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(23 Febbraio 2010) Enzo Apicella
Il logo della campagna di tesseramento del prc 2010 è una scarpa col tacco a spillo

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BERTI-NOT IN MY NAME

(25 Settembre 2004)

Perché non è in mio nome che ci si adegua alla guerra se lo vuole una “maggioranza”
Perché non è in mio nome che si possono tagliare ancora le pensioni
Perché non è in mio nome che si irridono i comunisti
Perché non è in mio nome che si disprezzano i compagni
Perché non è in mio nome che si è disposti a tutto per il potere


La necessità di scrivere questo intervento è stata avvertita nei giorni immediatamente successivi alle polemiche innescate dal cosiddetto “caso D’Erme”, ma gli eventi delle settimane successive - fino alle esternazioni ferragostane di Fausto Bertinotti ed alle prime reazioni – mi hanno costretto spesso a tornarci sopra. In realtà, sono convinto che altri fuochi d’artificio verranno lanciati dai pirotecnici di Viale del Policlinico, ma di materiale utile a chiarirsi le idee ne abbiamo già in abbondanza.

1 – Le lezioni del “caso D’Erme”.

Le implicazioni della vicenda che hanno visto protagonista il Disobbediente Nunzio D’Erme vanno ben oltre la discussione sul metodo di attribuzione dei seggi al Parlamento Europeo adottato dalla segreteria nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea. Tuttavia, si può partire con un ragionamento su quel metodo, ragionamento non inutile per illuminare l’accelerazione della svolta politica operata dal PRC.
Anche se pochi hanno voluto rimarcarlo, il problema è nato dalla decisione di Fausto Bertinotti di candidarsi come capolista in tutte e cinque le circoscrizioni elettorali italiane, unico leader non di destra a seguire l’esempio di Berlusconi, Bossi e Fini, a loro volta capilista ovunque. Le motivazioni della mossa di Bertinotti risiedono nella volontà di condizionare l’accesso al Parlamento Europeo dei candidati, attraverso la scelta del capolista onnipresente, sicuramente primo degli eletti, per questa o quella circoscrizione. E’ esattamente quello che è avvenuto: Bertinotti (unico eletto del PRC in tutte e cinque le circoscrizioni) ha optato per la circoscrizione Sicilia – Sardegna, determinando l’elezione dei secondi arrivati nelle altre quattro circoscrizioni: Agnoletto (Nord Ovest), Musacchio (Nord Est), Morgantini (Centro) e Vendola (Sud). Tutto questo, naturalmente, prima che un provvedimento della Corte di Cassazione rimescolasse le carte, escludendo Vendola e conferendo il seggio a Strasburgo a Giusto Catania; anche questo colpo di scena è riconducibile alla scelta bertinottiana di capeggiare tutte le liste, ma questo aspetto al momento non ci interessa.
Formalmente, quella di Bertinotti riguardo a D’Erme è stata una decisione ineccepibile, ma la realtà politica non è riconducibile ad una banale formalità, tantopiù in presenza di un’anomalia originaria, quale quella di un condottiero capolista onnipresente, che per la destra sarà pure una cosa normale ma che a “sinistra” lascia un po’ perplessi.
La realtà politica, in questo caso, è costituita dal fatto che Bertinotti ha deciso di sbarrare l’ingresso al Parlamento Europeo a Nunzio D’Erme, risultato secondo dei non eletti nella circoscrizione centrale con oltre 23.000 preferenze, subito dietro Luisa Morgantini, che risultava peraltro a sua volta prima dei non eletti anche in Sicilia e Sardegna.
Nulla impediva a Bertinotti di optare per una circoscrizione diversa da quella Sicilia – Sardegna, e infatti esistevano almeno altre due possibilità: optare per il Nord Est o per il Sud, ferma restando l’elezione degli indipendenti Agnoletto e Morgantini. Nel primo caso, a farne le spese sarebbe stato Roberto Musacchio, oscuro funzionario romano designato preventivamente alla carica di Capogruppo a Strasburgo; nel secondo caso, non sarebbe stato eletto Nichi Vendola, già deputato di lungo corso al Parlamento italiano.
Se le motivazioni per l’elezione di Vendola appaiono piuttosto solide (anche viste le quasi 40.000 preferenze personali ottenute), quelle di Musacchio lo sono molto meno: se si esclude la ragion di partito, non si vede un solo motivo in base al quale il funzionario romano – paracadutato d’autorità nel Nord Est, dove infatti ha capitalizzato la miseria di 7.000 preferenze, nonostante i diktat alle locali Federazioni – avrebbe dovuto essere preferito ad un notissimo esponente di quel “movimento” con il quale il PRC avrebbe stabilito un rapporto addirittura “strategico” sin da prima di Seattle. Non a caso, crediamo, i dirigenti del PRC si sono affannati in tutta Italia per far passare l’idea che l’elezione di D’Erme avrebbe comportato l’esclusione di Vendola, dando per scontata quella di Musacchio, la cui permanenza nei corridoi della Direzione del PRC non avrebbe, invece, causato alcun trauma politico.


