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(9 Aprile 2013) Enzo Apicella

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Fondamentalismo liberista e nuovo blocco sociale:

alcune considerazioni sulle (vecchie e) nuove privatizzazioni.

(7 Settembre 2004)

Il programma neocentrista.

L’ “insorgenza” neocentrista che ha caratterizzato il dopo elezioni altro non è stato che il riflesso politico di una ridislocazione dei poteri e di una rielaborazione di progetti e priorità dei settori più rilevanti dell’oligarchia finanziaria nazionale (“nuova” Confindustria, Bankit) nel campo economico, sociale e politico. Stiamo verosimilmente assistendo ad una modificazione parziale del blocco sociale precedente al quale, oltre l’UDC, si candidano a dare espressione politica settori rilevanti del partito berlusconiano, di AN e pezzi dello stesso centrosinistra, ed espressione sociale la CISL di Pezzotta e la UIL. La Lega e spezzoni di partiti di governo sembrano destinati in questa fase ad un più o meno marcato isolamento politico.

Il cemento di questo “neoblocco” in formazione è costituito da un programma che potrebbe sintetizzarsi nei punti seguenti:

1 – riaffermazione del ruolo centrale della Banca d’Italia nella gestione del sistema finanziario italiano;

2 – priorità della realizzazione del federalismo fiscale rispetto al federalismo istituzionale proposto dalla Lega (e da altri). Di quest’ultimo è paventato il rischio di incremento dei costi per lo Stato, origine di ulteriore deficit e di possibile aumento della pressione fiscale nonché di una moltiplicazione dei centri di decisione politico-istituzionale. La realizzazione previa del federalismo fiscale fugherebbe invece questi timori e, cristallizzando anche tributariamente la reale sperequazione tra le varie aree e la reale frammentazione economica del paese, si salderebbe al processo del federalismo salariale (gabbie salariali), portato avanti dalle organizzazioni padronali tutte con il supporto di CISL, UIL e, anche qui, di settori non trascurabili del centro sinistra;

3 – conseguente riforma della contrattazione collettiva con sostanziale liquidazione del contratto nazionale (o forte riduzione della sua valenza) e incentivazione della contrattazione decentrata, soprattutto territoriale;

4 – messa in discussione, con motivazioni ideologico-religiose (e con il supporto della recente pronuncia della Consulta), della famigerata legge Bossi-Fini. La riforma della legge è la premessa per una diretta regolazione padronale in compartecipazione con enti locali e associazioni sindacali disponibili dei flussi di manodopera extracomunitaria a basso costo;

5 – riforma delle pensioni, già varata;

6 – riforma elettorale proporzionale, sia pure con contrasti, avente la finalità del recupero della posizione della ex DC quale baricentro del sistema politico nazionale;

7 – nuova forza “propulsiva” al processo delle privatizzazioni e dismissioni, dopo la “gelata” (per usare l’espressione dell’ex ministro diessino Bersani) del primo triennio del governo Berlusconi. La svolta è avvenuta con la “scoperta” della inadeguatezza dell’ex ministro dell’economia Tremonti a perseguire la strada del rigore finanziario invocato a più riprese negli ultimi tempi dall’U.E.. La liquidazione politica di Tremonti, non particolarmente disponibile, per questioni di potere (al pari di Berlusconi) ad accelerare l’iter delle dismissioni pubbliche, e il conseguente indebolimento delle posizioni della Lega nell’esecutivo, hanno consentito al neopartito del “risanamento”, di cui è espressione il nuovo ministro dell’economia Siniscalco (e sempre con la sponda di Bruxelles), di presentare con la motivazione dell’ urgente necessità di decurtare il debito pubblico, un programma di rilevantissime privatizzazioni nel DPEF, approvato dal governo alla fine dello scorso luglio.

Partiamo da quest’ultimo punto per esaminare le vicende più importanti degli ultimi mesi, per tentare una riflessione più complessiva sul processo delle privatizzazioni/”liberalizzazioni” e per offrire qualche spunto per una discussione, ormai non più differibile sul programma.

