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Mezza piena o mezza vuota?

Mezza piena o mezza vuota?

(22 Gennaio 2011) Enzo Apicella

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Continua la mobilitazione della classe operaia egiziana contro militari, islamici e democratici

(5 Febbraio 2013)

Il secondo anniversario della cosiddetta “primavera” egiziana non poteva andare peggio per il nuovo governo del “civile” Presidente Mohammed Morsi e per il suo partito Giustizia e Libertà.

Grandi manifestazioni di protesta contro il governo si sono svolte nelle principali città del paese interessando 12 dei 27 governatorati dell’Egitto. In molti casi i manifestanti si sono scontrati con le forze di polizia, se si esclude Porto Said, la città che si trova all’ingresso del canale di Suez dove, per difendere dagli assalti la locale prigione, è intervenuto l’esercito e ci sono stati decine di morti.

La rivolta non si è fermata al giorno dell’anniversario ed è proseguita nei giorni e nelle notti seguenti continuando a mietere vittime e ad allargare il solco tra il governo e i manifestanti. Decine di morti, centinaia di feriti ed arrestati stanno a dimostrare la violenza degli scontri. Il presidente Morsi ha risposto proclamando lo stato d’assedio per trenta giorni nelle città di Porto Said, Suez ed Ismailia, probabilmente per assicurare il traffico delle navi lungo il canale, vena giugulare per l’economia egiziana.

Due giorni dopo, il 28 gennaio, la Camera Alta del Parlamento egiziano, che in base alla nuova Costituzione ha funzione legislativa, ha conferito all’esercito poteri di polizia, cioè la possibilità di intervenire per reprimere le manifestazioni di piazza e di arrestare i civili. Nonostante questo le manifestazioni nelle tre città sottoposte allo stato d’assedio sono continuate senza che l’esercito sia intervenuto.

I manifestanti sono tornati in piazza per opporsi al nuovo esecutivo, la cui unica novità rispetto al “faraone” Mubarak sta nel fatto che il presidente Morsi non è un militare ma appare “eletto dal popolo”.

Il nuovo governo si è trovato a gestire una situazione economica estremamente difficile. La popolazione dell’Egitto in sessanta anni è aumentata da venti a più di ottanta milioni; di questi il 35% sono ancora dediti all’agricoltura, che però produce solo il 15% del prodotto interno lordo; il 40% della popolazione sopravvive sotto la soglia di povertà, sia nelle campagne sia alla periferia delle grandi città; nella metropoli cairota si concentrano 15 milioni e mezzo di abitanti.

I salari del proletariato industriale sono molto bassi. Ingente la disoccupazione, soprattutto tra i giovani, dei quali ogni anno 700.000 si aggiungono all'offerta di lavoro.

Il governo, per mantenere la pace sociale, sovvenziona alcuni beni primari come pane e benzina, facendoli vendere sottocosto. L’Egitto è il primo importatore di grano del mondo. Fino a qualche anno fa lo Stato riusciva a compensare le spese con la rendita del canale di Suez, la vendita del petrolio e del gas naturale, le entrate del turismo, le rimesse di lavoratori emigrati, oltre che con i prestiti, anche a fondo perduto, da parte di altri Stati. Ma la crisi economica mondiale e ormai due anni di disordine sociale all'interno hanno fatto crollare le entrate del turismo e gli investimenti dall'estero, la vendita del petrolio si sta riducendo anche per l’aumento dei consumi interni e gli aiuti internazionali sono ormai legati a condizioni inaccettabili. Nell’ultimo anno le disponibilità finanziarie dell’Egitto si sono drasticamente ridotte e si calcola che si esauriranno entro questo anno.

L’Egitto ha dunque bisogno urgente di tagliare la spesa pubblica e di ottenere prestiti dall’estero. Le trattative che il nuovo governo ha iniziato da mesi col Fondo Monetario Internazionale vanno però a rilento. Il FMI pretende misure draconiane l'aumento immediato dei prezzi amministrati, l’aumento delle tasse, la diminuzione dei dipendenti pubblici, che pare assorbano il 70% della massa salariale del Paese, ecc. È la ricetta che anche il proletariato d’Occidente sta sperimentando, ma che ha conseguenze ancora più brucianti in una situazione come quella dell’Egitto. Il governo Morsi ha chiesto un prestito anche ai ricchi emirati del Golfo, ma il loro aiuto pare non sia risultato così “fraterno” quanto sperato e necessario.

Questa situazione, che pare senza via d’uscita, spiega forse l’atteggiamento prudente delle gerarchie militari che, per mesi apertamente al potere dopo la caduta di Mubarak, hanno fatto un passo indietro permettendo l’ascesa al governo di Morsi e del suo partito filo-islamico Giustizia e Libertà. Non bisogna però farsi ingannare dalle apparenze, l’esercito resta lo strumento principale per la difesa dello Stato, una struttura efficiente e organizzata per tradizione ma anche la forza economica che le deriva sia dall’esteso possesso di terreni e di attività industriali e commerciali, sia dal generoso aiuto finanziario e militare che riceve dagli Stati Uniti d’America. Qualsiasi vero tentativo di abbattere il regime dovrà confrontarsi con l’esercito che, come hanno dimostrato gli avvenimenti dell’anno scorso, è garante della legalità e della democrazia per le classi possidenti, per i proprietari fondiari e per la borghesia egiziana, non certo per il proletariato e le masse povere.

