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Dignità operaia

Dignità operaia

(9 Marzo 2012) Enzo Apicella
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(4 Febbraio 2013)

TEORIA

La lotta economica del proletariato è la lotta dei lavoratori per i loro interessi immediati: salario, intensità, durata ed organizzazione del lavoro, ecc. Essa è il primo gradino della lotta di classe che è veramente tale quando diviene lotta politica, il cui apice è la Rivoluzione contro la borghesia per la conquista e l’esercizio del potere.

La lotta economica è una scalinata che conduce alla lotta politica. Ogni gradino è superiore al precedente perché corrispondente a una lotta più estesa e profonda, che coinvolge e unisce un numero maggiore di lavoratori. Compiendo questo percorso i lavoratori si uniscono superando i confini che li dividono: il primo è sempre quello individuale, cui seguono quello di reparto, di stabilimento, d’azienda, di categoria e, infine, il più duro, quello nazionale. I piani più alti della lotta economica – quando è l’intera classe lavoratrice a mobilitarsi per obiettivi comuni – tendono a coincidere coi primi gradini della lotta politica perché agire come classe è il primo passo per sentirsi e comprendere di essere una classe.

L’alimentarsi della lotta economica è incessante perché le condizioni materiali che la generano sono ineliminabili. Queste risiedono nel rapporto di produzione che distingue il capitalismo dai modi di produzione precedenti: la relazione fra Capitale e Lavoro. I due poli di questo rapporto – che determinano le due classi principali del capitalismo, borghesia e proletariato – sono in insanabile contrasto. In termini generali, cioè tendenziali ma pienamente corretti:
- Il Capitale o cresce o muore. Un’azienda che non accresce il suo capitale è destinata a breve o medio termine a fallire. La somma dei capitali delle singole aziende – piccole medie e grandi – è il Capitale complessivo della società. Più ingigantisce, maggiori difficoltà ha a crescere ulteriormente. Per farlo è costretto ad incrementare lo sfruttamento, cioè a comprimere i salari e ad aumentare la durata e l’intensità del lavoro.
- Il Salario – quale forma, l’ultima, che ha assunto il Lavoro – è il solo mezzo di sussistenza del proletariato, del lavoratore nel capitalismo, privo di ogni strumento di produzione se non la propria forza lavoro che deve vendere per poter mangiare. Per la propria sopravvivenza il lavoratore necessariamente si trova in contrasto con le necessità del Capitale.

Il contrasto fra Capitale e Lavoro salariato dunque è insanabile perché non è frutto della volontà degli individui che compongono le due principali classi sociali del capitalismo – dei lavoratori o dei capitalisti – bensì delle leggi regolanti questo modo di produzione, che determinano i bisogni e quindi le azioni degli individui, a seconda della loro collocazione sociale. La lotta di classe non è il parto di una ideologia ma è un fatto che la teoria comunista, proprio perché scientifica e non ideologica, riconosce e pone quale suo cardine. Ideologie sono la pace sociale, la concertazione, l’idea di conciliare le necessità dei lavoratori con quelle del Capitale, in una parola il riformismo.

Fra lotta economica e lotta politica del proletariato non vi è opposizione. La lotta economica colpisce solo gli effetti del capitalismo: difende i lavoratori dalla necessità del Capitale di contrastare la caduta del saggio del profitto. La lotta di classe politica mira alla causa del problema: il rapporto di produzione Capitale-Lavoro. Ogni vittoria dei lavoratori nel campo della lotta economica è effimera. Lo mostra la storia del capitalismo e lo confermano questi ultimi anni in cui le conquiste operaie passate, frutto di dure lotte, sono una ad una distrutte dal padronato e dai suoi governi. Il solo modo che ha la classe lavoratrice per superare la sua condizione di sfruttamento e precarietà è passare dalla lotta contro gli effetti del capitalismo alla lotta contro il capitalismo stesso. La lotta politica è il coerente completamento della lotta economica. I comunisti quindi non strumentalizzano la lotta economica dei lavoratori per fini politici a loro estranei. «I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato (...) Si distinguono (...) solo per il fatto che (...) fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell’intero proletariato (...) Per il fatto che sostengono costantemente l’interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia» (Manifesto del Partito Comunista, Marx-Engels, 1848).


