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Doha, porta di entrata per un futuro infernale

(9 Dicembre 2012)

Raggiunto in Qatar un obiettivo di basso profilo, il protocollo di Kyoto 2. Ma i paesi partecipanti, tra cui Ue, Svizzera, Australia e Norvegia, rappresentano solo il 15% delle emissioni globali

Da Il Manifesto (9/12/2012)

È mancata la volontà politica di ridurre drasticamente i gas serra (Usa in testa). Insoddisfatte le richieste che chiedevano ai paesi ricchi di aumentare i fondi per sostenere i paesi in via di sviluppo Alla fine ce l'hanno fatta. Dopo una serie di colpi di scena è stato approvato a colpi d'ariete della presidenza qatariota e sul filo del rasoio (nonostante la resistenza in zona Cesarini della Russia) il « Doha Climate Gateway ». Una porta di entrata per il futuro con l'estensione del protocollo di Kyoto, il riconoscimento del risarcimento per danni causati dai cambiamenti climatici e l'impegno dei paesi industrializzati a stanziare per lo meno una somma pari alla media di quanto sborsato in aiuti climatici negli ultimi 3 anni. Una proposta di minima visto che troppi erano i gap da colmare. È uno dei tanti paradossi di questa «conferenza delle parti» sui mutamenti climatici che si è conclusa sul filo del precipizio a Doha, città simbolo di opulenza, immenso cantiere a cielo aperto, sede di un incontro che all'inizio si annunciava come un appuntamento di transizione. Così non è stato. Le ultime fasi del negoziato del livello «ministeriale» si sono protratte fino a ieri sera, ben oltre i tempi previsti, tra la mancanza di volontà politica di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra (Stati uniti in particolare) e le richieste insoddisfatte che i paesi ricchi aumentino i fondi per sostenere i paesi in via di sviluppo o rapida industrializzazione verso un'economia a basso contenuto di carbonio - la Cina nello specifico, ma non solo. E un ultimo colpo basso della Polonia, spalleggiata da Russia e Ucraina, intenzionate a proteggere il loro diritto di vendere alte quote di permessi di emissione fino al 2020, anche se ciò avrebbe portato al fallimento totale della Conferenza. Così nella « land of plenty » del Qatar, l'occasione per l'emiro Hamad bin Khalifa al Thani di proporsi al mondo come paladino dell'ambiente rischiava di sfumare per una questione di quattrini, e per manifesta incapacità dei suoi diplomatici. Se non fosse bastata la condanna all'ergastolo per Mohammed al-Ajami, un poeta giudicato colpevole di «sovversione del sistema di governo» e «offesa all'emiro» per una sua poesia dedicata alla «Tunisia dei gelsomini». Anche qui a Doha si riverberano gli effetti della crisi finanziaria in Europa, che a Durban aveva messo assieme paesi poveri e insulari salvando il negoziato, e che poco dopo, vista l'incapacità di tener fede alle promesse di aiuti finanziari, ha visto indebolirsi il suo potere di trattativa. La morsa del fiscal compact , e delle politiche di austerità sostenute dalla BundesBank e dalla cancelliera Angela Merkel stanno così avendo un effetto devastante anche sul profilo internazionale dell'Unione Europea, già compromesso dalla posizione oltranzista di Varsavia. All'ordine del giorno a questa conferenza di Doha erano temi quali adattamento, mitigazione, foreste, trasferimenti di tecnologie, finanziamenti, strumenti di attuazione, il prossimo regime di riduzione delle emissioni globali: in sostanza c'era da concludere il Piano di Azione delineato anni fa (alla conferenza di Bali, 2007). I delegati hanno faticato fino all'ultimo secondo per poter passare la palla al gruppo di lavoro creato un anno fa a Durban, che dovrà trattare un accordo globale vincolante per tutti entro il 2015 per entrare in vigore nel 2020. Fumo negli occhi di Todd Stern, capo negoziatore di Washington. Un passo in avanti però c'è stato: si riconosce per la prima volta il diritto dei paesi insulari al risarcimento per le «perdite e danni» subiti a causa dei cambiamenti climatici. Fino all'ultimo è rimasta aperta la questione finanziaria, ovvero come reperire quel che resta dei 30 miliardi di dollari promessi al vertice di Copenhagen per il 2010-2012, e arrivare ai 100 miliardi l'anno entro il 2020. A poco è servito che l'Inghilterra annunciasse lo stanziamento di 2,2 miliardi di dollari, seguito a ruota da altri paesi europei, (Germania, Francia, Olanda, Svezia, Svizzera e Ue) per un totale di 6,85 miliardi di dollari per i prossimi due anni, che rappresentano un aumento rispetto al biennio 2011-2012. Inoltre i paesi donatori chiedevano di verificare come quei soldi verranno spesi nei paesi in via di sviluppo, mentre questi ultimi chiedono invece che si faccia un verifica degli