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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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Per la ripresa del movimento contro la guerra

Per riprendere il cammino del movimento contro la guerra, per non abdicare sull’altare dell’unità nazionale.

(23 Settembre 2004)

“I pacifisti scendono nelle piazze, ma non le riempiono”. Così recita il Manifesto nell’edizione di domenica 19 settembre all’indomani della giornata nazionale di mobilitazione contro la guerra.

Effettivamente le mobilitazioni no war, in particolare a seguito del rapimento delle due Simona, presentano evidenti segni di una difficoltà non solo nelle stime numeriche dei partecipanti ai cortei ma soprattutto nella capacità di rispondere, colpo su colpo, all’offensiva normalizzatrice in atto tendente al depotenziamento politico degli obiettivi del movimento.

Non c’è dubbio che il riemergere di un clima politico da unità nazionale, una sorta di Union Sacrè antiterroristica in salsa tricolore, ha pesato, e continuerà a pesare, sulla necessità di rilanciare la lotta alla guerra, rimanendo ancorati alla richiesta del ritiro immediato delle truppe italiane, anche in presenza dell’intervenuta oggettiva difficoltà rappresentata dalla vicenda degli ostaggi del Ponte per (e prima ancora del giornalista Baldoni).

A questo proposito, non solo le dichiarazioni degli esponenti del governo Berlusconi, ma anche le prese di posizione della cosiddetta opposizione, in primis Violante e Bertinotti, sono state palesemente eloquenti circa la direzione di marcia che da parte dei settori della sinistra istituzionale si intende far seguire al corso del movimento.

Tale scellerata scelta, facendo leva anche su debolezze oggettive dello stesso movimento, ha prodotto riverberi dentro (ed attorno) al movimento no war, rafforzando quel paludato humus politico che punta all’esplicita messa in mora di qualsivoglia forma di autonomia di tale battaglia dal quadro partitico ed istituzionale. Come interpretare, altrimenti, gli espliciti inviti affinché venisse dimessa l’accusa al governo italiano di essere (comunque) il principale responsabile del sequestro dei volontari in Iraq oppure i vergognosi appelli bipartizan all’imposizione coattiva del silenzio nelle marce e nei cortei?

E cosa pensare del vero e proprio bavaglio imposto utilizzando a piene mani tutto l’armamentario propagandistico ed autoritario di cui è capace la macchina mediatica della dis/informazione borghese all’intero arcipelago del volontariato e dell’associazionismo il quale, pur con toni e modalità difformi, in questi anni, aveva mantenuto una critica alle scelte guerrafondaie del governo.

Evidentemente il ritrovato clima comune nella lotta al terrorismo, propedeutico a prossimi e probabili avvicendamenti governativi, sta producendo i primi deleteri effetti nel movimento di lotta e nelle aree sociali e culturali che, a vario modo, fanno riferimento agli ambienti pacifisti e no war.

Ancora una volta si esplicita quella mai sopita concezione teorica e politica presente non solo nelle fila dell’Ulivo/Triciclato ma anche nel Bertinotti/pensiero che concepisce le dinamiche del movimento no war (..e non solo!!) come appendice strumentale delle alchimie istituzionali e alle loro eventuali, evoluzioni verso differenti soluzioni di governance.

Una percezione concreta di tale lavorio si è potuta registrare alla recente Assemblea del Comitato Fermiamo la Guerra, tenuta l’11 ed il 12 settembre a Roma, a cui abbiamo partecipato e che ha rivelato tutta la sua subalternità agli equilibrismi del centro-sinistra con la dichiarata volontà di non disturbare il percorso di avvicinamento nazional/patriottico tra l’Ulivo ed il Governo Berlusconi.

(Da alcuni anni questo ambito, nato in maniera quasi informale sull’onda delle manifestazioni del Forum Sociale di Firenze, delle grandiosi giornate del 15 Febbraio 2003 e del 20 Marzo scorso, aveva, pur tra estenuanti mediazioni ed espliciti ricatti di dissociazione dalle iniziative più nettamente caratterizzate contro la guerra provenienti per lo più dalla CGIL e da quei settori più organicamente legati ai DS, assicurato la continuità delle mobilitazioni e la cura di tutti gli aspetti organizzativi utili alla realizzazione di queste in Italia e nei vari appuntamenti internazionali.)

