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Aria pesante a Islamabad

(17 Gennaio 2013)

islamabadpesant

Giovedì 17 Gennaio 2013 00:00

La già precaria situazione interna del Pakistan ha fatto registrare in questi giorni pericolosi passi verso una vera e propria crisi istituzionale, in seguito all’ordine di arresto emesso nei confronti del capo del governo, Raja Pervez Ashraf. Il caos nel paese centro-asiatico a poche settimane da un delicato appuntamento elettorale continua inoltre ad essere alimentato da un nuovo e minaccioso movimento di protesta popolare, ma anche dal riesplodere del conflitto con l’India per il Kashmir e da sanguinosi attentati messi in atto dai gruppi estremisti islamici sunniti contro il governo e le minoranze religiose.

Nella giornata di martedì la Corte Suprema del Pakistan ha dunque ordinato l’arresto del primo ministro, accusato di avere ricevuto tangenti in relazione alla costruzione di centrali elettriche quando era ministro dell’Energia nel 2010. Ashraf aveva sostituito alla guida del governo nel giugno dello scorso anno Yusuf Raza Gilani, anch’egli rimosso dal proprio incarico dalla Corte Suprema e dal suo combattivo presidente, Iftikhar Muhammad Chaudhry, perché rifiutatosi più volte di eseguire un ordine del più alto tribunale pakistano di indirizzare una lettera alle autorità svizzere per riaprire un vecchio caso di corruzione in cui era coinvolto il presidente, Asif Ali Zardari.

Le accuse di corruzione contro l’attuale premier sono note da mesi ma il tempismo dell’ordine di arresto ha sollevato parecchie perplessità. La decisione della Corte Suprema, infatti, è giunta in concomitanza con una manifestazione di protesta organizzata nella capitale, Islamabad, da un religioso e accademico islamico recentemente tornato in patria dal Canada, Mohammad Tahir-ul Qadri.

Quest’ultimo, in un comizio di fronte ad una folla oceanica lo scorso dicembre a Lahore aveva inaugurato una campagna pubblica volta a screditare la già sufficientemente impopolare classe politica pakistana, trovando ampio seguito tra una popolazione costretta a fare i conti con povertà diffusa, disoccupazione e carenza cronica di servizi pubblici.

La manifestazione di Islamabad era invece iniziata lunedì scorso e il giorno successivo i seguaci di Qadri hanno poi marciato verso il Parlamento. Proprio mentre Qadri stava tenendo un discorso nel quale invitava il presidente Zardari e il governo a dimettersi, è giunta la notizia della richiesta d’arresto per il primo ministro Ashraf.

Lo scenario auspicato da Qadri prevederebbe ora la sostituzione dell’attuale esecutivo con un governo di transizione che riceva l’approvazione dei militari, tradizionalmente il centro di potere più influente in Pakistan. Da qui il sospetto nutrito da molti, a cominciare dal Partito Popolare al governo (PPP), che la crociata condotta da Qadri, anche grazie ad una costosa campagna mediatica resa possibile da ingenti donazioni di dubbia provenienza, sia appunto appoggiata dai militari.

Tanto più che, come ha scritto mercoledì la Reuters, Qadri pare avere già avuto un ruolo nel colpo di stato militare del 1999 che depose il governo del primo ministro eletto, Nawaz Sharif, installando al potere il generale Pervez Musharraf.

Ufficialmente, secondo quanto affermato anche dal comandante delle forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani, i militari non sembrano avere intenzione di intervenire direttamente in ambito politico, anche perché in questi anni il loro strapotere è stato oggetto di molte critiche che ne hanno screditato l’immagine.

Con il voto imminente, le forze armate potrebbero essere piuttosto interessate ad una manovra, presentata come un’iniziativa popolare, che consenta loro di favorire il successo alle urne di una formazione politica meno ostile di quanto lo sia stato in questi anni il Partito Popolare del presidente Zardari, anche se ciò potrebbe comportare un rinvio delle elezioni previste per marzo.

Queste scosse del sistema politico pakistano, come già anticipato, giungono in un momento in cui si sono pericolosamente aggravate le tensioni con l’India attorno alla disputa di confine nella regione del Kashmir. Nei giorni scorsi, infatti, una serie di scontri tra le guardie di frontiera dei due paesi ha causato la morte di alcuni soldati da entrambe le parti ed un acceso scambio di accuse reciproche.

Inoltre, questo inizio di anno ha visto aumentare considerevolmente gli episodi di violenza e gli attentati terroristici ai anni di edifici e di personale governativo, così come della minoranza Hazara di religione sciita, residente in gran parte nella provincia occidentale del Belucistan, alimentando proteste e malumori verso una classe dirigente incapace di garantire la sicurezza dei propri cittadini. Solo giovedì scorso, ad esempio, una serie di esplosioni a Quetta, nel Belucistan, e a Mingora, nel distretto di Swat al confine nord-occidentale con l’Afghanistan, ha causato la morte di ben 120 persone.

Di fronte ad una serie di gravi problemi come quelli elencati, e con il timore di un’ulteriore destabilizzazione del paese, le divisioni e gli scontri tra le varie sezioni delle élite pakistane, facenti capo principalmente ai partiti politici, ai militari e alla magistratura, si stanno perciò intensificando. In un paese che registra numerosi precedenti di interferenze dei militari per ristabilire l’ordine, è comprensibilmente diffusa la sensazione che un colpo di mano per sovvertire gli equilibri democratici alla vigilia del voto sia la soluzione più probabile.

L’instabilità del Pakistan rischia infine di mettere ancora più a repentaglio i piani degli Stati Uniti in Afghanistan e in Asia centrale. A creare questo scenario, tuttavia, ha contribuito in maniera decisiva proprio la politica americana in quest’area del globo. L’intervento per deporre il regime talebano e il tentativo di Washington di fare dell’India, il nemico storico del Pakistan, un elemento centrale della propria strategia asiatica per contenere l’espansionismo cinese, infatti, ha scardinato i pilastri della sicurezza pakistana e complicato notevolmente la rivalità tra Delhi e Islamabad.

In particolare, l’appoggio garantito dagli USA all’India in ambito nucleare, negato invece al Pakistan, e l’impulso alla creazione di una partnership strategica tra il governo di Delhi e quello afgano hanno inevitabilmente contribuito ad aumentare il senso di accerchiamento di Islamabad, il cui tradizionale rapporto privilegiato con Pechino, inoltre, ha finito per costituire sempre più un ostacolo nelle relazioni con Washington, da cui riceve annualmente ingenti aiuti economici.

Una situazione, quella in cui si ritrova il Pakistan in ambito internazionale, che viene dunque percepita sempre più come prova di ostilità e di minaccia incombente nei suoi confronti e che, combinata alla crescente crisi politica e sociale domestica, caratterizzata da disuguaglianze colossali e tensioni pronte ad esplodere, rischia di far precipitare la situazione interna, con riflessi allarmanti per l’intera regione centro-asiatica.

Michele Paris - Altrenotizie

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