Le vicende degli ultimi mesi hanno confermato l’esperienza di oltre un quindicennio: in Italia (e non solo) le privatizzazioni e le cosiddette liberalizzazioni, anziché immettere nuove energie in grado di accrescere l’offerta e calmierare i prezzi mediante l’ampliamento della concorrenza, si sono tradotte nel rafforzamento degli oligopoli e dei monopoli esistenti, in un generalizzato aumento delle tariffe e quasi sempre in un abbassamento della qualità dei servizi e della sicurezza.

Una vicenda esemplare: la privatizzazione Enel/Terna.

Particolarmente significativa al riguardo la vicenda Enel/Terna - al centro dell’attenzione all’inizio dell’estate - la cui ricostruzione permetterà una (riteniamo) utile “incursione nel mercato” dell’energia elettrica e delle sue attuali regole di funzionamento.

Come noto, le reti dell’elettricità, del gas, delle ferrovie , delle autostrade sono dei monopoli naturali. Lo stesso presidente dell’autorità antitrust Tesauro, che è un vero campione del fondamentalismo liberista, affermava nella sua relazione dello scorso 22 giugno, l’opportunità se non la necessità di “conservare la natura pubblica dell’impresa che gestisce le reti: i gasdotti (Eni), le reti elettriche (Enel), le linee telefoniche”. Esse “andrebbero gestite”, sosteneva, “da società pubbliche; chi controlla le infrastrutture può scrivere le regole di un dato mercato”(1).

Proprio negli stessi giorni Enel vende il 50% delle azioni della Terna Spa, la società proprietaria di oltre il 94% della rete di trasmissione elettrica nazionale (38.000 Km di linea con circa 300 stazioni di trasformazione elettrica) che venne costituita nel 1999 in base al decreto 79/99 (c.d. decreto Bersani), che a sua volta recepiva la direttiva U.E. 96/92/E sulla c.d. liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica negli stati membri. Il decreto legislativo ridimensionava il ruolo dell’Enel nella produzione dell’energia obbligandola a cedere alcune centrali ed effettuare una separazione tra le attività aperte alla “concorrenza” (produzione, import-export, acquisto e vendita) e attività riservate allo stato tra le quali il trasporto dell’energia elettrica. Nella fase applicativa si giunse ad un compromesso: la gestione della rete venne affidata in concessione ad un ente di proprietà pubblica, il Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale Spa (GRTN), mentre la proprietà delle infrastrutture restò in capo ad Enel attraverso la Terna Spa, posseduta al 100%.

Il blackout del settembre 2003 offrì l’occasione per l’emanazione, senza particolari contrasti, di un provvedimento legislativo (c.d. decreto salva blackout) che prevedeva l’unificazione della proprietà e della gestione della rete elettrica e la “successiva privatizzazione del soggetto risultante dall’unificazione“. A breve sarà venduta un’altra tranche della Terna, mentre è il caso di rammentare che il Tesoro ha già messo in vendita per il prossimo novembre la terza tranche di Enel da 6-8 miliardi di euro.

Dall’inizio della privatizzazione di Enel le tariffe elettriche sono aumentate di circa il 40%, è significativamente diminuita la quota di investimenti, e gli utili netti del 2003 sono stati pari a 2.509 milioni di euro, con una crescita di oltre il 23%.