Con la vicenda delle due Simona ed il chiaro delinearsi del nuovo contesto politico imperniato sulla rediviva filosofia della solidarietà/unità nazionale le principali forze presenti nel Comitato Fermiamo la Guerra hanno, esplicitamente, operato, nell’assemblea ed in tutta la sua attività, da freno verso la promozione e la generalizzazione della lotta contro l’aggressione all’Iraq e per il ritiro delle truppe senza se e senza ma.

Abbiamo partecipato ad una (deprimente) due giorni romana in cui un ceto politico, auto-elettosi alla rappresentazione del movimento in tutte le stagioni, ha di fatto raccolto il (pressante) invito istituzionale alla moderazione dei contenuti politici delle mobilitazioni ostacolando qualsiasi sollecitazione alla ripresa di iniziative di protesta libere da condizionamenti ed imbavagliamenti provenienti dal Palazzo. Così, pure attestandosi dietro una dignitosa presa di posizione che rivendicava insieme alla liberazione degli ostaggi la rivendicazione del ritiro delle truppe, che sembrava tutelare e ribadire l’autonomia del movimento, si è fatto di tutto per stemperare la possibilità di una attiva e radicale mobilitazione. Da qui il rifiuto di individuare, da subito, nelle Prefetture gli snodi contro cui rivolgere la mobilitazione, il voler diluire la scesa in piazza nelle varie città e non invece in un'unica grande manifestazione nazionale la quale avrebbe agito da fattore moltiplicatore di attivizzazione e soprattutto l’utilizzo cinico e strumentale del logo del Ponte per… allo scopo di confondere, imbarazzare, e poter poi successivamente tacitare, qualsiasi voce dissonante e critica verso questa vergognosa condotta.

Particolarmente surreale (e politicista, con buona pace di tutti i sermoni sul nuovo modo di fare politica) è stata la conduzione di alcune commissioni di lavoro dove i vari coordinatori, ignorando l’urgenza della situazione in atto in Iraq (oltre 100 morti al giorno, città sotto il fuoco dei bombardamenti aerei, visita del presidente-fantoccio irakeno in Italia, questione ostaggi.), hanno continuato stancamente le loro dissertazioni su questioni accessorie della generale attività no global, senza voler assumere, immediatamente, il compito della mobilitazione permanente rispetto al precipitare degli avvenimenti.

C’è voluta l’aperta contestazione ad opera di alcuni compagni per riuscire ad interrompere questo tran tran e tentare di reimpostare un andamento della discussione verso l’indizione di forme di lotta più opportune capaci di stimolare ed orientare positivamente quelle centinaia di migliaia di persone le quali, nel corso degli ultimi anni, hanno costituito la base materiale e sociale del movimento e che oggi sono disorientati dagli avvenimenti e dalla strumentalizzazione in corso.

Il resto è rappresentato dagli episodi accaduti nella settimana precedente la giornata di mobilitazione del 18 settembre la quale non poteva non risentire di questo clima politico in cui sono prevalse da un lato l’aperto sabotaggio delle direzioni riformiste e sindacali e dall’altro una reale difficoltà strutturale da parte della maggioranza del movimento ad assumere e riconoscere, come dato presente, politicamente agente e con cui fare i conti, il fenomeno della Resistenza armata in Iraq (quello che abbiamo definito il soggetto scabroso..) verso gli occupanti occidentali.

Del resto, non da oggi ma fin dall’emergere delle prime azioni di lotta contro gli occupanti, anche nei settori più critici verso l’aggressione al popolo irakeno si è cercato di istillare il paralizzante diktat secondo cui la resistenza irakena, nel suo complesso, andava identificata con il terrorismo tout-court.

L’altra direttrice, su cui ha agito particolarmente il PRC ed alcuni pacifisti/fondamentalisti, è stata l’ossessiva campagna per la condanna e la lotta al terrorismo, da denunciare come equivalente speculare della politica degli USA e corresponsabile della violenza e del generale clima imperniato sulla dottrina imperialistica della guerra globale permanente.

A questo punto, con il verificarsi della vicenda del sequestro dei volontari in Iraq ed il montare del clima di isteria generale, ai settori dell’Ulivo ed alla maggioranza del Prc si è presentata la ghiotta occasione per accelerare il loro disegno di normalizzazione moderata del movimento.

Per costoro, ammantati dietro la seduzione ed i colori dei drappi arcobaleni, non si tratta di far scomparire il movimento (il sub/comandante Fausto ama spesso fregiarsi di altisonanti richiami al movimento!!) ma di ricondurlo docilmente alla dialettica compatibilistica dell’Ulivo-rinnovato snaturandolo da ogni contenuto politico antagonistico.