Il narcisismo politico di Bertinotti e gli appetiti del funzionariato del PRC non sono però sufficienti a spiegare una rottura clamorosa come quella determinata dal “caso D’Erme”, rottura prevedibilissima e, dunque, voluta dai vertici del PRC, se non altro perché non hanno fatto nulla per evitarla. Probabilmente, queste motivazioni vengono da lontano, perlomeno da quando Bertinotti – più o meno un anno fa – scoprì le carte, annunciando la propria volontà di addivenire ad un accordo di governo con le forze di quel centrosinistra precedentemente definito “una gabbia”, successivamente dato per deceduto ma poi inopinatamente rivelatosi in ottima salute e perfino trasfigurato rispetto a quello con cui il medesimo Bertinotti aveva rotto nel non lontanissimo 1998 e decretato l’impossibilità di accordi nell’ancora più vicino 2001.
La serietà delle intenzioni governiste di Bertinotti era evidente già dopo il referendum per l’estensione dell’art. 18, il cui catastrofico fallimento fu in buona parte dovuto al boicottaggio operato proprio dai futuri alleati di governo del PRC, che invitarono ad andarsene craxianamente al mare; ebbene, anziché proporsi come un’alternativa al fronte antireferendario, Bertinotti mise la mordacchia ad ogni polemica ed accentuò la propria disponibilità verso quelli che avevano contribuito a lasciare senza tutele e diritti alcuni milioni di lavoratori e lavoratrici.
Fra l’autunno e l’inverno scorsi, non è sfuggita a nessuno la sintonia fra la professione di fede nonviolenta di Bertinotti e le ripetute condanne delle “manifestazioni violente” da parte dei massimi esponenti del redivivo centrosinistra, condanne che hanno accompagnato tutte le manifestazioni del movimento contro la guerra, manifestazioni in cui di violenza, per la verità, non se ne è vista molta, a meno di non prendere sul serio le farneticazioni di Feltri e Belpietro (ma anche di Rutelli e Fassino, ad onor del vero). Di più, dobbiamo ricordare come Bertinotti si sia spinto a condannare pubblicamente anche gesti che di violento non avevano nulla, come il famoso episodio del letame scaricato sull’uscio di casa Berlusconi proprio da Nunzio D’Erme (che per questo gesto si è visto ritirare dal sindaco Veltroni, con l’assenso di Bertinotti, la delega al bilancio partecipato) o quello della conferenza stampa prima della visita di Bush a Roma, in cui due Disobbedienti si presentarono indossando due cappucci simili a quelli degli iracheni torturati ad Abu Ghraib, trasformati dalla stampa di destra – e da Bertinotti – in improbabili passamontagna anni 70. Insomma, il fatto che Bertinotti si stesse accreditando presso il centrosinistra come partner affidabile, anche a spese di quei settori di movimento prima vezzeggiati, era palese ben prima dell’esplosione del “caso D’Erme”.

2 – La lunga marcia di Bertinotti.