Nel settore elettrico quale si presenta oggi vi è, al pari di altri settori, una struttura di mercato oligopolistica e si praticano prezzi di cartello (l’aumento delle “tariffe” è dovuto in buona parte al profitto di monopolio, chiamato pudicamente remunerazione del capitale). Nella produzione di energia la quota Enel è del 46,4%, quella della Edison (destinata ad essere controllata dal colosso francese EDF) è del 9%, quella di Edipower (posseduta da banche ed ex municipalizzate) del 7,6%, minori sono le quote di altre società.
A questo punto sono lecite due domande. Qual è il funzionamento del mercato elettrico oggi? Qual è l’efficienza del sistema dopo il decreto Bersani? Direttiva UE e decreto hanno previsto la possibilità per le grandi imprese, a partire dal 2000, di stipulare contratti di fornitura con uno qualsiasi dei fornitori alle condizioni ritenute più vantaggiose; dal 1°luglio 2004 il “mercato” si è aperto ai clienti chiamati professionali (piccola e media impresa, supermercati, professionisti, enti locali, etc). Dal 1°gennaio 2007 la “concorrenza” sarà estesa alle c.d. “famiglie”, cioè a tutti gli altri. Per questi ultimi è stata istituita una finzione giuridica, l’Acquirente Unico Spa che acquista energia per tutti gli utenti alla “borsa elettrica”, costituita nello scorso aprile. A cosa ha portato questo meccanismo? Ad un forte rialzo del prezzo dell’energia elettrica, che non ha mancato di determinare malumori e rimostranze all’interno della stessa Confindustria tra aziende e gruppi “energivori” e gli altri. Emma Marcegaglia, vicepresidente dell’associazione ed amministratore delegato dell’omonimo gruppo dell’acciaio, in un’intervista al giornale confindustriale (2) ha dichiarato che la borsa elettrica si è rivelata una “grande delusione. La concorrenza tra operatori è inesistente […]. I contratti bilaterali non bastano, poiché sono riservati a pochi”. Per le imprese di minori dimensioni la possibilità di spuntare condizioni vantaggiose rimane un “miraggio”. L’aumento del prezzo è ingiustificato. Viene in sostanza denunciata l’esistenza di una vera e propria rendita energetica.

La vicenda naturalmente non è solo italiana.
Anche l’Unione delle grandi imprese utilizzatrici di energia francesi (raggruppate nella Uniden), dopo essere stata una delle principali esponenti del fondamentalismo del mercato, in un comunicato del marzo 2004 denuncia “una liberalizzazione dagli effetti perversi”, la creazione di “un mercato altamente manipolabile” da parte dei produttori, definito “oligopolio di fatto”(3).

Celebre al riguardo è il caso della California nel 2001, allorché i produttori si misero d’accordo per procurare una penuria di elettricità e far salire i prezzi, congestionando la rete delle linee ad alta tensione, esportando negli stati vicini e mettendo in riparazione un gran numero di centrali.

Le vicende dei frequenti blackout potrebbero essere risolte se il produttore investisse nella costruzione di centrali che funzionassero solo nei momenti di più forte domanda (qualche mese all’anno). Per l’impresa privata questa capacità supplementare non sarà mai redditizia perché da un lato rappresenta un costo privo di adeguata remunerazione, dall’altro esercita una pressione al ribasso sui prezzi dell’elettricità nel momento di forte domanda.

Tariffe o prezzi di oligopolio?

E’ opportuno precisare che l’U.E. impone la cosiddetta liberalizzazione dei mercati ma non impone direttamente la privatizzazione dei servizi pubblici, delle fonti di energia o delle imprese pubbliche in genere. Certo, la tenaglia del deficit e del debito pubblico, unita al principio del divieto degli aiuti di stato, favorisce indirettamente la privatizzazione se non si modificano le politiche dei bilanci pubblici (patto di stabilità). Nella stessa vicenda Alitalia, l’ulteriore privatizzazione della compagnia (che dovrebbe effettuarsi entro un anno) non è una condizione posta dall’U.E., ma un impegno assunto dal governo italiano, anche se approvato dalla commissione europea, essendo una garanzia della cessazione di futuri aiuti di stato.

A proposito di privatizzazioni totali o parziali, è ormai un fatto acquisito che l’apertura al capitale privato anche di una quota minoritaria introduce una logica di mercato nella società partecipata: gli investitori, a cominciare dai fondi pensione, vogliono utili e dividendi. I controlli una volta politici sui soggetti economici pubblici, diventano i controlli di gestione e di redditività propri di ogni impresa capitalistica. La possibilità di influenzare, eventualmente con un cambio di maggioranza, le scelte di politica industriale o addirittura di politica economica sono precluse per definizione: gli attuali managers delle aziende a partecipazione pubblica rispondono solo dell’efficienza e redditività capitalistica dell’impresa e solo ai propri azionisti, avendo presenti esclusivamente le loro aspettative di incremento del corso dei titoli e di crescenti dividendi; e questo vale sia per gli azionisti pubblici che per quelli privati.