In questo senso si realizza una convergenza oggettiva con chi punta a trasformare nei fatti il movimento contro la guerra in uno strumento di sostegno alla politica interventista dello stato italiano proprio puntando alla priorità della lotta al terrorismo.

Utilizzando i volti delle due Simona e tutta la tragica questione degli ostaggi si è sostenuto che era impossibile mantenere inamovibile la richiesta del ritiro immediato delle truppe vista la situazione in cui si trovano le ragazze sequestrate e si è offerta una chiara chance di rilegittimazione al governo del Cavaliere ed alla sua farsesca trattativa/mediazione internazionale.

Che poi tra i primi risultati di questa trattativa vada annoverato l’intensificarsi, a larga scala, dei bombardamenti sulle città irakene è l’evidenza che offriamo all’attenzione di quanti, nelle ultime settimane, hanno ritenuto di mettere in campo una esplicita moratoria delle lotte alla politica guerrafondaia ed interventista dello stato e del governo italiano.

(Ci sia consentito aprire una breve parentesi sul PRC. La recente, ulteriore, svolta in senso moderato e collaborazionista di Bertinotti non è un semplice accodarsi all’Ulivo dettato da esigenze elettoralistiche, come ritualmente si ostinano a denunciare alcuni inconseguenti oppositori interni. L’ultima rottura bertinottiana, preparata dall’apparentemente strano dibattito violenza/no violenza di questa ultima primavera, attiene, consapevolmente, alla messa in mora di quel tanto di istanze anticapitalistiche che dentro ed attraverso il PRC ancora riuscivano ad esprimersi seppure confusamente.)

Infatti proprio il movimento no war (e tutto il corollario delle questioni che ad esso possono ricondursi) rappresenta un banco di prova dove vengono continuamente a maturazione questioni teorico/politiche importanti che attengono all’imprescindibile necessità, per gli interessi storici ed immediati dell’intera umanità, di mettere seriamente in discussione i vigenti rapporti sociali capitalistici.

Ed è proprio l’impossibilità di continuare ad interpretare impunemente il ruolo di “partito di lotta e di governo”, dentro l’incalzare del corso della crisi, dell’accentuata competizione globale internazionale e del palesarsi di nuove forme di resistenze al rullo compressore dell’imperialismo, che spinge Bertinotti verso altri lidi. Qualcuno ipotizza che il PRC già possa assimilarsi, nell’impostazione politica generale e nella pratica concreta, ad una grande Ong. Probabilmente è già così!! Per noi valgono i fatti e quelli degli ultimi mesi ci dimostrano, ampiamente, che l’azione del PRC è stata in sintonia con tutte le manovre messe in campo contro la possibile ed auspicabile estensione e radicalizzazione del movimento di massa. Anche su questo invitiamo i tanti compagni del PRC, delusi da tale inarrestabile deriva, ad un bilancio complessivo della politica di questo partito!! )

Altro elemento da cui non si può prescindere è il ruolo pesantemente ricattatorio che la presenza Cgil fa sentire nelle discussioni del movimento no war su tutte le questioni decisive insieme ai rappresentanti dell’Arci.

Né va sottovalutato il progressivo schierarsi apertamente del Vaticano nelle file di coloro che mettono al primo posto la lotta al terrorismo, con le sue conseguenze dirette ed indirette su quella significativa componente del mondo cattolico che pure è stata protagonista della passate mobilitazioni contro l’aggressione all’Iraq.

Le difficoltà evidenziatesi nella giornata di mobilitazione del 18 settembre non vanno nascoste ma possono essere, serenamente, affrontate da quanti hanno a cuore le sorti e lo sviluppo del movimento. Parimenti vanno valorizzati tutti quei comportamenti (nel corteo di Roma che ha voluto, con determinazione, arrivare fino a Palazzo Chigi o in quello di Napoli dove è stata fatta saltare la sordina politica che la CGIL voleva imporre al corteo) che, nonostante la reale difficoltà della situazione ed i sempre presenti pericoli di criminalizzazione repressiva del movimento (vedi le dichiarazioni di Fini particolarmente aggressive contro i pacifisti), hanno rappresentato l’irriducibile indisponibilità ad appiattirsi sulle istituzioni e sul loro operato.

