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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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Memoria e progetto:: Altre notizie

L’erba del vicino è sempre più verde …
anche quando brucia

A proposito di alcuni sciocche leggende sulla Germania …
persistente fonte (inquinata) di pregiudizi razzisti

(1 Gennaio 2013)

La signora Merkel e soprattutto i compari del suo governo (vedi Schäuble) non sono certo nati per suscitare simpatie, soprattutto in tempi grami come quelli che stiamo vivendo. Anzi, sembra che facciano di tutto per rendersi sgradevoli. E, in Italia, come da copione spread, i nazionalisti hanno colto la palla al balzo, per alimentare campagne anti tedesche. In prima fila ci sono i nazionalisti di sinistra; costoro hanno ripreso i tristi argomenti della resistenza borghese e democratica (nazionalcomunista), che non esitò a colpevolizzare il proletariato tedesco (À chacun son boche, dissero in Francia), facendo di ogni erba un fascio, per la maggior gloria del capitale, che non conosce frontiere. Divide et impera, dividi e comanda, dicevano gli imperialisti romani duemila anni fa, e così han poi fatto tutti i moderni imperialisti.

I nazionalcomunisti odierni dimenticano (o vogliono far dimenticare) che il proletariato tedesco per tutto il Novecento fu il terrore della borghesia europea e Nord americana.

I nazionalcomunisti dimenticano troppe cose

Dimenticano che quando scoppiò la Prima guerra mondiale l’internazionalista tedesco Karl Liebknecht lanciò la parola d’ordine:

il nemico è in casa nostra! Il nostro governo e la nostra borghesia.

Dimenticano che nell’autunno 1918 i proletari tedeschi in divisa abbandonarono il fronte. Fecero crollare il Reich e fecero finire la guerra.

Dimenticano che per domare il proletariato tedesco ci vollero 15 anni, dal 1918 al 1933.

Dimenticano la repressione socialdemocratica che, fin dal gennaio 1919, assassinò e perseguitò i maggiori esponenti rivoluzionari (a partire da Rosa Luxemburg…), aprendo la strada al nazismo.

Dimenticano l’intervento militare della democrazia francese per sostenere, nell’estate 1920, i reazionari polacchi (gli agrari del maresciallo Pilsudski) contro l’Armata Rossa. Spezzando così l’asse rivoluzionario Berlino-Mosca.

Dimenticano la realpolitik sovietica che, dal 1923, privilegiò i rapporti con la borghesia tedesca, a scapito del movimento proletario tedesco e internazionale.

Dimenticano il gentlemen’s agreement del governo Stalin nei confronti del governo Hitler (1933).

Dimenticano che l’olocausto avvenne solo grazie all’olocausto preventivo di decine di migliaia di proletari tedeschi: comunisti, anarchici, socialisti … che per primi conobbero i lager. E ci morirono, a partire da Erich Muhsam.

Dimenticano il Patto tedesco-sovietico (23 agosto 1939), che aprì le porte alla Seconda guerra mondiale.

Dimenticano i bombardamenti terroristici degli Alleati che distrussero i quartieri proletari delle città tedesche (Amburgo, Dresda …).

Dimenticano gli accordi di Yalta (febbraio 1945), che divisero la Germania, e divisero quindi la maggior concentrazione operaia mondiale.

Dimenticano l’insurrezione e la Comune di Berlino Est (giugno 1953). Repressa dai «socialisti» orientali, grazie all’acquiescenza dei democratici occidentali.

Dimenticano, infine, che l’unificazione della Germania (1989) ha offerto ai capitalisti della Germania Ovest una forza lavoro qualificata e a buon mercato. Questo vantaggio ha consentito ai padroni tedeschi di affrontare la crisi globale del modo di produzione capitalistico con una marcia in più. La Germania è l’unica potenza capitalistica (degna di questo nome) che in questi anni ha mantenuto una bilancia commerciale in attivo, con una costante crescita dell’export e una costante crescita dell’import.

Questa crescita è avvenuta solo grazie:

- allo sfruttamento intensivo (plusvalore assoluto) della forza lavoro tedesca.

- a un costante peggioramento delle condizioni di vita dei proletari tedeschi (welfare kaput!).

Ma questo, i nazionalcomunisti non lo dicono.

