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Scusa, India!

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    Myanmar, la via USA contro la Cina

    (21 Novembre 2012)

    myanmarparisaltreviausa

    MERCOLEDÌ 21 NOVEMBRE 2012 00.00

    Per il primo viaggio ufficiale all’estero dopo la rielezione alla Casa Bianca, Barack Obama ha significativamente scelto l’Asia sud-orientale al centro della cosiddetta “svolta” americana verso questo continente in funzione anti-cinese, toccando tre paesi - Thailandia, Myanmar e Cambogia - due dei quali a lungo sotto la quasi esclusiva influenza di Pechino. Il tour di tre giorni del presidente democratico si è chiuso martedì con la partecipazione al vertice dell’Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico (ASEAN), ospitato dalla capitale cambogiana, Phnom Penh.

    Gran parte dell’attenzione mediatica per la trasferta di Obama si è concentrata sulla manciata di ore trascorse nella giornata di lunedì in Myanmar, dove l’attuale inquilino della Casa Bianca è stato il primo presidente USA in carica a mettere piede. Accolto da una folla festante, Obama ha incontrato nella capitale commerciale della ex Birmania, Yangon, il presidente Thein Sein e la leader dell’opposizione, nonché parlamentare, Daw Aung San Suu Kyi, presso la sua abitazione dove ha trascorso buona parte degli ultimi due decenni agli arresti domiciliari.

    L’amministrazione Obama ha insistito fortemente per una visita del presidente in Myanmar nonostante le critiche provenienti da svariate organizzazioni a difesa dei diritti umani, preoccupate per la possibile legittimazione di un regime che, pur avendo intrapreso un percorso di riforme democratiche di facciata, è tuttora sotto la tutela dei militari e si macchia quotidianamente di crimini contro l’umanità, in particolare nei confronti delle minoranze etniche che vivono entro i confini del paese.

    A Yangon, in ogni caso, Obama ha affermato che la sua visita non rappresenta un’aperta approvazione del regime, bensì una sorta di incoraggiamento a proseguire sulla strada delle riforme in cambio dell’assistenza statunitense. Il presidente ha annunciato anche la riapertura dell’ufficio dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) in Myanmar e lo stanziamento di 170 milioni di dollari in aiuti per i prossimi due anni.

    Se le aperture di Washington dipendono soprattutto dalla riabilitazione di San Suu Kyi e del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), al quale lo scorso anno è stato consentito di partecipare ad un’elezione suppletiva, la tanto celebrata opposizione ufficiale della ex Birmania difficilmente può essere accredita come il garante della transizione democratica nel paese asiatico.

    I suoi esponenti, infatti, oltre a rappresentare poco più che una sezione della borghesia indigena ansiosa di sfruttare a proprio beneficio le aperture al capitale straniero, condividono sostanzialmente la durissima repressone messa in atto dal governo centrale e dagli amministratori locali, assieme ai monaci buddisti, protagonisti della fallita “Rivoluzione Zafferano” del 2007, ai danni della minoranza Rohingya di fede musulmana che vive nello stato occidentale di Rakhine al confine con il Bangladesh.

    D’altra parte, i cambiamenti nelle relazioni tra USA e Myanmar di questi mesi hanno ben poco a che fare con i diritti democratici della popolazione birmana. Piuttosto, l’interesse di Washington va ricercato nella possibilità di stabilire legami più stretti con un regime che ha rappresentato finora un’importante risorsa strategica per la Cina, nonché nella creazione di nuove opportunità di investimento per le corporation a stelle e strisce in un paese di 60 milioni di abitanti ancora tutto da sfruttare.

    Il nuovo approccio americano al regime del Myanmar, ratificato anche dalla cancellazione di numerose sanzioni economiche, viene così propagandato come al solito dietro le apparenze della promozione dei principi di democrazia, di cui la storica visita di Obama, così come quella di Hillary Clinton poco meno di un anno fa, è ora il suggello mediatico. Dell’importanza del Myanmar e dell’intera regione per gli Stati Uniti ne è conferma anche la presenza al fianco di Obama del Segretario di Stato nelle fasi finali del suo mandato dopo quattro anni durante i quali è stata la principale artefice della svolta asiatica decisa dalla Casa Bianca.