L’istanza democratica che nei decenni del capitalismo pubblico di stato giungeva ad influenzare, in determinate situazioni, le scelte di fondo delle imprese pubbliche, cede ora il passo al principio antidemocratico della governance dell’azienda capitalistica, rappresentato dai patti di sindacato e dall’aurea regola cucciana che i voti si pesano, non si contano.

Naturalmente l’impresa, anche se a maggioranza di capitale pubblico, entra nei circuiti dell’economia finanziarizzata con tutte le conseguenze che si conoscono.

La logica d’impresa spiega ovviamente i suoi effetti nell’organizzazione del lavoro cosicché i sistemi di sfruttamento praticati in queste tipologie di aziende sono del tutto simili o identici a quelli propri delle aziende capitalistiche private. Il medesimo discorso vale anche per i prezzi industriali o finali praticati che nulla hanno del prezzo amministrato o delle tariffe, ma molto o tutto del prezzo di monopolio.

A quest’ultimo riguardo, una conferma ci viene dal “minuetto” di alcuni giorni fa, in occasione dei rincari dei prezzi dei carburanti, tra i sottosegretari ai ministeri delle attività produttive e dell’economia, Dell’Elce e Vegas. Il primo chiedeva un intervento sui prezzi dei carburanti e del gas (4), il secondo replicava negativamente. Il giornale confindustriale, nel farsi portavoce della posizione di Vegas, spiegava con dovizia di argomentazioni e non senza ragioni che ormai le tariffe in quanto tali sono praticamente scomparse “nel senso che con la liberalizzazione (sic!) che ha fatto ampiamente il suo corso i prezzi finali in qualche modo controllabili dal governo e dagli organismi pubblici di regolazione sono ridotti al lumicino. Qualcosa si può fare con le autostrade. Poco o nulla si può fare nelle telecomunicazioni, dove l’authority amministra in sostanza una vigilanza antitrust”. Analogo è il discorso per i prezzi energetici dove “i margini di manovra sono davvero stretti nelle possibilità pratiche e nelle opportunità politiche da un intervento che risulterebbe stridente con lo spirito delle liberalizzazioni […]. Le tariffe dell’elettricità? Missione impervia anche qui. Per il semplice fatto che la tariffa, in pratica, non esiste più. Con l’avvio nell’aprile scorso della borsa elettrica l’unica parte del prezzo finale in qualche modo controllata (dall’authority per l’energia)è la componente fissa, quella relativa al trasporto e agli oneri accessori […] che pesa per un terzo sul prezzo finale. Il resto dipende direttamente dalle contrattazioni dell’acquirente unico in borsa e nel mercato dei contratti bilaterali”(5). E abbiamo visto a quali aumenti di prezzo questa contrattazione ha portato. Il blocco delle tariffe, conclude il sottosegretario Vegas, “sarebbe controproducente. Ne sarebbero coinvolte imprese che sono sul mercato. I loro titoli potrebbero accusare perdite”(6).

In Italia si sono privatizzate parzialmente anche le reti di trasporto del gas (Snam Rete Gas proprietaria dei tubi di trasporto del gas, controllata al 50% da Eni). Anche qui sono le aziende consumatrici di gas metano ad attaccare l’oligopolio del gas. Il presidente di Assopiastrelle ritiene “inaccettabile che l’Eni continui a conseguire utili record mentre il settore delle piastrelle, come tutti quelli energivori, sconta prezzi più alti del 20% della concorrenza internazionale […]. Abbiamo bisogno di una vera liberalizzazione nel settore del gas metano. La liberalizzazione è per ora solo sulla carta“ (7).

Il DPEF e la “priorità” delle privatizzazioni.

È triste constatare come su questa grande questione, che riguarda le condizioni di vita e di lavoro di milioni di cittadini e lavoratori, gran parte della sinistra si sia appiattita sulla linea dell’autorità antitrust ispirata alla fede, pressoché cieca, nella “concorrenza”. Ma la cosa viene da lontano.

