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    La guerra di Confindustria

    (10 Dicembre 2012)

    warconfindcicalese

    09 Dicembre 2012 21:33

    Era manchesteriano, cultore dei “distretti industriali” italiani e delle “piccole imprese”, in realtà micro.

    Per lui, e per il suo sodale economista Galimberti, editorialista del Sole 24 Ore, “il calabrone volava”: seguivano le tracce dell’economista Giacomo Becattini, uno che l’ha fatta da padrone nelle università italiane negli ultimi trent’anni. Gridavamo “al lupo, al lupo”, il calabrone si era spiaccicato per terra: eravamo negli anni novanta e nei primi anni duemila, inascoltati. Non utilizzavamo il sommo Karl Marx, ci bastava il borghese Schumpeter per analizzare ciò che stava accadendo, un economista che il fattore tempo nell’economia capitalistica lo aveva ben presente, ovviamente assente presso i neoclassici bocconiani, gente che segue segni e tracce del monetarista Von Hayek, vate da decenni della Bundesbank.


    Con la crisi è cambiato, è diventato schumpeteriano, segue percorsi e segni tracciati dall’economista Pierluigi Ciocca, ex vicedirettore di Bankitalia, uno che si è fatto le ossa in quel centro studi, oltretutto fine giurista. Questi invita al ritorno al diritto romano nell’economia e all’abbandono della mediocre common law: per lui il primo è molto più dinamico e ben si adatta ai mutamenti mondiali rispetto alla seconda. E’ un caso che la dirigenza cinese abbia adottato, negli scorsi decenni, come assetto giuridico il diritto romano?

    Segue Ciocca, negli ultimi anni dirige il centro studi di Confindustria, affiancato da pragmatici, pur con dei limiti, giovani economisti: è Luca Paolazzi, uno che è passato dalle “riforme strutturali” ad una critica feroce dell’austerità espansiva. Certo, in lui sussistono ancora rimandi alle “riforme strutturali” del Washington consensus, ma è il prezzo da pagare per essere il capo economista del padronato italiano, il quale si rifiuta, a parte qualche eccezione, di “avanzare di posizioni”. Dal quel centro studi nell’ultimo anno stanno uscendo segni, parziali, quasi isolati, che invitano caldamente a cambiar rotta. E’ ancora poco, eppur si muove, se non altro hanno superato il semplicismo dei centri studi delle principali banche italiane, le quali, se sono piene di crediti inesigibili, ciò non è dovuto soltanto ad una finanza fatta per “gli amici degli amici”, ma anche da previsioni sballate nell’ultimo decennio dei loro centri studi. Si salvava, parzialmente, quello di Mediobanca, ma il suo capo economista, l’ottimo Colforti, chissà perché è andato via. Rimane, come al solito, il centro studi di Bankitalia, ma le Considerazioni Finali del 31 maggio scorso del pur intelligente Governatore Visco, lasciano un po’ a desiderare, mancando l’audacia e il coraggio necessari per tempi di guerra, così come cantati da un Diderot o dal compagno Majakovsky. Non dovrebbe essere una sorpresa, la borghesia italiana, o parte di essa, quando vuole, sa essere rivoluzionaria: Cuccia volò segretamente a Lisbona durante la guerra per prendere contatti con ambienti angloamericani; Raffaele Matteoli, che conservò gli scritti gramsciani, durante l’occupazione nazista lavorava alla configurazione del nuovo assetto finanziario; Mattei salì in montagna ed imbracciò il fucile. Tanti borghesi fecero questa scelta, molti morirono.

    Paolazzi, in questi falsi tempi di pace, sembra intravvedere la guerra, del resto da un anno siamo governati da un Monti che afferma esserci la guerra. Ma, quest’ultimo, è come il Maresciallo Badoglio, il suo errore più grosso è stato quello di non informare gli italiani contro chi si fa questa guerra. Gli italiani, come allora, sembrano sbandati. Ma non siamo all’8 settembre, quello ci fu nella tragica estate del 1993, quando Andreatta consegnò, tramite l’accordo con Van Miert, la distruzione dell’apparato industriale pubblico all’imperialismo tedesco. Dopo vent’anni è rimasto ben poco di esso, e ci sono circa 12 mila medio imprese che, per dirla con Squinzi, “ lottano per la sopravvivenza”. Paolazzi, negli ultimi anni, si preoccupa di salvaguardare questo patrimonio industriale, ad ogni costo, com’è tipico dei tempi di guerra. Un po’ di sinistri non l’hanno ancora capito, ma siamo nel 1943, quando i partigiani e gli operai difendevano con il sangue le fabbriche del nord dalle razzie naziste. Il modello di questi anni dovrebbe essere la lotta all’Insee, non già la “decrescita felice” di tanti nemici dell’accumulazione e dello sviluppo delle forze produttive che si annidano presso nostalgici di un mondo passato. I conti, semmai, si faranno pragmaticamente solo dopo, ora c’è da difendere l’apparato industriale che c’è rimasto visto che l’imperialismo tedesco vuole distruggerlo per tener in piedi in Europa solo il suo.

    Scordiamoci il ’68, l’anno più banale del dopoguerra, quando l’avanguardia di quel “movimento” si prodigava di esser in futuro serva a del peggior patronato europeo degli ultimi 60 anni. Disse di loro Jacques Lacan: “Signori, volete un padrone, e l’avrete”. Gente invischiata come non mai nella dialettica hegeliana servo-padrone così ben descritta da Alexandert Kojéve. “Gente bastarda”, affermò decenni dopo il modernista inglese Paul Weller degli Style Council, il quale si augurava una loro “fucilazione”. Nessuno che appartiene a questa “avanguardia” ha fatto il gesto della scena finale del film “Una vita difficile” del rimpianto Monicelli.