Il “caso D’Erme”, dunque, non è stato altro che un punto di passaggio della strategia bertinottiana di avvicinamento ai salotti buoni del prossimo governo. Un altro e ben più grave passaggio è quello che si è consumato con il comportamento politico adottato dal PRC nei confronti della questione palestinese dall’inizio della seconda Intifada e, più in generale, sulle questioni internazionali più “sensibili”.
La centralità della lotta contro il colonialismo sionista e per l’affermazione dei legittimi diritti del popolo palestinese è da almeno un quarantennio parte integrante e costitutiva del DNA di ogni organizzazione o movimento non solo comunisti, ma anche democratici e progressisti, particolarmente in Italia, paese geopoliticamente e culturalmente legato al mondo arabo; vale la pena di ricordare che dalla metà degli anni 60 sia i gruppi della sinistra rivoluzionaria che il PCI (ma anche importanti settori del mondo cattolico) non hanno mai fatto mancare la propria solidarietà al popolo palestinese, distinguendo nettamente il popolo ebraico dalla politica criminale dello Stato di Israele e dall’ideologia sionista, condannata come razzista anche dall’ONU.
Dopo il disvelamento della truffa degli “accordi di Oslo” e l’inizio della seconda Intifada, tutte le iniziative costruite in Italia in solidarietà al popolo palestinese sono avvenute senza o addirittura contro la maggioranza del Partito della Rifondazione Comunista, mentre hanno visto la partecipazione attiva di ampi settori di movimento e di forze politiche della sinistra, quali i Verdi, il PdCI e la sinistra DS (oltre, naturalmente, le aree critiche del PRC). La prima grande manifestazione nazionale contro l’occupazione israeliana, il 9 marzo 2002, venne occultata dal vertice e dal giornale del PRC fino a pochissimi giorni dal suo svolgimento, quando l’imponenza delle adesioni (anche interne al PRC) costrinse il vertice del partito a dichiarare la propria adesione; le manifestazioni successive, invece, sono state tutte caratterizzate dalle polemiche innescate dai dirigenti bertinottiani contro gli organizzatori, definiti spesso “antisemiti”, sulla stessa lunghezza d’onda della martellante propaganda sionista che, in tutto il mondo, tenta di paralizzare la crescita della solidarietà con il popolo palestinese qualificando come “antisemiti” gli avversari e i critici della politica e dello Stato di Israele. Propaganda sionista che trova ripetitori zelanti anche nella “sinistra” italiana, a partire da quel Fassino, segretario nazionale dei DS e co-fondatore del movimento “Sinistra per Israele”, che è sponsor indispensabile per l’ingresso di Bertinotti nell’area del futuro governo ulivista.
Bertinotti getta definitivamente la maschera nel corso del Comitato Politico Nazionale della fine di ottobre 2003, quando – pochi giorni prima di una nuova manifestazione nazionale, questa volta contro il Muro dell’Apartheid – vota contro (insieme alla maggioranza del partito) la partecipazione alla manifestazione, con motivazioni talmente ridicole e pretestuose da provocare l’indignazione di Joseph Halevi e di molti altri intellettuali, nonché il vistoso dissenso di molti dirigenti dello stesso PRC, che sfilano in testa alla manifestazione.
Oltre che sulla Palestina, Bertinotti e i suoi accentuano la loro vicinanza al centrosinistra (e non solo) su un’altra parte del mondo cara alla sinistra: Cuba.
Nella primavera 2003, Bertinotti si affianca ai DS ed agli altri nemici di Cuba, con il pretesto della fucilazione di tre “dissidenti” – in realtà, terroristi al soldo degli USA – e della opposizione alla pena di morte. Naturalmente, nessuno difende la pena di morte, nemmeno se ad applicarla è un piccolo Stato sottoposto all’assedio quarantennale della sola superpotenza mondiale, ma a molti non va di partecipare alla canea montata contro Cuba e Fidel Castro; fra questi, il compagno Fulvio Grimaldi, che viene licenziato in tronco dal giornale del PRC in quanto colpevole di aver scritto un articolo su Cuba non in linea con il Bertinottipensiero.
Infine, notiamo come il PRC sia stato il partito politico più impegnato contro la guerra all’Iraq, ma con un’ambiguità di fondo che agli osservatori più attenti non è sfuggita. Da una parte, infatti, Bertinotti chiama alla mobilitazione contro la guerra, mentre dall’altra intrattiene ottime relazioni con il sedicente Partito Comunista Irakeno, una delle organizzazioni collaborazioniste che hanno fatto parte della corte di Paul Bremer, il gauleiter americano a Baghdad. Non solo: in nome della nonviolenza e di altre imprecisate priorità, esponenti del PRC hanno espresso una condanna aperta delle azioni della resistenza irakena, spesso e volentieri etichettata come “terrorismo” tout court, come del resto avviene da anni con la resistenza palestinese. Negli interventi pubblicati da Liberazione nell’ambito del dibattito sulla nonviolenza, autorevoli dirigenti del partito si sono spinti a definire “fascismo arabo” componenti della resistenza irachena.
Le posizioni sconcertanti su Palestina, Iraq e Cuba vanno di pari passo con quelle sulla nonviolenza assoluta e sulla revisione del giudizio sulla Resistenza italiana, che avvicinano notevolmente il Bertinotti di oggi al Violante dei “ragazzi di Salò”: tutto questo – che precede e anticipa il “caso D’Erme - non può essere casuale. Si tratta, in tutta evidenza, delle tappe di un percorso che ha come obiettivo l’approdo del PRC al governo del Paese, previo assenso dei poteri forti interni (Confindustria, Bankitalia e lobby varie) e internazionali, USA e Israele in primo luogo. In questo contesto, persino i Disobbedienti – che pure hanno condiviso molto del percorso bertinottiano – sono diventati un ostacolo, come altri prima di loro e come, presumibilmente, altri ancora lo diverranno.
Per sedersi e far sedere i propri amici sulle ambite poltrone ministeriali, Bertinotti deve liquidare ogni rapporto con il conflitto sociale e l’opposizione all’imperialismo, facendosi egli stesso garante della normalizzazione, riproducendo – a distanza di anni e in forma inevitabilmente caricaturale – il percorso che portò prima allo snaturamento e poi allo scioglimento del vecchio PCI.

3 – Un partito di troppo.