Tra il 1990, anno in cui la commissione Scognamiglio perimetrò il valore totale delle società pubbliche che avrebbero potuto essere messe sul mercato, e il 2003, in Italia sono state effettuate privatizzazioni per 107 miliardi di euro pari al 12,3% del livello medio del PIL nello stesso arco di tempo: più del doppio della Germania, cinque punti più della Francia e quattro più della Spagna. L’ammontare è di poco inferiore a quello dell’Inghilterra (13,4%).

Il grosso delle privatizzazioni (quasi il 60%) è stato realizzato dal 1997 al 2000, cioè con il centrosinistra al governo. Non c’è da stupirsi quindi se, in questo ambito, il principale atto d’accusa di parte ulivista al governo Berlusconi consiste nel colpevole rallentamento del processo di privatizzazione. L’ex ministro Bersani parla di una “gelata nelle liberalizzazioni” (sic!), dopo la “primavera” voluta dal centrosinistra (8).

La liquidazione di Tremonti dà la stura, come detto, ad una massiccia ripresa del programma di privatizzazione. Il DPEF ne prevede per 106,4 miliardi di euro nel periodo 2005-2008 (19,4 miliardi di euro nel 2004). Non si dimentichi che le operazioni di privatizzazione e dismissione costituiscono, tra le altre cose, un affare colossale per le “merchant banks” e per l’oligarchia finanziaria in genere.

Questo programma consiste in:

1 – prosecuzione delle operazioni di alienazione degli immobili di proprietà pubblica ai fondi immobiliari affidati alla gestione di una o più società di gestione del risparmio bancario (S.G.R.). I trasferimenti in corso ammontano a 5 miliardi di euro (il termine è il 31.12.2004). Si tratta, per il momento, di immobili di proprietà di amministrazioni centrali. Il fondo immobiliare cessionario affitta poi gli immobili allo stato a canoni di mercato. Non sussiste alcun obbligo di riacquisto da parte dello stato, che ha solo un diritto di opzione se il fondo decide di vendere. Il foglio confindustriale elogia l’operazione : “I pronostici degli esperti scommettono su un fondo pubblico col turbo in quanto sarà l’unico sul mercato immobiliare italiano a poter vantare un portafoglio totalmente affittato a canoni di mercato ad un affittuario di prim’ordine (lo stato). Il rendimento garantito tra il 5,5% e il 6% per 15 anni dovrebbe mandare le quote a ruba” (9);

2 – più che probabile la cessione a breve di una ulteriore quota del 10% di Eni (oltre la riferita cessione di Enel) che farebbe scendere al 20% la quota dello stato.
Entro il 31.1.2005, cioè entro quattro mesi dalla fusione di Rai Holding (100% del Tesoro) con Rai Spa (posseduta quasi interamente dalla Holding) da effettuarsi, secondo la c.d. legge Gasparri, entro il 30.9.2004, la Rai dovrà essere privatizzata.
C’è poi la prevista privatizzazione Alitalia entro un anno (lo stato dovrà scendere sotto il 50% dall’attuale 62,4%), sempre che, nel frattempo, a seguito della massiccia ristrutturazione in corso, essa diventi “appetibile”.
E’ vicina pure la privatizzazione di Poste Spa, secondo quanto si arguisce da un’intervista concessa nei giorni scorsi da Siniscalco al Financial Times relativamente all’intenzione di non usare la Cassa Depositi e Prestiti Spa come area di “parcheggio” di partecipazioni;

3 – La privatizzazione dei servizi pubblici locali che è diventata ora una delle priorità d’azione del governo.
Nel DPEF è contenuto l’impegno a proporla “in tempi rapidi” al Parlamento. L’obiettivo è quello di superare i limiti posti dalla c.d. riforma Bottiglione (art. 14 del D.L. 269 di modifica del precedente art. 35) e di riaffermare il principio dell’obbligatorietà della gara (aperta ai privati) contro l’attuale legittimazione degli enti locali ad affidare direttamente anche a società da essi controllate al 100% (dette “in house”) la gestione dei servizi pubblici locali. Viene rimproverato alla norma sopra citata di aver permesso il rinvio del termine di scadenza per l’esperimento delle gare rispetto alle scadenze (più ravvicinate) previste nelle normative di settore. Il caso più importante è il trasporto pubblico locale per il quale l’art. 14 prevede l’apertura alla concorrenza entro il 2006, mentre la normativa di settore la prevedeva per il 2003. I tagli ripetutamente operati in questi anni ai trasferimenti statali agli enti locali favoriscono certamente le operazioni di privatizzazione come strumento per “fare cassa” e compensare i ridotti introiti da parte dello stato.

