multinazionali europee della distribuzione del farmaco (Gehe, Alliance Unichem, Phoenix), la cui strategia punta, come si è detto, all’integrazione ingrosso-dettaglio e alla diversificazione europea per garantire ed incrementare i propri profitti; queste multinazionali considerano strategica l’acquisizione del pacchetto di maggioranza;

- cooperative di acquisto o società di capitali già operanti a livello italiano nella distribuzione del farmaco, che si uniscono per cercare di resistere all’avanzata delle multinazionali, mettendo in atto la stessa strategia di integrazione ingrosso-dettaglio;

- la Lega delle cooperative, interessata soprattutto all’area Emilia Romagna-Veneto-Friuli, con l’obiettivo di creare una massa critica di farmacie controllate sufficiente a gettare le basi di una propria presenza nella distribuzione farmaceutica e parafarmaceutica;

- alcune Spa multiutility nate dalla privatizzazione dei servizi a rete e municipali.

Sullo sfondo di questo quadro, si è aperta anche una battaglia politica, a livello sia regionale che nazionale, per la deregulation della normativa sulle farmacie (che inevitabilmente finirebbe per favorire i grandi gruppi che possono permettersi gli investimenti maggiori, come dimostra il caso britannico). A questo tentativo si oppongono i farmacisti privati, che tentano di difendere i propri interessi piccoli borghesi in un mercato che si sta ristrutturando loro malgrado, osteggiando la creazione di catene attraverso la loro associazione di categoria, Federfarma. Federfarma ha sostenuto con ogni strumento politico e giuridico il principio per cui le farmacie vanno privatizzate ma attraverso cessione agli attuali direttori delle farmacie comunali.

Opporsi alla privatizzazione delle farmacie comunali ha invece il significato di opporsi all’alienazione di una struttura distributiva pubblica di notevoli dimensioni complessive la cui cessione ai privati, siano essi catene multinazionali, catene nazionali in via di formazione o farmacisti privati, non può che avere l’effetto di una minore possibilità di controllo dei costi pubblici della salute attraverso la messa in discussione dei profitti di produttori e distributori.

Isabella Cecchi
pubblicato in Progetto comunista aprile 2003 - n. 1 nuova serie

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