L’altro aspetto caratterizzante il tortuoso ma lucido percorso bertinottiano è infatti costituito dalla destrutturazione del partito, inteso come strumento di partecipazione collettiva e organizzata: il contrasto stridente fra la crescita del consenso elettorale e la diminuzione costante degli iscritti è la cartina di tornasole di una strategia che ha freddamente puntato alla trasformazione del partito in comitato elettorale, se non proprio in comitato d’affari. La “militanza” – che vuol dire partecipazione – nel partito è ridotta al lumicino, al punto che ormai vengono appaltate all’esterno la maggior parte di quelle funzioni che rappresentavano la materialità del fare politica attiva: dalla vigilanza alla Festa di Liberazione agli attacchinaggi, il PRC ricorre all’outsourcing, esattamente come avviene per i servizi pubblici di quegli enti locali in cui governa insieme al centrosinistra.
Naturalmente, l’esternalizzazione di alcune attività non è il solo aspetto della destrutturazione del partito; la parte più cospicua di questo progetto – ormai ampiamente consolidato – è quella che riguarda l’annientamento di qualsivoglia forma di partecipazione alla formazione delle decisioni e della linea politica da parte della “base”, o meglio di quel che ne resta. Il caso della cosiddetta “Sinistra Europea” ha del clamoroso: senza alcuna consultazione e senza alcun dibattito che coinvolgesse gli iscritti, il PRC ha cambiato nome e simbolo, operazione che Achille Occhetto mise in atto salvando almeno le forme, cioè a seguito di un congresso del suo partito.
Operazioni così brutali possono avvenire solo a condizione che si distrugga preventivamente ogni forma di partecipazione e si concentri il potere decisionale in poche persone, meglio ancora se legate al partito da rapporti di dipendenza, vuoi perché funzionari stipendiati (il PRC ha un apparato elefantiaco, se rapportato alle sue dimensioni), vuoi perché inseriti nelle rappresentanze istituzionali e nei consigli di amministrazione delle aziende municipalizzate in virtù delle quote spettanti al partito nell’ambito delle lottizzazioni fra i partiti di maggioranza. Inoltre, sono stati messi in condizione di non nuocere quasi tutti i compagni e le compagne indisponibili alla mutazione genetica del PRC, da partito che doveva rifondare un pensiero ed una pratica comunisti ad una riedizione del PSI di Craxi (che, per chi se lo ricorda, era un altro grande “movimentista”); è stato un lavoro lungo, in parte ancora da portare a termine, ma che ha già raggiunto risultati significativi.
Gli amici di Bertinotti hanno ormai il pieno controllo del partito, mentre le cosiddette aree critiche non riescono ad opporsi efficacemente, frantumate come sono: l’ultimo Comitato Politico Nazionale del partito ha visto la presentazione di sei documenti diversi, prefigurazione di quello che potrebbe avvenire nel prossimo congresso. Come è avvenuto al CPN - e come avviene ormai da tempo – al congresso Bertinotti potrà far valere la sua risicata maggioranza per relegare definitivamente ad un ruolo di testimonianza ideologica i neotogliattiani de L’Ernesto, la minoranza di sinistra di Ferrando e le altre, mentre il generoso tentativo degli autoconvocati non è riuscito a mobilitare le residue energie presenti (ma fino a quando?) nel partito. Qualora, poi, avvertissero il rischio di finire nonostante tutto in minoranza, gli amici di Bertinotti hanno già mostrato una notevole capacità di portare al voto congressuale interi pacchetti di tessere, i ben noti “cammelli” sconosciuti alla politica attiva che compaiono solo al momento del voto nei congressi di circolo.


Il “caso D’Erme”, quindi, aldilà di ogni considerazione sul movimento dei Disobbedienti, ha avuto il merito di aver aperto gli occhi a migliaia di persone che, fino a pochissimo tempo prima, dentro e fuori il partito, consideravano il PRC di Bertinotti un punto di riferimento credibile e affidabile per i movimenti alternativi e antagonisti. In realtà, prima e dopo la vicenda dei Disobbedienti, gli esempi dello spregiudicato decisionismo dei bertinottiani sono molti: da ultimo, l’incredibile commissariamento dell’intero partito calabrese, la cui colpa vera non è quella della “rissosità”, ma quella di non esprimere una salda maggioranza fedele al segretario nazionale. Se il problema fosse veramente quello della “rissosità” e della paralisi interna, la Federazione romana – per dire - avrebbe dovuto essere commissariata da tempo: basti ricordare che il CPF di Roma si riunisce quasi sempre senza il numero legale, che un circolo è commissariato da più di un anno e mezzo, che non si è riusciti nemmeno a sostituire i compagni della Direzione romana dimessisi o deceduti, che in segreteria siedono figuri – indegni anche di essere menzionati - dediti abitualmente alla minaccia e all’intimidazione verso compagni e (soprattutto) compagne, che è stato fatto approvare il bilancio senza nemmeno averlo fatto leggere ai membri del CPF e – tanto per chiuderla qui – che nell’arco di un anno il PRC romano ha perso un Consigliere municipale in V (passato alla Lista Veltroni), i gruppi municipali in III e XI (Disobbedienti), un Consigliere comunale (D’Erme) e un Consigliere provinciale (Terenzi), iscrittosi al Gruppo Misto… ma, poiché la segreteria romana è saldamente fedele alla linea, tutto va bene, madama la Marchesa.
Ma la vicenda delle epurazioni nei confronti dell’area de L’Ernesto merita un approfondimento. Allo stato attuale, oltre al già citato commissariamento dell’intera regione Calabria, L’Ernesto si è visto colpito nelle persone dei dirigenti nazionali Luigi Pegolo e Beatrice Giavazzi, stalinianamente indicati come responsabili del pateracchio avvenuto sempre in relazione alla nomina dei deputati europei; in sostanza, un ritardo nella comunicazione delle decisioni del capolista unico Bertinotti ha provocato l’intervento della Corte di Cassazione, che ha proceduto ad un sorteggio dal quale è uscito nominato, al posto di Nichi Vendola, il siciliano Giusto Catania.
Naturalmente, anziché avviare una riflessione sulla scelta sciagurata di imporre un capolista unico, la segreteria nazionale ha colto la palla al balzo per infliggere un altro colpo all’area de L’Ernesto, cui appartengono Pegolo e Giavazzi. Tutto lascia credere che l’epurazione sia solo all’inizio, e giustamente sia il leader dell’area, Claudio Grassi, che altri dirigenti parlano ormai apertamente di deriva autoritaria del partito. E’ assolutamente ovvio che quella contro L’Ernesto sia un’operazione interna alla normalizzazione del PRC e che, come tale, vada denunciata e contrastata (il che, fra l’altro, rende incomprensibile l’astensione degli esponenti della minoranza di sinistra in Direzione Nazionale sulla vicenda calabrese); è altrettanto ovvio, però, che molti degli stessi esponenti de L’Ernesto che ora si inalberano contro la “deriva autoritaria” del partito, fino a ieri sono stati semplicemente complici di quella “deriva”… fino a quando, cioè, i bertinottiani e i loro ascari ex B.R. (nel senso di Bandiera Rossa, ovviamente) se la prendevano con altri compagni. Non è il caso di dimenticare che alcune delle peggiori nefandezze della Federazione Romana, per esempio, sono state sostenute da molti autorevoli e conosciuti esponenti de L’Ernesto, che ora si stracciano le vesti per la deriva autoritaria e revisionista di Bertinotti, esattamente come il pastore protestante Martin Niemoller.