I nazionalcomunisti, come tutti i nazionalisti, dimenticano troppe cose. Ma a loro non importa. Come al solito, fanno leva su sentimenti emotivi, che rispondono agli interessi dei padroni, grandi e piccoli, cui si accodano le frange di un ceto medio precario intellettual/professional/bottegaio che accetta a cuor leggero ogni menzogna, sperando di salvar la ghirba. E così facendo, i ceti medi precari saranno (e sono) solo i volonterosi carnefici di un nuovo olocausto. Destinati comunque a finir anch’essi nel tritacarne del capitale. Come tutti i kapò.

Senza pretese di convincer i sordi che non vogliono sentire, ecco alcuni brevi e recenti dati sulla condizione sociale dei proletari tedeschi. Forse migliore di quella di tanti altri proletari. Ma questo vuol solo dire che i proletari son tutti nella merda. E presto avranno da perdere solo le lor catene. E allora saranno cazzi, per i padroni. Almeno così mi auguro.


In Breve …

Con le riforme Hartz (2002) perfezionate dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder, il mercato del lavoro tedesco è profondamente cambiato, offrendo un modello per Pietro Ichino & Elsa Fornero.

Il salario minimo è stato eliminato. L’accesso all’indennità di disoccupazione, ultra-ridotta, è stato reso sempre più difficile. Si stanno diffondendo a macchia d'olio i lavori ad ore, pagati anche UN euro l’ora.

Ci sono 5 milioni di mini-job senza copertura di malattia, 3 milioni e 900.000 lavoratori a lunga disoccupazione (soprattutto i membri di famiglie monoparentali e anziani), 7 milioni di occupati precari (con un aumento del 134% del lavoro interinale), 12 milioni di poveri (anche all’ovest, non solo all’est) su 82 milioni di abitanti, mentre un lavoratore su 5 è ormai a rischio povertà e un bel numero di pensionati è costretto a tornare sul mercato del lavoro per sbarcare il lunario...

Da Voci dalla Germania.

La Riforma Hartz Le politiche occupazionali in Germania - Adapt[PDF]

Krisenvorsorge.com e jjahnke.net ci ricordano le dimensioni della politica di moderazione salariale tedesca e i suoi effetti sociali.

Secondo quanto comunicato da Eurostat il 20 dicembre 2012, la Germania con il 22.2% ha la quota più alta di lavoratori con un basso salario di tutta l’Europa occidentale.

In Francia sono solo il 6.1%, nei paesi scandinavi fra il 2.5% e il 7.7% mentre la media dell’Euro-zona è del 14.8%.

La precaria situazione dei lavoratori tedeschi è confermata anche dai dati sui lavoratori a basso salario con un’istruzione media. E’ evidente che non si tratta solo di un fenomeno legato alla bassa istruzione.


Il rifiuto da parte del governo tedesco di introdurre un salario minimo [cioè un minimo sotto il quale nessun datore di lavoro può assumere un lavoratore, da non confondere con il "reddito minimo garantito"], presente in altri Paesi occidentali [non in Italia], la crescita del settore del lavoro interinale (o meglio in affitto), caratterizzato da precarietà e bassi salari, lo sfruttamento del lavoro femminile, grazie alla più grande differenza in Europa occidentale fra il salario femminile e maschile, la disponibilità del governo a sovvenzionare i bassi salari con i sussidi Hartz IV, sono tutte parti di un imbroglio sociale che non ha eguali in altri Paesi europei.

In questo scenario non c’è da meravigliarsi se il costo del lavoro per unità di prodotto, decisivo per la competitività, ha avuto uno sviluppo decisamente aggressivo rispetto agli altri partner europei.

Il grafico mostra l’andamento del costo del costo del lavoro per unità di prodotto, come si vede il Lussemburgo ha il costo più alto e la Germania quello più basso.

E anche in Germania, se per i giovani non c’è futuro, per i vecchi non c’è presente …

Malgrado tutte le chiacchiere sul sistema pensionistico Made in Germany, veniamo a sapere che oggi un lavoratore tedesco che va in pensione dopo 35 anni di lavoro, percependo un salario lordo di 2.500 euro, riceve una pensione di 688 euro, ritenuta inferiore ai livelli minimi di sussistenza. Già ora, 400mila pensionati tedeschi non possono pagarsi una casa di cura e molti di essi sono costretti a farsi ricoverare in Paesi dell’Est. [Paolo Lepri, Ora la Germania «esporta» anziani in fuga dalla crisi, «Corriere della Sera», 28 dicembre 2012, p. 15.]

Milano, 31 dicembre 2012

Dino Erba

Fonte

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