IL PARTITO

È evidente l’importanza cruciale della lotta economica. Senza di essa non vi sarebbe possibilità di vittoria sul capitalismo: una classe incapace di difendersi sul piano economico non può attaccare sul piano politico. «Il movimento politico della classe operaia ha naturalmente come scopo ultimo la conquista del potere politico per la classe operaia stessa, e a questo fine è naturalmente necessaria una previa organizzazione della classe operaia, sviluppata fino a un certo punto e sorta dalle sue stesse lotte economiche» (Lettera di Marx a Bolte del 29 novembre 1871).

Questa importanza è accentuata dal fatto che, negli archi storici controrivoluzionari, la lotta economica è l’unico campo d’azione del Partito, intendendo con essa non la mera attività di propaganda e proselitismo ma l’intervento teso a influenzare, organizzare e dirigere le lotte dei lavoratori. La gelosa tutela di questa possibilità d’azione è uno dei pilastri della difesa della natura e dell’efficienza del Partito stesso.

«8. (...) è chiaro che il piccolo partito di oggi ha un carattere preminente di restaurazione dei principi di valore dottrinale (...) Tuttavia, non per questo possiamo calare una barriera fra teoria e azione pratica; poiché oltre un certo limite distruggeremmo noi stessi e tutte le nostre basi di principio. Rivendichiamo dunque tutte le forme di attività proprie dei momenti favorevoli nella misura in cui i rapporti reali di forze lo consentono» (Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, 1965).
«9. (...) Il partito riconobbe ben presto che, anche in una situazione estremamente sfavorevole ed anche nei luoghi in cui la sterilità di questa è massima, va scongiurato il pericolo di concepire il movimento come una mera attività di stampa propagandistica e di proselitismo politico. La vita del partito si deve integrare ovunque e sempre e senza eccezioni in uno sforzo incessante di inserirsi nella vita delle masse ed anche nelle sue manifestazioni influenzate dalle direttive contrastanti con le nostre (...) È importante stabilire che, anche dove questo lavoro [l’attività sindacale] non ha ancora raggiunto un apprezzabile avvio, va respinta la posizione per cui il piccolo partito si riduca a circoli chiusi senza collegamento coll’esterno, o limitati a cercare adesioni nel solo mondo delle opinioni» (Tesi “di Napoli”, 1965).
Il Partito dunque presta la massima cura nella definizione della sua azione nel campo della lotta economica proletaria. Obiettivo generale di questa azione è far salire ai lavoratori ciascuno di quei gradini che dalla lotta economica li condurranno a quella politica rivoluzionaria. Il duro lavoro è quello di raccordare ogni battaglia – fin dalla più minuta e particolare, limitata nel perimetro degli obiettivi e dell’estensione – col percorso complessivo di lotta che la classe dovrà compiere per raggiungere le sue finalità massime, attraverso la scelta degli obiettivi, dei mezzi e dei metodi di lotta.
Questo lavoro è condizionato da due fondamentali fattori: il ruolo delle organizzazioni economiche proletarie e l’opposizione della classe dominante.


LA STORIA

Fin dalle origini del movimento operaio lotta proletaria ha significato organizzazione dei lavoratori. Dotarsi di un’organizzazione per i lavoratori è una necessità. «I conflitti fra il singolo operaio e il singolo borghese assumono sempre più il carattere di scontro di due classi. Gli operai cominciano col formare coalizioni contro i borghesi, e si riuniscono per difendere il loro salario. Fondano perfino ASSOCIAZIONI PERMANENTI per approvvigionarsi in vista di dei previsti sollevamenti» (Manifesto del Partito Comunista).