4 – Molto rumore per…

Come tutti i golpe, l’ultima e definitiva svolta di Bertinotti si compie in piena estate, nei giorni di Ferragosto. Con il solito sistema delle interviste, Bertinotti comunica che è pronto ad accettare anche la continuazione della guerra, purché sotto le insegne dell’ONU e dopo un pronunciamento “democratico” del “popolo di sinistra”, che dovrebbe avvenire attraverso elezioni primarie sul programma della coalizione. Signorilmente, Bertinotti fa sapere di non essere interessato alle modalità tecniche della consultazione, tanto è la stessa cosa se votano tutti, oppure solo gli iscritti ai partiti, oppure anche quelli delle associazioni o solo i loro “rappresentanti”. L’importante, per Bertinotti, è che il potere decisionale torni al “popolo”, sin qui espropriatone dalle segreterie dei partiti.
Lo confesso: le esternazioni ferragostane di Bertinotti sono talmente strampalate e sconclusionate che trovo difficoltà a controbatterle con argomenti politicamente razionali. Come si fa, infatti, a prendere sul serio qualcuno che ti dice che chi e come vota un programma politico è un fatto “tecnico”?
Esempio: chi sarebbero i rappresentanti di quel “movimento” che, secondo Bertinotti, potrebbero essere chiamati al voto nelle primarie sul programma? I dirigenti dell’ARCI, probabilmente, i quali farebbero giustamente pesare nella consultazione le loro centinaia di migliaia di iscritti ai circoli affiliati. Problema: io sono uno di quegli iscritti, anzi ne sono quattro o cinque, perché ho le tessere di alcuni locali dove, per bere una birra, bisogna iscriversi perché le attività sono riservate agli iscritti (e così si pagano meno tasse e si azzerano i problemi di licenze e autorizzazioni); questi locali sono circoli ARCI, dunque io sono ripetutamente iscritto all’ARCI e, a buon diritto, i miei “rappresentanti” voterebbero un programma di governo anche a mio nome, anzi lo farebbero quattro o cinque volte. Naturalmente, nessuno si sognerebbe di consultarmi, anche perché il mio contributo associativo non è mai andato oltre quelle tessere indispensabili per bere una birra o mangiare un panino. Suppongo che gli iscritti all’ARCI (o ad altre associazioni simili) nelle mie condizioni siano tanti, visto l’affollamento dei locali; far pesare questo tipo di affiliazioni nella conta dei voti su un programma non mi sembra una grande prova di democrazia.
A parte queste questioni “tecniche” (come dice Bertinotti), in ballo c’è la consistenza delle opzioni politiche dei comunisti; in altre parole, il NO alla guerra imperialista è una discriminante di fondo, rispetto alla quale o si sta da una parte o si sta dall’altra. Tertium non datur. Sulle scelte politiche di fondo, non c’è vincolo di maggioranza che tenga; poiché è di guerra imperialista che stiamo parlando, non è inappropriato il paragone con gli antifascisti che – per adeguarsi alla volontà della maggioranza – nel 1936 non avrebbero dovuto denunciare l’aggressione italiana all’Etiopia, visto che la stragrande maggioranza degli italiani approvava entusiasticamente il Duce e l’Impero.
Per quanto possano apparire insensate, le esternazioni di Bertinotti sono invece la conferma della profonda saggezza del Poeta che osserva: “C’è del metodo in questa follia”.
Sfrondato dalle ridondanze dialettiche e dal folklore demagogico, il percorso intrapreso da Bertinotti dirige verso un obiettivo che più preciso non potrebbe essere: l’integrazione del PRC nell’alveo dello schieramento di centrosinistra, nel ruolo di garante della compatibilità del “movimento” con i futuri scenari governativi, scenari nei quali Bertinotti incardina il partito (stavolta si) “senza se e senza ma”. Tutto ciò con la rifondazione comunista non ha più nulla a che vedere e lo stesso Bertinotti si è premurato di aprire la strada all’ennesima torsione revisionista, liquidando – nell’ordine – Lenin e Gramsci, lo stesso Marx, la Resistenza e, con l’approdo strumentale alla nonviolenza assoluta, l’idea stessa di conflitto di classe.
Sul piano della politica concreta, questo passaggio si è tradotto in una serie di scelte che, partendo proprio dalla dissociazione del PRC dalla solidarietà attiva con la lotta di liberazione palestinese, ha visto l’abbandono (nei fatti e nella pratica, se non a chiacchiere), di ogni opzione avversa a quelle del centrosinistra moderato: oltre alle 35 ore, nel dimenticatoio sono finiti l’opposizione alle riforme della Costituzione in senso federalista, l’iniziativa per una legge elettorale proporzionale (lasciata, questa, ai centristi della Casa delle Libertà!), la battaglia coerente e determinata contro le leggi e la cultura stessa dell’emergenza, come – da ultimo – hanno testimoniato le scarne dichiarazioni di Bertinotti sulla vicenda dell’esule Cesare Battisti, non dissimili da quelle di forcaioli storici come Violante. E’ venuta meno persino la partecipazione alle mobilitazioni unitarie contro l’occupazione della Palestina e dell’Iraq, come testimonia la vicenda – per certi versi esilarante – della petizione popolare per il ritiro delle truppe italiane di occupazione: prima a giugno, poi ad agosto, Bertinotti rilascia interviste in cui afferma la necessità di dare vita ad una grande iniziativa per il ritiro delle truppe, lanciando una petizione popolare su cui raccogliere milioni di firme… peccato che una simile iniziativa sia in atto già da diversi mesi, per iniziativa di un coordinamento nazionale che raccoglie davvero quella sinistra alternativa di cui Bertinotti spesso straparla: sindacalismo di base, associazioni, comitati contro la guerra e le basi militari, forze politiche (Verdi, PdCI, Sinistra DS), fino a militanti autoconvocati dello stesso PRC e all’area dell’Ernesto. Difficile pensare che Bertinotti non sia al corrente di questa iniziativa, non fosse altro che per il fatto che per due volte la settimana i banchetti sono praticamente sotto le finestre del suo gruppo parlamentare, oltre che in molte Feste di Liberazione. L’obiettivo, dunque, è probabilmente un altro: impossessarsi dell’iniziativa, depurarla di ogni radicalità (magari inserendo nel testo qualche riferimento all’ONU) e spendersela nelle manovre e nei traffici interni al centrosinistra. E’ un’operazione destinata ad un misero fallimento, ma a queste cose Bertinotti è abituato (ricordate la mai vista “grande manifestazione delle opposizioni contro il governo” o l’altrettanto mai vista “conferenza delle opposizioni sulle problematiche del lavoro”?); l’importante è fare un po’ di rumore sui media ed accreditarsi sempre più come partner di governo assolutamente affidabile.

