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L'EGEMONIA GRAMSCIANA SI SMARRISCE NEL GREMBO DI UN MAGISTRATO

Il PRC non ha mai saputo esercitare egemonia politica (nel senso gramsciano del termine), mai un guizzo di capacità in avanti espressione di reale autonomia e progetto.

(10 Gennaio 2013)

Per quanto siamo abituati a leggere le dinamiche politiche, e quindi a cercare di interpretare gli accadimenti nel modo più asettico possibile, a volte proprio non si riesce a credere a quanto avviene, e ci si chiede se davvero certe cose possano essere possibili.
È il caso del partito della rifondazione comunista, che in queste ore sta trovando una propria collocazione elettorale che sembra però seguire una declinazione politica intrapresa ormai da mesi.
La collocazione infatti, stante le notizie dei giornali e dei media, e i dispositivi degli organi di dirigenza, sembra stabilmente in grembo al magistrato Ingroia.
Parrebbe infatti che per tre candidature (Ferrero, Grassi e Rocchi) il PRC, che al suo nascere vantava di portare con se' il bagaglio e l'eredità del PCI (partito che contava milioni di iscritti, scioltosi nel 1991 per trasformarsi in PDS) scambi la sua vantata tradizione comunista per un piatto di lenticchie.
C'è da dire che il PRC non ha mai saputo esercitare egemonia politica (nel senso gramsciano del termine), mai un guizzo di capacità in avanti espressione di reale autonomia e progetto. La sua iniziativa è sempre stata stretta tra agende politiche non proprie suscitando un tratto malinconico dal sapore nostalgico per i tanti orfani del “Partito”(“quello vero, quello grande”).
Questa difficoltà di autonomia ha reso aleatoria la sua missione, al punto che ha immolato sull'altare della governabilità la sua stessa sopravvivenza: sempre disponibile a qualunque governo, nazionale o locale che fosse (salvo non venissero agiti ostracismi da parte delle altre forze politiche).
L'ultima debacle si realizzò con la Lista Arcobaleno, nel 2008. Il PRC pagò cara, pagò tutta la sua presenza nel governo Prodi (con ministri e sottosegretari), e per la prima volta in Parlamento fu negato l'accesso alla sinistra: l'elettorato voltò le spalle ad una compagine che non aveva ormai più nessuna credibilità.
Dopo cinque anni, durante i quali la presenza del PRC si è realizzata per la maggior parte dei casi in sedi locali (con ruoli di rilievo negli esecutivi degli enti locali), e con una presenza politica ormai ritagliata per la maggior parte dei casi a mero sostegno all'attività amministrativa, salvo occuparsi -come nel caso dell'ultima raccolta di firme a sostegno- del referendum sull'articolo 18, ricompare all'orizzonte, e -dimostrando ancora una volta l'incapacità a esercitare una azione motu proprio- si “accozza” sulla scia di novelle forme di esercizio politico, che non possono annoverarsi nel solco esaltato dal movimento di Beppe Grillo, ma che gli rassomigliano.
Ecco quindi che diventano interlocutori privilegiati soggetti partitici come l'IDV o il movimento raccolto attorno a De Magistris.
Ora: ci sono tanti modi per esercitare la tattica, sempre se è chiara la strategia, ma anche in quest'arte della politica il PRC sembra proprio non trovare ispirazione.
Quando ALBA, lontana per impostazione, irrompe nella scena politica e nella ipotesi elettorale dando vita a “Cambiare si può” molti dirigenti e militanti di Rifondazione reagiscono aderendo acriticamente, anzi a volte con veri e proprie dichiarazioni di consenso.
“Accozzarsi” ancora una volta sembra il nuovo modo di agire la politica: salvo che questa volta l'assalto a CSP risulterà decisivo per l'esito referendario.
ALBA di fatto abbandona il progetto elettorale e -pur sostenendo a distanza la lista Ingroia- prevede la ripresa della propria attività politica nell'ipotesi della costituzione di quel “soggetto politico nuovo”, che stava nelle sue intenzioni originarie.
Resta ben saldo in grembo ad Ingroia l'IDV, considerandolo la sola possibile ancora di salvataggio, oltre ad un PdCI inconsistente ed un PRC che accetta in cambio appunto di tre candidature (chissà se collocate in modo utile nella lista) l'antitesi del modello contro il quale dovrebbe invece attivare non solo una vera a propria azione politica ma addirittura culturale.
Siamo di fronte infatti a un modello di tipo personalistico, accentratore, dove il candidato capo della coalizione costruisce un programma elettorale fortemente centrato su questioni che appartengono ad una specifica competenza professionale, ancorché siano temi di rilevanza notevole ma non possiamo considerarli esaustivi, anche quando rimpinguati dai famosi dieci punti di CSP.
Un candidato capo della coalizione che riceve personalmente e singolarmente esponenti che sono considerati rappresentativi per segnalare eventuali candidature, dettando loro tempi e modi.
Quindi: siamo lontani mille miglia da quanto -.pur nelle sue circonvoluzioni acrobatiche- ha saputo affrontare Rifondazione in altri tempi.
I suoi potenziali elettori si trovano così nella condizione di essere lontani culturalmente, politicamente e persino tatticamente dalla propria necessità di rappresentanza, dovendo anche perdere la bussola della falce e martello, per accompagnare l'ennesima svolta politicista, per non chiamarla opportunista.
Paiono esservi tutti gli elementi per considerare conclusa, in maniera davvero misera, con questa scelta la storia di un partito che voleva affrontare gli eterni conflitti generati dalla frattura capitale-lavoro, con la chiave di lettura marxista e un'interpretazione aggiornata dell'identità comunista.

Patrizia Turchi

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