Da strutture temporanee che nascevano e si scioglievano con la singola battaglia, si è passati ad organizzazioni permanenti, che permettono di non disperdere energie ed esperienze, di stabilizzare il raggiunto grado di unità di classe. Mentre – inevitabilmente – la combattività dei lavoratori subisce alti e bassi, l’organizzazione svolge la funzione di volano, accumulando l’energia espressa nel fervore della lotta, conservandola quando la massa dei lavoratori smette di scioperare, trasmettendola alla lotta successiva.

Lo sviluppo delle organizzazioni proletarie è andato nella direzione del superamento, oltre che dei limiti temporali, anche di quelli legati alla struttura produttiva del capitalismo, cioè aziendali e di categoria. Tipico sviluppo dell’organizzazione è quello che la vede nascere nell’azienda e poi espandersi alle imprese simili per produzione, così da impedire che i lavoratori delle une e delle altre siano messi in concorrenza. In tal modo si giunge all’organizzazione dell’intera categoria su base nazionale. Passo successivo è l’unione dei sindacati dei vari mestieri in un’unica organizzazione.

Altra via per la quale si sono formati sindacati che inquadrano l’intera classe lavoratrice è stata quella della formazione di organismi territoriali locali che coordinavano le lotte dei lavoratori unendoli al di sopra delle aziende e delle categorie. Tipico esempio furono le Camere del lavoro in Italia.

I comunisti hanno sempre salutato con fervore la formazione delle organizzazioni di lotta proletarie, anche se queste si costituiscono fuori dall=a loro influenza, perché ciò che rafforza la classe rafforza anche il comunismo rivoluzionario. Il Partito non organizza sindacati di partito: organizzazione economica ed organizzazione politica devono essere distinte. Questa condotta non risponde a un precetto morale. I comunisti sanno di essere i più vicini ai lavoratori e di rappresentare il loro partito. Mai fingono apoliticità nei loro confronti, comportamento che invece contraddistingue tutti gli opportunisti. Per principio: «I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni» (Manifesto del Partito Comunista). Il Partito incoraggia la costruzione di organizzazioni di lotta dei lavoratori, ove vi siano effettive energie proletarie disponibili in tal senso. Ma sostiene la formazione di organizzazioni aperte a tutti i lavoratori al di sopra delle loro divisioni, comprese quelle politiche.

Il Partito non sostiene la creazione di sindacati di soli comunisti perché questi sarebbero inevitabilmente minoritari. Il Partito Comunista, infatti, in quanto rivoluzionario, inquadra necessariamente una minoranza della classe lavoratrice perché «l’ideologia dominante è sempre quella della classe dominante» (Marx). Organizzare sindacati “di partito” porterebbe solo al risultato di abbandonare la maggioranza dei lavoratori all’influenza che i partiti borghesi esercitano attraverso i loro agenti nelle organizzazioni sindacali maggioritarie. Per questa ragione vanno rigettate le forme ibride fra Partito e Sindacato.

In quanto rivoluzionario, e perciò minoritario, il Partito Comunista non ha le forze per creare un rapporto diretto con l’insieme della classe. Le organizzazioni di lotta proletarie sono organismi intermedi che Lenin definì efficacemente cinghia di trasmissione fra il Partito e la Classe. Solo attraverso l’azione dei comunisti all’interno di queste organizzazioni la voce e la forza del partito possono essere moltiplicate.

Il miglior sviluppo della lotta di classe si ha con una classe lavoratrice largamente inquadrata entro una o più organizzazioni economiche proletarie e con un Partito, definito nei suoi caratteri teorici e programmatici rivoluzionari, che abbia potuto svolgere all’interno di queste organizzazioni un’intensa attività, tale da essere ben riconoscibile dai suoi membri.