5 – Governismo e alternativa.

Il brutale strappo con i Disobbedienti non è stato altro che una tappa, simbolicamente significativa, della lunga marcia bertinottiana verso il governo, così come l’accelerazione della normalizzazione interna, in vista di un congresso che si annuncia decisivo e che Bertinotti e i suoi non possono assolutamente non vincere. Questa volta, infatti, non potrà essere gestito l’equivoco di uno spostamento a sinistra del partito sul terreno del movimento, essendo evidente la contraddizione insanabile fra l’enunciata volontà di essere parte della “sinistra alternativa” e la collocazione a tutti gli effetti nel governo del centro moderato e della sinistra liberale, presieduto da un ex democristiano. Nessun funambolismo verbale può più coprire questa cruda realtà, come nessuna precisazione sofistica ex post può più dissimulare l’approdo revisionista, borghese e consociativo del gruppo dirigente del PRC.
Per i comunisti, dunque, si ripropone l’eterna domanda: che fare?
La domanda non si pone solo e nemmeno principalmente per i militanti, ma per le centinaia di migliaia di persone che hanno animato le imponenti manifestazioni contro la guerra, che hanno lottato sui posti di lavoro e nei territori, che realmente vogliono costruire un altro mondo per viverci dignitosamente.
Le prime reazioni al “caso D’Erme” ed agli eventi successivi sembrano indicare un buon livello di consapevolezza sulle ragioni e le conseguenze degli strappi di Bertinotti, se è vero che anche dirigenti del PRC fino a ieri abbarbicati al carrozzone bertinottiano oggi si preoccupano perché, in nome dell’accordo di governo con il centrosinistra, come oggi sono stati scaricati i Disobbedienti, domani potrebbe toccare al sindacalismo di base (per la verità, mai molto amato in Viale del Policlinico), alla FIOM, insomma a chiunque esprima livelli anche minimi di conflitto. Gli stessi Disobbedienti, nel comunicato emesso dopo l’esclusione di D’Erme, definiscono la scelta di Bertinotti “miope ed opportunista”: (…) Miope perché intende consegnare alla storia il processo e la sperimentazione che in questi anni abbiamo fatto a Roma e nel paese con conseguenze che nessuno può immaginare, non solo sul piano delle relazioni sociali nella città e nei territori dove siamo radicati socialmente, ma anche sull’agibilità politica dei movimenti e di decine di attivisti. Opportunista perché questa scelta si fa mentre all’orizzonte si profila un governo di centrosinistra, a cui Rifondazione paga in anticipo la rottura con le ali più radicali del movimento.
Un’analoga consapevolezza percorre larghi settori del movimento, del sindacalismo conflittuale (compresa la FIOM), dell’associazionismo di base, della stessa Rifondazione Comunista, i cui Collegi di “Garanzia” si stanno dando un gran da fare per inquisire ed espellere o sospendere compagne e compagni scomodi. Il punto è: questa vastissima area sociale riuscirà a trovare gli elementi di incontro e di mediazione necessari a rappresentarsi come alternativa credibile alla deriva governista di Bertinotti?
Anche se i precedenti storici non consentono ottimismi, è presto per rassegnarsi a morire bertinottiani (o dalemiani, o rutelliani, che è lo stesso). La dissociazione del PRC dalla solidarietà con la resistenza palestinese e irachena, il revisionismo a buon mercato di Bertinotti, la subalternità negli enti locali, il “caso D’Erme” e la rottura con i Disobbedienti sono stati solo l’anticipo del prezzo che Rifondazione Comunista deve pagare per l’accesso al governo; le rate più pesanti stanno arrivando, e riguardano l’accettazione del “vincolo di maggioranza” anche sulle questioni costitutive ed identitarie del partito (a cominciare dalla guerra imperialista e dalla difesa delle pensioni): arriveranno presto - nei fatti, se non proprio apertamente - la riscoperta della concertazione e il contributo attivo alla normalizzazione di ogni forma di conflitto… una storia già vista e molto più in grande, che è costata molto ai lavoratori ed a tutto il Paese. E’ certo che tutto questo non potrà non provocare movimenti non solo nella sinistra sociale e sindacale, ma anche in quella politica, se è vero, come è vero, che in sofferenza non ci sono solo quei settori di movimento che avevano incautamente investito in Bertinotti e nel PRC, ma anche settori significativi della sinistra DS, del PdCI, dei Verdi.