    Questi inutili idioti hanno in mano i media europei, per trovare il concetto di guerra devi leggerti report di banche d’affari internazionali, oppure scavare tra le righe di documenti di Confindustria, come faceva negli anni trenta il comunista Pietro Grifone presso l’Assonime.

    Dimentichiamoci anche il ’77, che pur aveva intelligenti schizzi di modernismo: Baffi garantì loro un seppur minimo livello di benessere, nonostante galere ed eroina.

    Non è tempo di pur legittime rivendicazioni o di frivoli “diritti civili”, ma di “difesa armata” con mezzi economico-finanziari. Questo deve essere il compito dei comunisti: non crediate che Bersani abbia una strategia, naviga a vista, chi non ha rinnegato il materialismo storico ha qualche arma in più.

    Bersani ha appoggiato Monti, si doveva accreditare sul piano internazionale; Monti sul fronte interno è stato un disastro, che ci possiamo fare, è un neoclassico; i bocconiani son gente ottusa, poco flessibile, come i brezneviani. Ma Monti è stato anche l’uomo della più brillante operazione finanziaria degli ultimi vent’anni: la fusione tra Cassa depositi e prestiti, Sace (assicurazione e credito all’export) e Simest (internazionalizzazione delle imprese). Onore al merito. Se ad essi si fosse unito l’Istituto per il Commercio Estero, soppresso da Berlusconi e rinato nell’ultimo anno, la potenza di fuoco sarebbe stata non indifferente. E’ un’operazione di centralizzazione finanziaria volta ad utilizzare la tecnica dell’aumento delle quote del commercio mondiale come misura di contratto alla caduta del saggio di profitto, che aiuta la parte avanzata del settore manifatturiero italiano, il quale, quest’anno, fatturerà all’estero qualcosa come 410 miliardi di euro (mica quattro lire..). Certo, poteva andar meglio, ma nel 2012 l’imperialismo tedesco ha gelato il commercio mondiale: qualcuno, tra un po’ di anni, gliela farà pagare cara…

    Interessante popolo, quello di una parte degli esportatori italiani: rilascia interviste dichiarando che il costo del lavoro è il loro ultimo problema. Gente che gira il mondo, e che con la crisi ha cambiato idea: vuole il pluslavoro relativo, vuole istruzione e ricerca, ferrovie, che la telematica entri finalmente nella pubblica amministrazione, vuole cultura ed una politica del turismo centralizzata. Ne trovi conferma anche da documenti rilasciati dal centro studi di Confindustria. Certo, c’è l’ennesima mistificazione del “patto della produttività” (pluslavoro assoluto) e della “svalutazione interna”, ma girate le sedi territoriali di questa organizzazione, sono affollate da “sanfedisti”. Gli si dà il contentino, ma gli esportatori pensano a ben altro. La guerra di classe di questi anni non è solo, o non tanto, nei confronti dei salariati italiani: nonostante tutto, ci sono ancora 21 milioni di occupati. E’ una guerra più sottile condotta dal capitale finanziario (fusione tra capitale industriale e capitale monetario) nei confronti dei sanfedisti. Lasciamoli fare, che i sanfedisti vadano da Berlusconi, abbiamo cose più serie da pensare. Tanto sono spacciati: mercato mondiale, le nuove tecnologie e criteri di finanza adottati in sede internazionale lasciano loro nessun spazio. Che abbracciassero il fascismo, l’autarchia è finita da un pezzo.

    La guerra della parte avanzata della borghesia industriale ora si rivolge ai sanfedisti: chissà se la prima ha avuto mai tempo di rileggere gli ultimi 40 anni. Forse capirebbe che aver travolto il proletariato industriale italiano, e aver fomentato parassitismi in tutto il Paese, ha sfiancato l’Italia, ritrovandoci con le ossa rotte.

    E’ stato nel loro interesse gonfiare nell’ultimo ventennio la voce “Errori e Omissioni” della bilancia dei pagamenti a livelli stratosferici? Stiamo parlando di almeno 500 miliardi di euro, che sarebbero stati utili per ammodernare impianti vecchi o per avviare un aumento considerevole nelle spese in ricerca e sviluppo.

    Questo ancora Paolazzi non lo dice, così come, forse per “cause maggiori”, sta zitto sullo scandalo che i principali industriali italiani hanno le holding all’estero. Ossessionati dal fisco, non videro la guerra: errori tremendi, che paga il Paese intero. Chiusero un occhio allo spasmodico spreco ultradecennale degli “incentivi alle imprese”, truffe colossali che si sono mangiate centinaia di miliardi di euro, soldi con cui ci si poteva attrezzare per fronteggiare la caduta della “prima linea del fronte” avvenuta con l’accordo Andreatta-Van Miert del 1993 . Confindustria di allora caldeggiava quest’accordo, illudendosi che la parte privata dell’industria si sarebbe rinvigorita. Tremendi errori strategici, fatti da gente che non visse la guerra, ma la bambagia del benessere, come tutti i “politici” della Seconda Repubblica.

    Ma, ripeto, i conti si faranno dopo: ora c’è da difendere a spada tratta l’apparato industriale.

    Faremo scandalo, ma c’è la guerra, cosa vuoi che sia uno scandalo?

    Pasquale Cicalese per Marx21.it

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