Gli islamici al governo si sono velocemente screditati. Ma neppure gli altri partiti dello schieramento borghese, compreso quel Fronte di Salvezza Nazionale che tiene insieme liberali e socialdemocratici, dispongono di un diverso programma. Nessun partito, di nessuna delle classi dominanti, può far uscire l’Egitto dalla crisi, nessuno può salvaguardare, né tantomeno migliorare, le condizioni di vita del proletariato agricolo e industriale e delle masse povere.

Durante i sommovimenti degli ultimi due anni contro il regime di Mubarak, poi contro il governo militare provvisorio, infine contro l’attuale governo Morsi, si è verificato un fenomeno importante da un punto di vista di classe e da noi previsto: la crescita esponenziale degli scioperi, la conseguente crisi del sindacato di regime e la rinascita di sindacati indipendenti in molte categorie di lavoratori.

Scrive Joel Beinin su “Carnegie Endowment”: «Quasi un migliaio di nuovi sindacati indipendenti dall'Egiptian Trade Union Federation [il vecchio sindacato di regime, ndr] sono nati dalla sollevazione del 25 gennaio 2011 contro il regime di Mubarak. Molti di loro si sono affiliati ad una delle due nuove federazioni sindacali: la Federazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti (EFITU) o il Congresso Democratico Egiziano del Lavoro (EDLC). Le federazioni indipendenti e molti dei sindacati che ne fanno parte sono deboli quanto a risorse e capacità organizzativa, in parte a causa del fatto che l'Egitto non ha avuto esperienza di un sindacalismo democratico tra i primi anni '50 del '900 e il 2011. In ogni caso, l'esistenza di tali federazioni e l'alto profilo delle lotte di molti dei sindacati loro affiliati – gli ispettori del fisco per le proprietà immobiliari municipali; i lavoratori dei trasporti (metro e bus) del Cairo; gli insegnanti; i lavoratori dell'industria del ferro, dell'acciaio e delle ceramiche; i lavoratori portuali di Ain Sokhna – hanno imposto all'agenda politica del paese i temi della rivendicazione di un sindacalismo democratico, della libertà di associazione dei lavoratori e del diritto alla contrattazione collettiva».

Questo processo di ripresa della lotta di classe e di nascita di nuovi sindacati non direttamente controllati dal regime è certamente una delle questioni più preoccupanti per il nuovo governo. Infatti ha cercato di contrastare le nuove forme organizzative sia imponendo propri uomini alla direzione dell’Egiptian Trade Union Federation, sia varando il 25 novembre scorso un decreto che dà la possibilità, con la semplice sentenza di un giudice, di sciogliere qualsiasi sindacato indipendente.

La politica economica del governo Morsi e del partito Libertà e Giustizia nulla hanno da offrire ai disoccupati, ai lavoratori, al sottoproletariato: in perfetta continuità col governo precedente intendono accreditarsi a livello internazionale come difensori del “libero mercato” mentre all'interno tagliano i sussidi pubblici, svalutano la lira egiziana, aumentano le tasse sui beni primari e collegano i salari alla produttività. Un progetto economico definito come un esempio di "capitalismo islamico", che chiede rinunce e sacrifici in nome della fedeltà religiosa.

Il proletariato, i licenziati, i giovani in cerca di un’occupazione, i disperati che vivono di espedienti alle periferie delle grandi città sono stati coinvolti in un movimento che rivendica soprattutto la possibilità di una vita dignitosa, di trovare un lavoro e un salario migliore. Tutte queste richieste sono andate deluse nell’arco di pochi mesi, sostituite con riti democratici presto screditati, le elezioni presidenziali, il referendum per la Costituzione e con la pelosa carità degli islamici, mentre polizia e milizie hanno cercato di imporre l’ordine col terrore.

È probabile che questa rivolta non si spenga facilmente. La classe operaia dà il suo determinante contributo, continuano le lotte come quella dei portuali a Ain Sokhna per aumenti salariali e degli operai tessili a Mahalla contro la nuova Costituzione.

Ma questo movimento non potrà portare frutti duraturi per il proletariato e le masse povere d’Egitto perché non c’è attualmente un partito che rappresenti gli interessi storici delle classi oppresse. Solo se il proletariato riuscirà a darsi organizzazioni di classe indipendenti, sia sul piano sindacale sia su quello politico, potrà esserci speranza di un suo vero riscatto.

Sul piano sindacale questo processo è già iniziato. I nuovi sindacati si rafforzeranno nell’organizzazione, allargheranno la loro influenza in tutte le categorie e settori. Ma queste organizzazioni dovranno proteggersi dall’influenza dei partiti democratici e da quella degli islamisti, e allo steso tempo darsi una rete sindacale clandestina in grado di resistere al tentativo di disperderli con la forza.

Sul piano politico, gli elementi più radicali e decisi dovranno ritrovare il filo rosso del marxismo rivoluzionario, lavorare per ricostituire quel Partito Comunista Internazionale che ebbe breve vita anche in Egitto, novanta anni fa, per cadere vittima, prima che della repressione borghese, dell’opportunismo stalinista.

La crisi egiziana, che si è acuita a seguito della crisi generale del capitalismo, non può essere affrontata a livello nazionale; né potrà essere risolta permanendo i rapporti capitalistici di produzione. Potrà trovare soluzione solo con una rivoluzione sociale che spezzi il potere dello Stato borghese e instauri una dittatura internazionale proletaria.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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