Il movimento contro la guerra può sottrarsi a questo abbraccio soporifero. Lo può fare recuperando, fino in fondo, la sua autonomia messa oggi in forse da quelle stesse forze che hanno avallato l’aggressione all’Iraq e che vorrebbero indurci all’indifferenza o ad un complice silenzio verso l’azione assassina dell’occidente. Del resto anche la campagna borghese di ipocrita esecrazione antiterroristica, con in testa il Ciampi-nazionale, è costretta a prendere atto della propria debolezza.

Il movimento non è stato ridotto coattivamente al silenzio ed il tentativo di intruppamento attraverso la promozione un clima di unità nazionale, nonostante la grande profusione di mezzi e risorse agitate contro le ragioni della lotta alla guerra infinita del capitale, è, almeno per il momento, sostanzialmente fallita.

Volevano scaraventarci nel cosiddetto scontro di civiltà. Ma il movimento in Italia come altrove non si è arruolato per nessuna moderna crociata contro il mondo islamico. Non l’abbiamo fatto dopo l’11 settembre del 2001 e né lo faremo adesso spinti dall’emozione per la sorte delle due Simona.

Il nostro esempio positivo da ripetere se una situazione identica dovesse verificarsi in Italia - sono i cortei di Madrid e dell’intera Spagna i quali, subito dopo gli attentati alle metropolitane, sottraendosi ai diktat antiterroristici di Aznar, scelsero la prospettiva del protagonismo attivo e della lotta contro il proprio governo ed imposero, con la forza e la rabbia della piazza, il ritiro del contingente militare spagnolo dall’Iraq.

Per questo continuiamo a ritenere che la possibile libertà delle ragazze del Ponte per… potrà realizzarsi se, anche dall’Italia, saranno percepibili, chiaramente, segnali di presa di distanza e di ferma condanna del nostro governo e delle sue politiche di pace e di guerra.

Il ritiro delle truppe italiane (di tutte le truppe!!) senza se e senza ma ed il pieno Diritto di Resistenza e di Autodeterminazione per il popolo irakeno rimangono punti fermi ed irrinunciabili per un movimento contro la guerra che vuole dialogare e gettare ponti di comunicazione e fraternizzazione con le masse oppresse dell’Iraq e dell’intero Medio Oriente e non limitarsi al pur rispettabile (ma politicamente monco ed inconcludente) rifiuto etico dei conflitti bellici.

L’evoluzione dello scontro in Iraq, il lento e costante genocidio contro il popolo palestinese, i preparativi interventistici in Darfur, l’ingarbugliamento della vicenda cecena e nel Caucaso, l’intero arco d’azione del capitale mondializzato a scala planetaria, ci chiamano ad una nuova capacità d’intervento dentro ed oltre il movimento no war. Riaprire canali di comunicazione, ritrovare il senso di una azione comune tra le diverse soggettività della sinistra anticapitalistica e di classe diventa utile ed urgente per contrastare l’attuale offensiva normalizzatrice contro il movimento e preparare, adeguatamente, i prossimi appuntamenti di lotta (la ratifica della Costituzione Europea, il Forum Sociale di Londra.)

Mai come in questo momento è necessario un segnale di autonomia ed uno scatto di protagonismo da parte del movimento, per impedirne il suo definitivo affossamento, prendendo atto, come da più parti segnalato, dell’inadeguatezza delle strutture attraverso cui fino ad ora si è dato espressione.

Diventa sempre più improrogabile il rafforzamento delle ragioni di opposizione etica (in aperta solidarietà con le masse oppresse) contro la guerra legandole alla comprensione e alla denuncia delle ragioni di profitto e di privilegi di classe che ne sono alla base. Il movimento contro la guerra deve riuscire ad intrecciarsi sempre di più con le ragioni di malcontento e di mobilitazione sociale di coloro che subiscono le conseguenze del crescente militarismo e del capitalismo globalizzato.

Proponiamo quindi a quanti, in questi anni, hanno animato il movimento contro la guerra di ritrovarci in un INCONTRO NAZIONALE (possibilmente prima della manifestazione europea di Londra) per delineare, attraverso la necessaria discussione collettiva, un punto politico di fase e riprendere il cammino di una mobilitazione diffusa e generalizzata che molti vorrebbero interrompere o immolare ai tavoli degli accordi politici con Prodi, D’Alema o Montezemolo.

I/le compagni/e di RED LINK

Fonte

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