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“Una difesa proporzionata all’offesa”: così è stata valutata la protesta di tre cittadini, un tunisino, un algerino e un marocchino, che dal 9 al 15 ottobre rimasero sui tetti del Centro di Identificazione ed Espulsione di Isola Capo Rizzuto, Crotone, lanciando calcinacci e oggetti alla polizia.

La sentenza emessa lo scorso 12 dicembre dal Tribunale di Crotone assolve quindi tutti e tre gli uomini coinvolti, accusati dei reati di danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Il giudice Edoardo D’Ambrosio definisce la manifestazione dei tre una “legittima difesa” contro quelli che vengono identificati come dei provvedimenti di trattenimento “privi di motivazione, e dunque illegittimi alla luce dell’articolo 15 della direttiva n. 115 del 2008, così come interpretato dalla Corte di Giustizia europea”. La sentenza sottolinea infatti la mancata indicazione delle “ragioni specifiche in forza delle quali non era stato possibile adottare una misura coercitiva meno afflittiva del trattenimento presso il Cie”, come invece prevede la direttiva europea.

Non solo: richiamando due sentenze del 2009 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con cui Grecia e Belgio vennero condannati per le pessime condizioni dei loro centri di trattenimento, il giudice definisce la struttura del Cie di Isola Capo Rizzuto “al limite della decenza”, con “materassi luridi, privi di lenzuola e con coperte altrettanto sporche, lavabi e bagni alla turca luridi, asciugamani sporchi, pasti in quantità insufficienti e consumati senza sedie né tavoli”. Condizioni che, a parere del giudice, rendono la struttura non conveniente alla sua destinazione, “che è quella di accogliere essere umani. E, si badi – sottolinea la sentenza – esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale. Lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato a chi magari è abituato a condizioni abitative precarie, ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di razza”. Un’affermazione, quest’ultima, a ben vedere non immune da pregiudizi, ma di gran lunga secondaria rispetto al contenuto importantissimo della sentenza.

Per il giudice gli imputati “sono stati costretti a commettere” i reati di danneggiamento e di resistenza a pubblico ufficiale dalla necessità di difendere i loro diritti contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta”, ossia la restrizione della “loro libertà e le condizioni che ledevano la loro dignità umana”. Una situazione aggravata dal fatto che “quando l’offensore è incarnato da un apparato dello Stato di diritto, gli imputati non possono essere considerati alla stregua di chi affronta una situazione di pericolo prevista ed accettata, dovendosi sempre attendere da uno Stato di diritto non il rischio di una violazione dei propri diritti, ma appunto il rispetto delle regole, e tanto più dei diritti fondamentali del cittadino”.

Ecco perché il Tribunale considera la protesta dei tre uomini proporzionata all’offesa: come si legge nel testo della sentenza, “il confronto tra i beni giuridici in conflitto è pacificamente a favore dei beni difesi (dignità umana e libertà personale), rispetto a quelli, offesi, del prestigio, efficienza e patrimonio materiale della pubblica amministrazione”.

Una sentenza che viene alla luce mentre oggi, nel Cie di Gradisca d’Isonzo, il personale di vigilanza ha impedito ad una donna italiana, durante il colloquio in corso con un cittadino tunisino detenuto, di consegnare, con un bacio, una scheda telefonica.

A riprova di quel livello sproporzionato di restrizione della libertà personale effettuata nei Cie evidenziato dalla sentenza del Tribunale di Crotone.

Clicca qui per leggere la sentenza

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