6 – Nuova Bolognina, nuova Rifondazione?

E’ possibile che il congresso del PRC si riveli per Bertinotti e i suoi amici meno agevole del previsto? Si, soprattutto se le opposizioni interne si decideranno a dare battaglia sul serio (invece di puntare a raccogliere le briciole del banchetto, cioè ad ottenere qualche piccolo spazio nel partito e nelle amministrazioni) e se non prevarranno i soliti arroccamenti ideologici e gruppettari, ma si avranno il coraggio e la capacità di esercitare una critica radicale al revisionismo bertinottiano, mantenendo la sintonia con il movimento reale contro la guerra imperialista e per un’alternativa di società anticapitalista. In realtà, l’accelerazione delle epurazioni bertinottiane può essere letta anche come un sintomo di nervosismo, nel senso che i contractors del segretario non si sentono sicuri del risultato, probabilmente anche perché il tanto magnificato afflusso di nuovi iscritti alla “sinistra europea” si sta rivelando un bluff (il che non significa che, quando inizieranno i congressi di circolo, sia da escludere una massiccia transumanza dei già citati “cammelli” laddove le posizioni bertinottiane siano più malsicure).
Questo congresso è paragonabile – fatte le debite proporzioni storiche e numeriche – alla Bolognina di Occhetto, D’Alema e Veltroni. Bisogna essere consapevoli che in gioco vi è l’esistenza di un punto di vista generale e organizzato dei comunisti nel nostro Paese, problema che dovrebbe essere avvertito non solo dai comunisti medesimi, ma da chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia: ogni qual volta in Italia la sinistra comunista è stata inglobata nella cogestione governativa, abdicando al proprio ruolo autonomo e indipendente dalle compatibilità del capitalismo, non ne hanno sofferto soltanto le condizioni materiali dei lavoratori e dei settori più deboli della società, ma l’intero impianto democratico dei diritti civili e sociali. E’ nella disastrosa stagione dei governi di “unità nazionale” che affondano le radici le politiche antioperaie e il collaborazionismo sindacale, da una parte, e l’imposizione della cultura e delle leggi dell’emergenza, dall’altra; ancora più vicino a noi, è con la partecipazione del PRC alla maggioranza di Romano Prodi che abbiamo incassato il Pacchetto Treu, che rimane tuttora l’architrave della deregolamentazione del lavoro e della destrutturazione del sistema dei diritti e delle tutele dei lavoratori. Sul piano dei governi locali, poi, la devastazione provocata a Roma dalla complicità del PRC con la giunta di Francesco Rutelli assume dimensione paradigmatica, se solo si considera che un’esperienza politica che ha prodotto la più massiccia opera di privatizzazioni a livello europeo (come osservarono a suo tempo con ammirazione sia l’Economist che il Financial Times) è stata presentata come un “laboratorio politico” per il governo del Paese. Grazie alla giunta Rutelli, a Roma non esiste praticamente più nulla di pubblico, il che significa – fra l’altro - una massiccia quota di trasporto appaltata a privati e trasferimenti di fondi sempre più estesi ad organismi privati per la gestione dei servizi sociali. In cambio dell’avallo del PRC alle privatizzazioni ed al dilagare della cementificazione (con i 60 milioni di metri cubi previsti dal Nuovo Piano Regolatore), sono arrivati molti nuovi posti negli Assessorati e nei Consigli di Amministrazione delle aziende ex municipalizzate, come – presumibilmente – arriveranno nuovi posti nei futuri Ministeri in cambio del sostegno alla guerra (con l’ONU, per carità!) ed a nuovi attacchi contro lavoratori e pensionati. La lezione del “laboratorio politico” romano è tutta qui.
Il bisogno dell’esistenza di una forza modernamente comunista in Italia – come in ogni altro Paese, del resto – non è un’esigenza nostalgica, limitata a gruppi di reduci sognatori con lo sguardo perennemente rivolto all’indietro. La prospettiva di un’alternativa anticapitalista e la battaglia quotidiana per avvicinarla è una necessità vitale per milioni di uomini e donne che subiscono sulla propria pelle le ingiustizie e gli orrori del capitalismo, dalle sue forme più esasperate a quelle più sofisticate; del resto, è esattamente in questa direzione che muovono tutti quelli che lottano per la propria liberazione.
Nell’imminenza di un Congresso decisivo, è impossibile predeterminare gli esiti di un confronto e di uno scontro che saranno durissimi; quel che è certo è che in Italia non mancherà mai una forza comunista autonoma dal “riformismo” centrista. Non è mai successo nella storia di questo Paese e non succederà nemmeno ora. Il punto è: nella situazione data, cosa può e deve fare ogni singolo compagno per contribuire alla sconfitta della nuova Bolognina di Bertinotti?
