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Storie sotto occupazione: “Mi dite perché non mi è permesso andare all’ospedale?”

(25 Febbraio 2013)

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Gaza – Pchr. “Ero al quinto mese di gravidanza in attesa di mio figlio quando notai che qualcosa stava crescendo nel mio braccio destro. Andai all’ospedale e una parte venne rimossa e analizzata. Si rivelò essere cancro”, racconta Sabreen Okal, 27 anni, seduta su uno sgabello di plastica nella sua modesta abitazione nel campo profughi di Jabaliya. Sabreen è madre di 4 bambine e di un bimbo.

Il racconto continua: “Il tumore venne rimosso dal braccio chirurgicamente, dopodiché dovetti subire sei trattamenti chemioterapici. Durante il trattamento stetti molto male, per 10 giorni non riuscii a mangiare nulla. Ancora adesso non riesco a usare completamente il braccio destro poiché i nervi attorno alla ferita sono ancora in fase di guarigione”.

Nonostante il trattamento il tumore si riformò e, lo scorso ottobre, Sabreen si sottopose a un nuovo intervento chirurgico per estrarlo. “Il mio medico mi disse che avrei avuto bisogno di sottopormi a radioterapia presso un ospedale specializzato di Gerusalemme, spiegandomi che, altrimenti, il tumore si sarebbe diffuso. Egli preparò quindi la necessaria documentazione per un appuntamento presso l’ospedale di Gerusalemme il 20 dicembre”.

Per raggiungere l’ospedale di Gerusalemme da Gaza, Sabreen e sua suocera che l’accompagnava avrebbero dovuto attraversare il valico di Erez, controllato da Israele. “Mi fu detto che, secondo la procedura standard, avrei dovuto avere un colloquio con i servizi di intelligence israeliani, prima di passare il confine. Giunta a Erez, il 20 dicembre, prima mi fecero aspettare tre ore in una sala d’attesa; poi mi interrogarono su questioni che non avevano niente a che vedere con la mia malattia: mi chiesero se mio marito era affiliato a Hamas. Quindi mi fecero aspettare altre tre ore in una stanzetta, per poi rimandarmi a casa. Non mi permisero di andare all’ospedale, e non capisco perché”.

Il 7 gennaio il Pchr inviò una lettera alle autorità israeliane in servizio presso il valico di Erez, chiedendo che la domanda di Sabreen venisse riconsiderata. Due settimane dopo i funzionari di frontiera risposero, dicendo che avrebbero guardato la documentazione di Sabreen. Ad oggi, Sabreen non ha ottenuto il permesso di valicare il confine per recarsi all’ospedale.

È impossibile, per Sabreem, capire perché le sia negato l’accesso a cure mediche salva-vita: “Per sopravvivere ho bisogno della radioterapia, ma tale trattamento mi è negato. Mi dite perché non mi è permesso andare all’ospedale? Indipendentemente dalla mia nazionalità e dalla mia religione, dovrei essere considerata un essere umano, un paziente che ha bisogno di cure. Il cancro può venire a tutti. Se il militare che mi impedisce di passare il confine, o un suo parente, avessero il cancro, non perderebbero un minuto prima di agire. Io sto aspettando da due mesi”.

Nell’attesa, Sabreen sente il tumore crescere. “Mi fa male il braccio. Sento che il mio corpo non è più come prima”. Mostrando una protuberanza sulla sua mano, aggiunge: “Sento che il cancro sta crescendo qui. Questa malattia è pericolosa, non posso aspettare, si sa a cosa vado incontro. Chi si occuperà dei miei figli, chi li farà crescere?”

Mentre i giorni passano, la disperazione di Sabreen aumenta. “Mi sento psicologicamente esausta. Tutto ciò che mi hanno detto è che devo aspettare. Ma quanto a lungo? Ciò è disumano. Temo che mi succederà qualcosa”. Dopo aver provato il pericolo del cancro in passato, Sabreen è preoccupata per ciò che le potrebbe accadere. Suo fratello è morto, per un tumore, a 17 anni.

A causa della sua difficile situazione economica, Sabreen non può permettersi di andare all’estero, ad esempio in Egitto, per ottenere il trattamento di cui ha bisogno. “Mio marito è operaio edile, il suo salario è insufficiente e incerto. Non abbiamo denaro per niente. Le stanze di casa nostra sono vuote, dai soffitti filtra l’acqua e il frigorifero ci è stato regalato da un’organizzazione di beneficenza. L’ospedale di Gerusalemme è la mia unica possibilità”.

Quando due delle sue bambine (Raghad, 9 anni, e Malak, 6 anni) arrivano a casa da scuola, Sabreen racconta con orgoglio materno quanto siano brave a scuola. “Gli insegnanti mi dicono sempre che sono tanto intelligenti: vanno bene in tutte le materie e mi rendono molto orgogliosa. Cominciarono a dire le prime parole quando avevano 9 mesi”.

Sabreen cerca di proteggere i suoi figli dalla dura realtà della sua malattia. “Provo a vivere normalmente e dico alle mie figlie che non sono malata. Un giorno mia figlia Malak, di 6 anni, tornò a casa da scuola in lacrime. Qualcuno le aveva detto che ho il cancro e che avrei bisogno di andare a Gerusalemme per il trattamento. Lei me lo chiede ancora, ma io rispondo che sto bene. I miei bambini sono troppo piccoli per capire cos’è il cancro”.

“Prego Dio di darci pazienza, e di restituirci le nostre vite. Voglio vivere normalmente, e far poter crescere i miei figli”.

Da giugno 2007, quando il blocco di Gaza divenne pressoché totale, 64 pazienti sono morti a causa della possibilità negata di lasciare Gaza per motivi di salute, o per la mancanza di medicinali a Gaza, collegata al blocco stesso. Tra le persone decedute si contano 18 donne e 16 bambini. Su base annuale il Pchr assiste una media di 23 pazienti nella richiesta di permesso di viaggio, affrontando molti ritardi, rifiuti e altri ostacoli.

In quanto potenza occupante, Israele ha l’obbligo, in base all’articolo 12 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, di riconoscere il diritto di ognuno “ai più alti standard di salute fisica e mentale”. Come conseguenza del blocco continuo della Striscia di Gaza, il sistema sanitario locale soffre di carenze croniche nelle forniture mediche e nelle strutture preposte alle cure. Il blocco imposto da Israele corrisponde a una forma di punizione collettiva, che vìola l’articolo 33 della Quarta convenzione di Ginevra. Esso, inoltre, infliggendo grandi sofferenze alla popolazione civile, equivale a un crimine di guerra la cui responsabilità penale ricade sulla leadership politica e militare israeliana.

Traduzione per InfoPal a cura di Stefano Di Felice

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