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(24 Novembre 2010) Enzo Apicella
Crisi irlandese. La finanza specula sul debito pubblico. La politica chiede sacrifici.

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Sfruttati e sfrattati

(16 Gennaio 2013)

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Nei prossimi tre anni saranno almeno 250.000, un quarto di milione. Questo il numero ufficiale dato dal Viminale (ma ovviamente sottostimato). 250.000 nuclei familiari, oltre ai 150.000 attuali, che saranno sicuramente colpiti dalle sentenze di sfratto. Ciò significa circa 230 sfratti al giorno, quasi 10 all'ora. In totale, comunque, il numero delle famiglie in difficoltà in questo senso è di 5 milioni, ossia quasi 15 milioni di persone. Una marea di lavoratori, precari e pensionati che fino a qualche anno fa venivano considerati, dalla stampa borghese, la classe media. Adesso invece sono diventati semplicemente delle persone in difficoltà o, come piace chiamarli a Repubblica, "neo-poveri". Un balzo semantico degno di un atleta olimpionico utile ad evitare l'uso di quella parolina "eretica" che invece ci permette di identificare questa classe sociale in un colpo solo: il proletariato.

Dei proletari effettivamente sfrattati, finora, una parte è andata via dall'Italia, altri hanno semplicemente cambiato casa, muovendosi dalle zone centrali delle città verso quelle maggiormente periferiche e quindi meno onerose. Altri ancora sono tornati a vivere coi genitori (sempre che questi abbiano casa di proprietà e/o che siano molto longevi). L'effetto domino provocato dalla crisi, in questi ultimi anni, è stato immediato e sta ridefinendo la geografia delle metropoli, di due in particolare: Torino e Roma. La prima ha visto nel 2012 (dati sempre del Viminale, ricordiamo) ben 2.523 sfratti per morosità, la seconda invece 4.678 provvedimenti, così da renderla la città più colpita nello scorso anno.

A fronte di questi dati agghiaccianti troviamo una marea di appartamenti vuoti. In totale, in Italia, abbiamo quasi 700.000 alloggi invenduti, frutto non solo dell'esodo forzato cui viene sottoposto il proletariato, ma anche della speculazione edilizia che, nella sola Capitale, porterà nei prossimi anni una colata di cemento pari 100 milioni di metri cubi. Ed ecco il paradosso: secondo Federcasa servono "solo" 583.000 alloggi per soddisfare in pieno l'esigenza di abitazioni popolari. Un conto che non torna. Ma che torna benissimo per l'Ance (Associazione nazionale dei costruttori edili) che persegue la costruzione di 328.000 nuovi appartamenti ogni anno. Una situazione dunque solo apparentemente schizofrenica ma in realtà funzionale al sistema capitalistico, che pone i profitti sopra ai bisogni delle persone. Rimanendo sempre a Roma, ad esempio, ci sono, per ora, ben 250.000 appartamenti sfitti. Ironia della sorte, il numero è identico a quello che abbiamo indicato all'inizio. La sola Roma, dunque, sarebbe teoricamente già in grado di ospitare tutte le famiglie che verranno sfrattate nei prossimi tre anni in tutta Italia.

Verrebbe da chiedersi perché la situazione, a parte sporadici episodi di ribellione e qualche stabile occupato (come recentemente la clinica Valle Fiorita a Roma), risulti ancora piuttosto addormentata. Uno dei motivi è sicuramente la percentuale piuttosto elevata, nel nostro paese, di case di proprietà. Gli italiani, come si usa dire, sono sempre stati “un popolo di grandi risparmiatori”, specialmente per quanto riguarda il mattone. I dati parlano chiaro: l'81% vive in case di proprietà, a differenza del 46% dei tedeschi e del 61% dei francesi. E bisogna anche sottolineare che questa non è una percentuale, per così dire, "recente", ossia composta prevalentemente da famiglie che hanno contratto un mutuo negli ultimi anni (come risulta essere per la disastrata Spagna, che paradossalmente presenta un dato assoluto più elevato, l'83%), ma ben radicata, poiché già nel 1981 la percentuale non era molto più bassa: il 64%. Anzi, bisogna sottolineare che è soprattutto grazie ai risparmi dei lavoratori degli anni passati (in fase di espansione economica o quando almeno la crisi non aveva assunto il peso attuale) se anche una parte dei proletari oggi si ritrova con una casa di proprietà.

