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Ricordando Stefano Chiarini

Ricordando Stefano Chiarini

(6 Febbraio 2007) Enzo Apicella
E' morto Stefano Chiarini, un giornalista, un compagno,un amico dei popoli in lotta

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(Memoria e progetto)

Gerd Conradt, Starbuck. Il corpo come arma.

Vita e morte di Holger Meins,
Zambon, Francoforte, 2012. Fotolibro, pp. 184. € 20.

(27 Febbraio 2013)

Starbuck è il nome del nostromo del Pequod, la nave del Moby Dick di Melville. Ma era anche il nome di battaglia di Holger Meins, lasciato morire di inedia il 9 novembre 1974, nel carcere di Wittlich, dove era detenuto per «terrorismo» dal giugno 1972. Holger Meins era un artista, si occupava di pittura, fotografia e cinema. Come mai finì, o meglio come mai fu gettato nel «terrorismo»?

Ci dà una risposta il libro in cui Gerd Conradt raccoglie numerose testimonianze di familiari, compagni e amici di Holger che ci offrono una panoramica intellettual-politica e artistica degli anni Sessanta e Settanta in Germania, ravvivata con le immagini proposte da Fabio Biasio, tra cui le copertine di «Ottocentottantatre», giornale di Agitazione e politica socialista.

Il libro descrive una generazione nata durante la guerra, che aveva alle spalle il nazismo. Era poi cresciuta nella Repubblica Federale negli anni della ricostruzione, in cui dominava la pace sociale, dettata dalla logica «lavora, produci, crepa». E non appena fu messa in discussione, fu subito ristabilita, grazie ai flussi migratori di lavoratori italiani e di altri Paesi mediterranei. Il clima politico era surreale, in un Paese che era al centro dello scontro tra il mondo libero (che non era libero) e il mondo socialista (che non era socialista).

A metà degli anni Sessanta, il clima mutò nella Germania Ovest come in altri Paesi europei, in Giappone e anche negli Usa. Dopo anni di sacrifici, i frutti si vedevano nell’accresciuto benessere, che tuttavia non solo lasciava spazio a forti sacche di ineguaglianza sociale, ma lasciava in piedi istituzioni e comportamenti che favorivano quelle ineguaglianze, per esempio la scuola o, peggio, i residui di apartheid negli Usa. Questo in Occidente. Nei paesi «poveri», le ineguaglianze erano diventate esplosive; in Algeria, in Palestina, in Vietnam … le masse popolari avevano alzato la testa. Balzavano alla ribalta i vizi e i difetti di un sistema, quello capitalista, che si reggeva con bombardamenti e stragi. Mentre il paradiso socialista, dopo le rivolte operaie di Berlino (1953) e Budapest (1956), si rivelava un inferno. L’alternativa sembrò essere il maoismo, allora ai ferri corti con i «revisionisti» sovietici. Tutte le fonti di malessere, vicine e lontane, contribuivano ad accendere le agitazioni sociali che, nel Sessantotto, investirono in particolare la Francia, l’Italia e la Germania. Ebbero tuttavia caratteristiche diverse: in Francia e in Italia la presenza operaia fu determinante, nella Germania Federale assai meno.

La Germania (dell’Ovest come dell’Est) era vissuta in un limbo. Con gli orrori del nazismo, erano state rimosse anche le tradizioni intellettuali e politiche, che tanto timore avevano suscitato nella borghesia tedesca e, a ben vedere, in tutta quella mondiale. E se nella politica la rinascita fu lenta e incerta, altrettanto lo fu nella cultura, soprattutto in campo artistico, anche perché, dopo gli incendi di Göbels, i libri fu possibile ristamparli … i quadri no.

Mancando precisi riferimenti, l’attenzione si rivolse a quanto avveniva in altri Paesi. Sicuramente, svolse un ruolo significativo l’Internazionale Situazionista, che fondeva arte e politica. La provocazione divenne una pratica giocosa. Ma il gioco non fu gradito ai vertici dell’Unione socialista studentesca tedesca (Sds, Sozialistische Deutsche Studentenbund), in cui molti giovani contestatori militavano. E per il quieto vivere socialdemocratico, l’Sds li espulse. Ma quella «pratica giocosa» fu ancor meno gradita da padroni e istituzioni. E il gioco si fece duro. La repressione fu subito inesorabile, senza esclusione di colpi. Polizia e magistratura, con la copertura del governo socialdemocratico, ricorsero a montature, in cui cadde Holger e, sicuramente, altri «sovversivi». In tali circostanze, per molti, fu inevitabile il passaggio alla lotta armata. Era una questione di sopravvivenza.

La Rote Armee Fraktion (Raf, Frazione Armata Rossa) nacque in quei frangenti eccezionali che, inevitabilmente, ridussero la riflessione politica alla necessità immediata di rispondere alla reazione statale. La stessa caratterizzazione politica della Raf era assai incerta, fu definita anarchica, ma erano presenti suggestioni maoiste e guevariste. Questa confusa collocazione favorì la repressione che, subito, depoliticizzò lo scontro e lo personalizzò, parlando di «banda Baader-Meinhof», dai nomi dei due più noti esponenti, Andreas Baader e Ulrike Meinhof, assassinata il 9 maggio 1974 nel carcere speciale di Stammheim-Stoccarda, dove il 18 ottobre 1977 furono poi assassinati Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe. La responsabilità morale, se non diretta, degli assassinii è della socialdemocrazia di Willy Brandt e Helmut Schmidt, cancellieri dal 1969 al 1982.

Nel giro di pochi anni, l’opposizione «armata» fu annientata; quella «disarmata» soffocò ogni velleità di radicalismo politico. Contemporaneamente, nelle fabbriche e in ogni altro settore lavorativo, dilagava un flusso migratorio senza precedenti, che avrebbe assicurato la pace sociale per altri vent’anni. Poi, a mantenerla, ci sarebbe stata l’unificazione (1989), con la perequazione al basso di salari e condizioni di vita e di lavoro. Il risultato è che oggi la Germania è l’unica potenza capitalista in grado di fronteggiare la crisi economica. Ma a quale prezzo? Fuori, dilagano disastri economici, dentro, crescono tensioni sociali.

Milano, febbraio 2013

Dino Erba

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