La mia opinione personale, per quello che può valere, è netta: a partire dall’esperienza degli autoconvocati del PRC, non si può che dare battaglia insieme a tutti quelli che si sono contrapposti e si contrappongono al gruppo dirigente revisionista, contribuendo al rafforzamento ed alla crescita dell’opposizione di sinistra, sin qui rappresentata principalmente dall’area che fa riferimento alle posizioni espresse dal compagno Marco Ferrando. Naturalmente, la mia persuasione non è determinata dall’impianto complessivo dell’associazione Progetto Comunista ma dai ripetuti – e, mi auguro, sinceri - appelli alla costruzione di uno schieramento congressuale imperniato non su un corpus ideologico, ma su tre assi di proposta ben definiti, indicati con precisione da Ferrando in un intervento pubblicato da Liberazione il 17 agosto 2004: a) rifiuto del coinvolgimento del PRC in un governo con il centrosinistra; b) apertura di un confronto politico a tutto campo con i soggetti sociali e politici della sinistra di alternativa; c) individuazione degli strumenti tecnico-elettorali che, fatta salva l’autonomia politica del PRC, consentano di contribuire alla sconfitta elettorale di Berlusconi.
Per quanto riguarda il punto a), non credo vi sia necessità di ulteriori argomentazioni. Rispetto all’apertura di un confronto a tutto campo con quelli che Ferrando definisce “i soggetti politici e sociali che hanno partecipato ai movimenti di questi anni (Sinistra DS, PdCI, Verdi, CGIL, sindacalismo di classe, movimento antiglobalizzazione)”, con l’eccezione di una CGIL un po’ troppo generosamente arruolata da Ferrando nei ranghi del “movimento”, va detto che esperienze consimili sono già in atto da tempo ed hanno trovato convergenze operative estremamente significative su molti terreni, primo fra tutti il Coordinamento nazionale per il ritiro dei militari italiani dall’Iraq, costituitosi a partire dalla manifestazione nazionale contro il Muro dell’Apartheid e l’occupazione dell’Iraq dell’8 novembre 2003, manifestazione che vide la vergognosa dissociazione della maggioranza bertinottiana del PRC. Esperienze simili vanno consolidate e moltiplicate sia a livello nazionale, sia nei territori e nei luoghi di studio e di lavoro.
Infine, la questione del contributo dei comunisti alla sconfitta di Berlusconi e delle destre: ritengo inaccettabile il ricatto maggioritario che si vorrebbe imporre ai comunisti. Non siamo stati noi a volere le oscene leggi elettorali vigenti e non abbiamo il diritto di sacrificare i nostri caratteri costitutivi sull’altare di queste leggi. Confermando la priorità di una battaglia chiara ed inequivoca nel Paese per il ripristino del proporzionale puro, possiamo spingerci fino alla proposta di accordi tecnico-elettorali con il centrosinistra in funzione antifascista, ma null’altro; in altre parole, come avviene in tutti i sistemi maggioritari e forzatamente bipolari, le forze indipendenti – come i comunisti – operano nel senso della “riduzione del danno” o, se preferite, si scelgono (nei limiti del possibile) il polo a cui faranno comunque opposizione.
Nel quadro determinato dal “Mattarellum”, sono perseguibili opzioni quali la desistenza e la presentazione in alcuni collegi di candidature unitarie e/o di movimento, ma la priorità resta la costruzione di un’opposizione radicale e indipendente tanto nei confronti del liberismo del centrodestra, quanto di quello del centrosinistra, nella prospettiva della rottura del bipolarismo e della sconfitta del sistema maggioritario. La sola opzione da respingere è quella del coinvolgimento dei comunisti nel bipolarismo e in un governo antipopolare.
Su questi tre punti, nel percorso congressuale è auspicabile e possibile costruire una cornice unitaria per tutti i compagni e le compagne estranei agli appetiti governisti ed alla deriva revisionista dell’attuale gruppo dirigente del PRC; il resto, lo scriveremo nei giorni successivi al congresso.


L’orizzonte si profila tutt’altro che piatto: se, negandosi alla normalizzazione, i settori organizzati del movimento e della sinistra, dentro e fuori il PRC, riusciranno a raccogliere la domanda di alternativa che viene da centinaia di migliaia di persone, se riusciranno a non rimanere schiavi delle vetuste logiche da orticello e dei microcorporativismi, se l’intelligenza e il senso di responsabilità prevarranno sull’angustia della coazione a ripetere e del settarismo... allora, si potrà ben dire che Bertinotti, sia pure senza volerlo, ha fatto un grosso regalo al movimento.

Roma, estate 2004

Germano Monti

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