    La strategia di Washington nei confronti del Myanmar appare come un modello per attrarre nella propria orbita anche altri stretti alleati della Cina in Asia, a cominciare dalla Cambogia, terza e ultima tappa del viaggio di Obama di questa settimana. Con il paese guidato fin dal 1998 dal primo ministro ed ex comandante dei Khmer Rossi, Hun Sen, le manovre di avvicinamento sembrano già iniziate da qualche tempo, anche se in maniera più discreta rispetto al Myanmar.

    La conferma dei passi avanti compiuti tra i due paesi è giunta, tra l’altro, da un recente articolo del Washington Post che ha descritto diffusamente come gli Stati Uniti, nonostante le riserve relativamente alla situazione dei diritti umani, abbiano intensificato la collaborazione e l’assistenza militare alla Cambogia, ovviamente sempre con l’obiettivo ufficiale di combattere il terrorismo, nonostante questo paese non abbia mai dovuto affrontare minacce significative di questo genere. Un altro paese vicino a Pechino e candidato al riallineamento con gli USA, sia pure in futuro più lontano, è infine la Corea del Nord, il cui regime stalinista non a caso è stato sollecitato da Obama nel suo discorso a Yangon a intraprendere un percorso di riforme simile a quello del Myanmar.

    La cooperazione militare con le forze armate di paesi come Cambogia e Myanmar è altrettanto importante quanto quella economica, dal momento che la strategia di contenimento della Cina in Asia si basa in gran parte sull’accerchiamento di questo paese e sul rafforzamento della presenza militare americana nella regione. Per quanto riguarda il Myanmar, colloqui bilaterali per ristabilire legami tra le rispettive forze armate sono iniziati qualche settimana fa a Washington, mentre, secondo alcune indiscrezioni, il regime birmano potrebbe addirittura essere invitato a partecipare all’annuale esercitazione che si terrà nella regione di qui a pochi mesi e che vedrà protagonisti gli USA, la Thailandia e altri paesi asiatici.

    È importante notare che, di fronte a scenari simili, gli esponenti dell’amministrazione Obama continuano ad affermare pubblicamente che la “svolta” asiatica non è diretta al contenimento della Cina, anche se le manovre americane nel continente, in realtà, hanno precisamente questo scopo. Tramite la presenza di propri contingenti militari nei paesi della regione, Washington intende mantenere il controllo sulle rotte navali da cui transita la maggior parte dei traffici commerciali di Pechino, così come i rifornimenti energetici provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente diretti verso la Cina.

    La linea dura degli Stati Uniti, prevedibilmente nascosta dietro toni moderati, è stata confermata durante il vertice ASEAN di Phnom Penh, dove Obama ha incontrato il premier cinese uscente Wen Jiabao, al quale ha ribadito che “le due principali potenze economiche del pianeta devono lavorare affinché vengano create regole chiare attorno al commercio e agli investimenti internazionali”. In altre parole, il presidente democratico ha così lanciato un nuovo avvertimento alla Cina per invitarla a sottostare alle regole dettate dall’imperialismo americano.

    Con un’altra provocazione, poi, la delegazione americana al summit ASEAN - composto da Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam - lunedì ha lanciato un nuovo progetto di cooperazione con i paesi che ne fanno parte per facilitare le trattative in corso in vista della stipula dell’accordo di libero scambio tra l’Asia sud-orientale, l’Oceania e alcuni paesi del continente americano definito “Partnership Trans-Pacifica”, da cui significativamente continua ad essere esclusa la Cina.

    La questione più controversa rimane tuttavia quella legata alle varie dispute territoriali nel Mare Cinese Meridionale tra Pechino e vari paesi ASEAN, sulle quali da tempo si sono inseriti gli Stati Uniti alimentando pericolosamente le tensione nella regione. Come già accaduto nel precedente vertice del luglio scorso, anche in questa occasione Cina e Cambogia hanno impedito l’adozione di un sistema condiviso all’interno dell’Associazione per risolvere le contese in maniera multilaterale, come vorrebbe l’amministrazione Obama e contro il volere di Pechino che predilige al contrario negoziati bilaterali senza interferenze esterne.

    L’ennesimo schiaffo a Washington su tale questione ha messo in luce, oltre al sostanziale fallimento della visita di Obama in Asia, le difficoltà con cui gli americani devono fare i conti nel contrastare l’avanzata della Cina in un continente nel quale molti paesi, nonostante nuovi o consolidati legami diplomatici e militari con gli Stati Uniti, continuano a gravitare sempre più nell’orbita di Pechino in ambito economico e commerciale.

    Michele Paris - Altrenotizie

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