TRE FASI

La storia di due secoli di lotta proletaria mostra come il processo di formazione delle organizzazioni sindacali non sia compiuto una volta per tutte ma possa ripetersi, per una parte o per l’insieme della classe, a seconda delle vicende di ciascun paese, per effetto dell’azione avversa della borghesia.

Pur avendo il movimento operaio e sindacale caratteri peculiari in ogni paese, risultato delle differenti storie nazionali, i suoi tratti fondamentali sono comuni, delineati dal comunismo rivoluzionario fin dalle sue origini col Manifesto del 1848, che si conclude con la parola d’ordine: proletari di tutti i paesi unitevi! È possibile e necessario delineare un percorso generale compiuto dalle organizzazioni proletarie e dall’azione delle borghesie nazionali nei loro confronti.

La condotta della classe dominante è mutata nel corso della storia del capitalismo e vi si possono distinguere tre fasi successive: divieto, tolleranza, assoggettamento.

Divieto

L’atteggiamento della borghesia agli esordi del movimento operaio fu di intransigente divieto e repressione. Tipico esempio furono la legge Le Chapelier in Francia del giugno 1791 e quella del parlamento inglese del luglio 1799. La conquista del potere da parte della borghesia rivoluzionaria, a spese dell’aristocrazia, ebbe quale veste ideologica la cosiddetta dottrina liberale secondo cui, nel nuovo ordine instaurato, la società civile, in virtù della raggiunta eguaglianza giuridica dei cittadini, si sarebbe autoregolata, senza che al suo interno si generassero forze sociali distruttrici, come era invece accaduto per l’ancien regime feudale, crollato sotto i colpi delle rivoluzioni borghesi. Per la borghesia, naturalmente, il suo regime doveva – e deve – essere l’ultimo ed eterno. La formazione di corpi sociali distinti all’interno della società, come le organizzazioni operaie, era perciò repressa, considerata un residuo del passato, associata alle corporazioni medioevali.

Tolleranza

La dottrina liberale mostrò presto il suo carattere ideologico, cioè falso: a fronte dello sviluppo impetuoso del giovanile capitalismo nell’Europa Occidentale, e quindi alla rapida crescita del proletariato, la condotta repressiva si rivelò pericolosa. Se gli operai, ogni qual volta che scioperavano, dovevano affrontare il piombo dello Stato borghese, potevano essere indotti molto rapidamente a passare dalla lotta economica a quella rivoluzionaria. Le lotte economiche tendevano a divenire subitaneamente lotte politiche. Per questa ragione in quell’epoca organizzazione economica ed organizzazione politica della classe proletaria spesso coincisero, come nel caso della gloriosa Prima Internazionale (1864-1876).

La borghesia – ascesa al potere in Inghilterra con la rivoluzione del 1649-58, in Francia con la Grande Rivoluzione del 1789-’93, nel resto dell’Europa occidentale dopo le rivoluzioni del 1848-’49 – mutò atteggiamento, accettando l’associazionismo proletario. Il regime zarista russo, ancora feudale, non poté fare altrettanto, e anche per questo crollò sotto i colpi della Rivoluzione proletaria nell’ottobre rosso del 1917.

Sul sangue della Comune di Parigi del 1871 si aprì così nell’Europa Occidentale la fase della tolleranza che vide parallelamente lo sviluppo impetuoso del capitalismo da un lato e dei sindacati dall’altro. Tipico esempio furono i sindacati tedeschi e le Trade Unions inglesi.

Lo Stato borghese ammise in tal modo che la società capitalista non era un insieme omogeneo di cittadini – liberi, uguali, fraterni – ma era divisa in classi. Finché poté, cercò – in ossequio alla dottrina liberale – di lasciare autonomia sia alle organizzazioni padronali sia a quelle proletarie nella lotta fra Capitale e Lavoro, intervenendo quando lo scontro diveniva un problema d’ordine pubblico. Ma il corso del capitalismo doveva inevitabilmente spingere in direzione opposta, verso un sempre maggiore interventismo statale.