impegni di spesa dei primi. L'onda lunga di questo gioco al rimpiattino si è fatta sentire anche nel negoziato sulle foreste, che ha prodotto un risultato inferiore alle aspettative. Se ciò non bastasse, nonostante le decine di morti causate nelle Filippine dal tifone Bopha, i governi non sono riusciti ad accordarsi su come colmare quel differenziale di 6-15 gigatonnellate di emissioni di gas «di serra» che marcano l'inadeguatezza degli attuali impegni di riduzione. O il cosiddetto «deficit di ambizione», il differenziale tra la percentuale attuale delle riduzioni di emissioni: 11-16% attuali rispetto a quelle necessarie entro il 2020, ovvero il 25-40% sui livelli di emissione del 1990. Temi che riemergeranno con virulenza nei prossimi anni. La Conferenza di Doha (era la 18esima «conferenza delle parti», cioè dei paesi che nel 1992 firmarono la Convenzione dell'Onu sul cambiamento del clima) è riuscita nonostante tutto a rimettere in carreggiata il Protocollo di Kyoto confermando il «Secondo periodo di impegni» di taglio delle emissioni di gas responsabili del cambiamento del clima, che i Paesi industrializzati avrebbero dovuto assumersi dopo il 2012. Un obiettivo di basso profilo, visti i molti tentativi di far deragliare l'unico Protocollo realmente vincolante assieme a quello di Montreal. Dal 1 gennaio 2013 dunque inizierà «Kyoto 2», ma i paesi partecipanti, tra cui l'Unione Europea, la Svizzera, l'Australia e la Norvegia, rappresentano solo il 15% delle emissioni globali. La loro adesione a Kyoto gli permetterà di consolidare il «mercato del carbonio» (i meccanismi di vendita di crediti di emissioni, come il sistema Ets europeo o quello australiano, che nei prossimi anni andranno a convergere), uno dei meccanismi flessibili istituiti dal Protocollo di Kyoto particolarmente voluto dai Paesi industrializzati, perché permette una mitigazione a basso costo. E invece uno dietro l'altro i paesi aderenti hanno annunciato, inaspettatamente di voler rinunciare all'acquisto di «crediti di emissione» fino al 2020 quando terminerà Kyoto 2. Il rimanente 85% delle emissioni, provenienti in particolare da Stati uniti (con 17 tonnellate e passa procapite all'anno di CO2) e Cina (con poco più di 7 tonnellate procapite, lo stesso livello dell'Ue) saranno gestite all'interno del percorso negoziale nato a Durban un anno fa, e che dovrebbe portare nel 2015 a varare un nuovo accordo globale - verso un regime non vincolante ma di « pledge an d review », impegni volontari da verificare collettivamente. Kyoto 2, sebbene rimanga in piedi legalmente, dovrà essere riempito di significato, di numeri e di percentuali. La rigidità di Stati uniti, che non hanno mai ratificato Kyoto, del Giappone o del Canada, che dal Protocollo è uscito un anno fa a causa degli interessi economici ingenti legati alle sabbie bituminose in Alberta e al loro sfruttamento, è stato uno degli elementi di blocco di un negoziato che, secondo le regole mutualmente decise nel corso degli anni, sarebbe dovuto arrivare ad adottare un regime vincolante. D'altra parte la Cina, che nasconde dietro al gruppo del G77 i suoi interessi di potenza mondiale ormai emersa, non accetta alcun vincolo multilaterale che metta in discussione il suo sviluppo impetuoso ancora fondato sullo sfruttamento del carbone e del nucleare. Kyoto è necessario, ma non è assolutamente sufficiente. Non lo era prima, tanto meno oggi. Le emissioni di anidride carbonica (CO2, il principale gas «di serra»), dice il Comitato intergovernativo di scienziati, o Ipcc, raggiungeranno il picco nel 2015 per poi decrescere. C'è chi spera che tanto basti a contenere la concentrazione di CO2 nell'atmosfera terrestre sotto i 450 ppm (parti per milione) e l'aumento della temperatura media globale sotto i 2˚C, che però può significare aumenti da 4˚C a 6˚C in certe zone del mondo. Basti pensare all'Africa subsahariana che rischia di perdere in pochi anni buona parte dei suoi raccolti agricoli (con buona pace della sovranità alimentare) e alla Groenlandia, che ha visto scomparire quasi del tutto la sua calotta glaciale durante l'ultima estate boreale. Cosa che, ironia della sorte, renderebbe assai meno costoso sfruttare le proprie risorse petrolifere. La prossima Conferenza delle Parti che si terrà a Varsavia lascia poche speranze, vista l'ostinazione con la quale la Polonia ha cercato di affossare il protocollo di Kyoto e con esso tutto il negoziato. In molti stanno già guardando alla COP20 che si terrà tra due anni a Parigi, quando - si spera - l'Europa avrà un'altra guida e altre ambizioni.

FRANCESCO MARTONE (SINISTRA, ECOLOGIA E LIBERTA') E ALBERTO ZORATTI (FAIRWATCH)

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