Mercato liberalizzato o mercato oligopolistico?

Veniamo ora al punto nodale: è possibile una liberalizzazione vera del mercato che, favorendo la concorrenza, faccia diminuire i prezzi? E’ veritiera l’affermazione che, liquidando i monopoli e le industrie pubbliche, ci sarebbe maggior efficienza e migliori servizi, prestazioni e sicurezza? I fatti, come visto, dimostrano il contrario: aumentano i prezzi e peggiorano servizi e sicurezza. Ma perché, in via generale, questo avviene?

Ci troviamo ormai da molti decenni in una struttura economica di capitalismo monopolistico. Non si tratta ovviamente di un monopolio assoluto ma del dominio più o meno rilevante non solo del mercato ma di tutta la struttura economico-sociale da parte di pochi grandi gruppi bancari, industriali, commerciali, assicurativi più o meno integrati. Questi gruppi, come abbiamo visto dall’epilogo e dai risultati del conflitto tra il ministro dell’economia e la Banca d’Italia a proposito della vicenda Parmalat, influenzano l’organizzazione e le scelte politiche, la società civile e la stessa cultura: in una parola esercitano un controllo su tutta la società. In un mercato oligopolistico qual è per la gran parte dei beni e servizi (soprattutto strategici) quello del nostro paese, non agisce più la legge della concorrenza tendente a determinare un saggio medio ed uniforme del profitto in tutti i settori produttivi (come accadeva nelle società capitalistiche dell’800). Non agisce neanche la legge tendenziale, propria del capitalismo di prevalente concorrenza, che spinge l’impresa più produttiva ad estendere la produzione ed a ridurre il prezzo di vendita, allargando in tal modo il mercato e la domanda. I prezzi di oligopolio sono tendenzialmente rigidi, ossia tendono a rimanere stabili anche se mutano altri parametri economici che fanno aumentare i profitti (per esempio la produttività).

A differenza dell’ipotesi di concorrenza, nell’oligopolio è infatti estremamente difficile per un impresa passare da una dimensione e da una tecnica ad un’altra, sia per la diversa (e molto maggiore) quantità di capitale iniziale necessaria, sia per gli ostacoli inerenti alla struttura oligopolistica del mercato. E’ quindi estremamente difficile per i prezzi tendere ai prezzi di produzione cioè ai costi di produzione più profitto medio, come avveniva al tempo del capitalismo di prevalente concorrenza. Nella struttura monopolistica tendono a coesistere gradi diversi di produttività del lavoro nelle imprese “guida” e in quelle di minori dimensioni e/o efficienza tecnologico-amministrativa. Il prezzo dei beni e dei servizi tende nell’oligopolio a stabilizzarsi ad un livello superiore al prezzo di esclusione dal mercato delle imprese minori o meno efficienti in senso capitalistico, in tal modo permettendo alle aziende oligopolistiche la realizzazione di profitti differenziali (la c.d. rendita di monopolio). Ed è un fatto che nei rapporti tra le aziende oligopolistiche, di norma e fuori dai periodi di crisi significativa dell’accumulazione, operino per i prezzi accordi di cartello. Quindi parlare di liberalizzazione dei mercati nella struttura del capitalismo monopolistico (e nei settori in cui esso opera, come premessa di una più o meno duratura riduzione dei prezzi e di una maggiore efficienza nel servizio o prestazione erogati, è privo di significato.