La lunga e forte crescita economica degli ultimi trent’anni del diciannovesimo secolo e dei primi anni del Novecento – simile a quella successiva alla Seconda Guerra mondiale – fu la base materiale che sviluppò nel seno del movimento operaio e socialista una corrente riformista e la spinse alla direzione delle organizzazioni sindacali. Il nuovo atteggiamento di tolleranza sembrò dunque vincente per gli interessi borghesi: la lotta economica non spingeva i lavoratori verso la rivoluzione ma verso il riformismo.

Assoggettamento

Il riformismo negava lo sbocco rivoluzionario della lotta di classe ma condivideva col marxismo rivoluzionario l’obiettivo della società senza classi, senza Capitale, senza la schiavitù del lavoro salariato. Esisteva un riformismo proletario, o marxismo riformista, che il marxismo rivoluzionario combatteva – denunciandone l’inevitabile fallimento – ma con cui, finché la storia non lo avesse dimostrato, condivideva l’organizzazione politica, come nel caso tipico della Seconda Internazionale, fondata nel 1889.

I sindacati, pur se dirette da riformisti, erano autonome teoricamente e materialmente dalla borghesia e dal suo Stato, sia per il carattere del riformismo proletario sia per quello della cosiddetta borghesia liberale. Entrambi questi atteggiamenti non erano libere scelte dei loro attori ma frutto dell’epoca giovanile del capitalismo, fase che, col potente sviluppo di fine ‘800, si avviava a passi veloci verso il tramonto.

L’esaurirsi del ciclo di crescita e l’aprirsi della crisi economica generale intorno al 1905, che sboccò nella Prima Guerra mondiale, l’ondata rivoluzionaria proletaria dal 1917 al 1923, mutarono radicalmente la situazione, nel senso previsto dal comunismo rivoluzionario.

Si dimostrò che le correnti marxiste rivoluzionarie erano in grado di svolgere all’interno delle organizzazioni sindacali una efficacie attività, mettendo a rischio il loro assoggettamento al riformismo, e che per la borghesia era necessario un più stretto controllo su di esse.

La Prima Guerra mondiale accelerò il passaggio del capitalismo dalla sua fase giovanile a quella matura – l’imperialismo – i cui caratteri centrali sul piano economico erano quelli contemporanei della concentrazione e centralizzazione dei capitali, strettamente legata alla fusione del capitale bancario con quello industriale. Questi caratteri della struttura economica ebbero, quale riflesso sulla sovrastruttura politica, il potenziamento della macchina statale capitalista, che, gettato via il vestito logoro dell’ideologia liberale, tese da allora a intervenire, controllare e disciplinare sia il movimento operaio sia la borghesia stessa, a tutela degli interessi complessivi del Capitale nazionale ed internazionale.

La Prima Guerra mondiale sancì il fallimento del riformismo che in tutti i paesi aveva appoggiato la propria borghesia spingendo i proletari al massacro fratricida ai fronti, dimostrando di rifiutare la violenza rivoluzionaria ma accettare quella della guerra capitalista. Il riformismo proletario morì e da allora il suo cadavere cammina solo perché si è gettato in braccio allo Stato borghese, che lo sostiene perché fondamentale strumento contro la Rivoluzione. Da allora esiste solo un riformismo borghese.

La sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni 1917-1923 aiutò la borghesia nel tentativo di assoggettare le organizzazioni economiche dei lavoratori.

Nei paesi in cui più forte era il legame fra i lavoratori e il comunismo rivoluzionario la classe dominante ricorse all’azione armata del fascismo, distrusse le organizzazioni sindacali di classe, creò al loro posto sindacati di Stato e teorizzò – limpidamente – l’inquadramento delle forze sociali, Capitale e Lavoro, in Corporazioni disciplinate nello Stato per il bene superiore della Patria.