"Più case popolari! La casa è un diritto di tutti! Occupiamo per resistere!", tuonano le associazioni e i movimenti per la casa. Rifiutare questa situazione è logico, sacrosanto, le occupazioni sono un modo per resistere, per fare rete, per tentare di non perire sotto il tallone della crisi. Ma queste iniziative, palliativi per lo più, non sono e non possono essere, ovviamente, la soluzione. Chiedere il ripristino dei cosiddetti "beni comuni" come la casa, chiedere l'aumento del numero delle case popolari e la loro assegnazione a pioggia, in un momento di crisi come questo, di tagli al welfare e alla spesa pubblica, è come chiedere di poter afferrare la Luna alzando il braccio. Il perché passa per la comprensione di ciò che ci ha portati a tutto questo (e ricordiamo che ci sono paesi europei, specie la già citata Spagna, dove la situazione è ben più drammatica, con ritmi di 500 sfratti al giorno). Per farlo bisogna avviare un ragionamento breve e semplice, a partire proprio dal concetto che generalmente si ha dei "beni comuni".

I cosiddetti "beni comuni", categoria nella quale viene costantemente fatta rientrare la casa popolare, in realtà non sono mai stati realmente "collettivi", ma servizi erogati al proletariato grazie a fondi (come la vecchia Gescal) che lo Stato arricchiva grazie ai contributi del proletariato stesso, e dunque grazie al lavoro salariato e dipendente in generale che, a sua volta, è in crisi ininterrotta dagli anni '70. La casa popolare, dunque, concessa dal comune, rientra in questa categoria, incastrandosi appieno nel quadro della crisi che stiamo vivendo e subendone gli effetti che però solo oggi vediamo in tutta la loro potenza: assottigliamento dei fondi per la costruzione degli alloggi e inasprimento dei requisiti per accedere agli stessi. A dispetto di tutto ciò, cresce la domanda di affitti (+20% nel 2012), dato che si riflette nel crollo dell'accensione dei mutui (-47%, nel solo primo trimestre dello scorso anno), che gli istituti bancari erogano ormai solo in presenza di garanzie più che sicure. Ma si sa, ormai avere delle garanzie, avere un contratto a tempo indeterminato, è diventato merce rara. Aumento di richieste di affitto e diminuzione di case popolari per carenza di fondi: un serpente che si morde la coda. Una situazione che prospetta l'avvio, in un modo o nell'altro, di un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita del proletariato.

Come uscirne? Abbiamo già scritto sopra che un primo passo può e deve essere la lotta, e dunque le occupazioni, la costruzione di reti di mutuo soccorso con altre famiglie e amici, le manifestazioni, le proteste. Ma queste forme di lotta non elimineranno il problema alla radice, i comunisti devono e dovranno agire affinché tali reazioni, in prospettiva, non tendano semplicemente verso l'ottenimento di un piccolo alloggio a prezzo calmierato in uno sperduto e degradato quartiere di periferia. I comunisti devono agire dunque affinché ci si liberi da un ottica riformista: non bisogna lottare per il meno peggio, per l'elemosina all'interno dell'ottica capitalistica.

Giusto lottare quindi per quanto ci è stato costantemente strappato in questi anni dalla borghesia, ma la vera soluzione è che in futuro vi sia un alloggio per tutti, nessuno escluso; così come – in generale - gli strumenti per soddisfare i bisogni siano a disposizione di tutta l’umanità. Questo processo è però avviabile solo rompendo davvero con le logiche del profitto e non sottostando all'ideologia dominante borghese che ci vuole sempre ricattabili, in bilico, sul filo del rasoio di questa crisi che solo per noi significa effettivamente crisi, mentre per loro significa profitti e speculazione. Questo obiettivo è raggiungibile solo, crediamo fermamente, con una rivoluzione, all'interno di una prospettiva radicale di superamento del capitalismo e dell'avvio verso una società comunista. Solo, dunque, con un programma comunista.

Martedì, January 15, 2013

mr - Battaglia Comunista

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