E anche parlare di politica dei redditi come concertazione nel controllo di tariffe, prezzi e salari, acquista reale concretezza solo relativamente alla compressione dei salari, ma non per le tariffe e nemmeno per i prezzi. A quest’ultimo riguardo il recentissimo (e da molti invocato) accordo fra il ministro francese dell’economia Sarkozy e gli oligopoli del settore alimentare ha portato si ad una riduzione dei prezzi ma anche a forti concessioni governative (autorizzazioni all’ampliamento delle superfici commerciali ed altro) con un saldo senz’altro favorevole alla grande distribuzione e ciò nonostante la vera e propria caduta dei consumi nel settore in Francia nel 2003 e nei primi mesi del 2004.

Possibile alternativa: nuovo ruolo del pubblico nell’economia.

Ma l’alternativa a tutto questo qual è? Per costruirla è necessario partire dalla situazione esistente che è quella dell’U.E. con i suoi trattati e le sue logiche macroeconomiche che favoriscono la riproduzione monopolistica della società e facilitano il processo di “liberalizzazione”/privatizzazione. E da qui trovare gli spazi concreti di manovra, unendosi a quelle forze che, sulla base anche di un minimale “più stato nel mercato” siano disponibili a schierarsi a sostegno della valorizzazione del lavoro salariato, dei suoi diritti e delle sue istanze nella dinamica attuale dei processi economico-sociali e politici nazionali e comunitari. Forze che siano disponibili a lavorare su un programma che, all’obiettivo generale del rilancio del ruolo pubblico nell’economia, a cominciare da un recupero in mano pubblica dei settori strategici dei monopoli naturali e dei servizi pubblici essenziali, per garantire servizi migliori e più a buon mercato e migliori condizioni di lavoro, coniughi da subito la lotta per il blocco delle privatizzazioni in corso. Questo significa prepararsi a contrastare la legge finanziaria 2005 se e dove recepirà i contenuti del DPEF, aprendo così, nei limiti dell’odierno possibile quel dibattito e quella mobilitazione che sono in gran parte mancati mentre si compivano le scelte a base delle grandi privatizzazioni degli anni novanta. Il tutto nello spirito della Costituzione che nell’art. 43 guarda con favore alla proprietà e gestione pubblica dei servizi essenziali, delle fonti energetiche e dei monopoli naturali.

E tale dibattito non potrà prescindere, come detto, dalla critica radicale dell’essenza economico-sociale del processo UEM teso a favorire la privatizzazione dell’economia e a tutelare in via prioritaria la struttura oligopolistica dell’area attraverso la sanzione degli “abusi” di posizione dominante (e, naturalmente, non delle posizioni dominanti) e il principio del divieto degli aiuti di stato.

In conclusione vorrei riportare alcune considerazioni dell’economista marxista Antonio Pesenti in tema di rapporto pubblico/privato. Esse conservano una indubbia attuale validità. “Se lo Stato possiede e gestisce”, egli scriveva nei primi anni 70 del ‘900, “imprese che producono fonti di energia o gestisce industrie basilari […] è certo che può agire in concorrenza col monopolio [privato] e dare un altro indirizzo a tutta l’attività economica. Il volere dipende dalla situazione dei rapporti di classe”(10). E ancora: “La proprietà statale […] anche nella situazione attuale può modificare il tipo di sviluppo, perché può non obbedire alla legge del massimo profitto, del massimo sfruttamento, può fissare livelli dei prezzi non monopolistici e fare investimenti la cui redditività sia maggiormente diluita nel tempo”(11).

NOTE:
(1) Il Manifesto del 23.6.2004;
(2) Il Sole-24Ore del 22.6.2004;
(3) Le Monde Diplomatique, giugno 2004;
(4) Il Sole-24Ore del 19.8.2004;
(5) Il Sole-24Ore del 20.8.2004;
(6) Ibidem;
(7) Il Sole-24Ore del 24.8.2004;
(8) Il Manifesto del 23.6.2004;
(9) Il Sole-24Ore del 25.8.2004;
(10) Manuale di Economia Politica, Editori Riuniti, 1984, pag. 819;
(11) Op. cit., pag. 823.

Firenze, 31.8.2004

Raffaele Picarelli
Laboratorio Politicosindacale - Empoli

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