Ma il contenuto materiale dell’ideologia fascista – oltre all’azione militare antiproletaria – non fu che l’azione concreta di tutti gli Stati borghesi, democratici e fascisti, da allora in poi. Basti sostituire “Corporazioni” con “Parti sociali” e “Patria” con “Democrazia” o “Paese”.

Nei paesi dove il comunismo rivoluzionario era più debole questo risultato fu ottenuto dalla borghesia affidandosi ancora al riformismo che, ora suo servo fedele, abbandonò i precedenti obiettivi per i nuovi borghesi: la società senza classi, senza Capitale, senza lavoro salariato fu prima identificata e poi sostituita con la Democrazia, assurta a bene supremo cui subordinare la lotta operaia, in quanto regime politico in grado di garantire un capitalismo equo, in permanente sviluppo, con benessere e progresso sempre crescenti. Tutto falso, perché nessun regime politico può modificare le leggi economiche del capitalismo.

La vittoria della controrivoluzione fu la riscossa del riformismo che, scampato il pericolo rivoluzionario 1917-1923, penetrò, con la veste ideologica dello stalinismo, nei partiti comunisti, distruggendoli. Questa nuova sconfitta della rivoluzione e del movimento comunista condusse alla Seconda Guerra mondiale. Ancora una volta fu negata ai proletari di tutti i paesi la consegna del Manifesto: unitevi! Il riformismo mandò nuovamente i lavoratori al macello sui fronti di guerra. La controrivoluzione trionfò, non poté essere spezzata e doveva consumarsi fino in fondo.

La chiusura, nel 1974, del nuovo ciclo di accumulazione capitalistica reso possibile dalla Seconda Guerra mondiale, il crollo del falso comunismo russo nel 1989, l’esplosione della crisi economica generale nel 2008, segnano l’esaurimento delle basi materiali di questo lungo arco controrivoluzionario.


NEL 2° DOPOGUERRA

All’indomani della Seconda Guerra mondiale il Partito riconobbe il nuovo atteggiamento della classe dominate teso ad assoggettare le organizzazioni della classe lavoratrice. L’arco storico che comprende le due guerre mondiali aveva visto la resa delle tradizionali organizzazioni sindacali di classe, seriamente compromesse nella loro autonomia e trasformate in sindacati di regime, legati cioè al regime politico, economico e sociale capitalista. Il lungo arco controrivoluzionario non poteva che favorire questo processo.

Di fronte a ciò il Partito mantenne la tradizionale consegna di lavorare all’interno di queste organizzazioni sindacali allo scopo di conquistarle, riportandole ad essere organizzazioni di classe. Ma aggiunse che, quanto più avanzava il loro inquadramento nel regime, tanto più si sarebbe aperta la possibilità che i lavoratori si riorganizzassero per lottare fuori e contro di esse.

Il lavoro all’interno di questi sindacati era perciò vincolato al progredire del processo del loro assoggettamento, più precisamente, alla possibilità per i militanti del Partito di poter svolgere attività sindacale comunista al loro interno e battersi per affermarvi l’indirizzo sindacale comunista: «11. (...) Il partito, mentre riconosce che oggi può fare solo in modo sporadico opera di lavoro sindacale, mai vi rinuncia e, dal momento che il concreto rapporto numerico tra i suoi membri, i simpatizzanti e gli organizzati in un dato corpo sindacale risulti apprezzabile e tale organismo sia tale da non avere esclusa l’ultima possibilità virtuale e statutaria di attività autonoma classista, il partito esplicherà la penetrazione e tenterà la conquista della direzione di esso» (Tesi caratteristiche del partito, 1951).

Il Partito non ha “fretta” di sciogliere questa duplice possibilità – riconquista o ricostruzione fuori e contro – ma quando ritiene di avere elementi sufficienti per poterlo fare deve indicare alla classe lavoratrice la via da percorrere perché è sua funzione favorire, influenzare, dirigere col proprio indirizzo la lotta economica proletaria. «7. (...) Compito del partito nei periodi sfavorevoli e di passività della classe proletaria è di prevedere le forme e incoraggiare la apparizione delle organizzazioni a fine economico per la lotta immediata». Come per ogni altro ramo di attività, l’abdicare a una sua funzione nuoce al complesso del suo organismo, della sua vita interna, del suo lavoro.

La valutazione della natura definitivamente di regime di un’organizzazione sindacale, ossia della sua inconquistabilità da parte dei comunisti, riposa, oltre che sui caratteri del suo indirizzo, sui seguenti fattori:
- tentativi non sporadici di gruppi di lavoratori di organizzarsi fuori e contro di essa;
- pratico impedimento all’attività dei militanti del Partito al suo interno.

Dopo la Seconda Guerra mondiale solo in Italia il Partito ha potuto svolgere una significativa attività sindacale. In questo paese si è battuto all’interno del maggiore sindacato – la CGIL – dalla sua ricostituzione “dall’alto” col “Patto di Roma” nel 1944, già su basi di regime, per un arco temporale di oltre trent’anni.

Solo alla fine degli anni ‘70 giunse alla conclusione che non era più possibile svolgere lavoro sindacale comunista al suo interno, non era più possibile la sua riconquista, nemmeno, come si disse, “a legnate”, cioè non per via congressuale ma sull’onda di potenti lotte e in modo violento. Questa valutazione riposò, oltre che sull’attività sindacale interna alla CGIL, anche su importanti episodi di lotta in cui i lavoratori si organizzarono fuori e contro di essa.

Entrambi i fattori sopra indicati erano ben presenti. Infatti, negli anni successivi, l’indirizzo del Partito – che da allora per l’Italia è “fuori e contro i sindacati di regime per la rinascita del sindacato di classe” – è stato confermato dalla nascita di nuove organizzazioni sindacali, cosiddette “di base”. Il fatto che, nell’ulteriore arco temporale di 35 anni, da fine anni ‘70 ad oggi, queste nuove organizzazioni non abbiamo condotto alla formazione del Sindacato di Classe, che evidenzino tare alcune anche gravi, e perfino che alcune tendano a ripetere il percorso involutivo già compiuto dalla CGIL, non contraddice l’impostazione del problema sindacale del Partito ma ne è una conferma. Nell’epoca dell’imperialismo, infatti, ogni organizzazione sindacale che non sia conquistata dal Partito Comunista rivoluzionario, è destinata ad essere, a breve o lungo termine, assoggettata al regime borghese.

Dopo aver sciolto per l’Italia l’alternativa “riconquista o rinascita fuori e contro”, il Partito nel trentennio successivo ha svolto attività sindacale entro le nuove organizzazioni sindacali di base col metodo e gli obiettivi di sempre, come aveva fatto entro la CGIL di regime dell’epoca imperialista, e come precedentemente nella CGL rossa del primo quarto del Novecento. Ciò che distingue quest’ultimo arco temporale dai precedenti è l’assenza di importanti lotte proletarie, tali da mettere seriamente alla prova le piccole organizzazioni sindacali di base.

Il senso del lavoro sindacale del Partito, la sua coerenza e continuità, al di sopra delle vicende che inevitabilmente – trattandosi di lotta e non di attività accademica – lo hanno condizionato, riducendolo o anche interrompendolo, sono rintracciabili utilizzando quello che è lo strumento principale del lavoro comunista, ossia il giornale quale “organizzatore collettivo”, attraverso le sue organi sindacali: “Il Sindacato Rosso” (1921-1925), “Spartaco” (1962-1968), “Il Sindacato Rosso” (1968-1973), “Per il Sindacato Rosso” (1974-1987). Questa pagina sindacale intende proseguire lo stesso lavoro e sulla quella medesima strada tracciata.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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