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Gli scioperi del marzo 1943

(5 Marzo 2013)

Crisi del fascismo e protagonismo operaio


Gli scioperi del marzo del 1943 esplosero quando l’Italia era al quarto anno di guerra: la “militarizzazione” dell’economia aveva potenziato la produzione industriale e nei grandi centri del Nord le conseguenze della disoccupazione erano state, almeno in parte, arginate dal bisogno di manodopera delle fabbriche impegnate nello sforzo bellico.


Le retribuzioni, tuttavia, non erano affatto in grado di reggere l’impressionante aumento del costo della vita e ciò aveva provocato la moltiplicazione di piccoli ma numerosi segnali di avversione nei confronti della guerra (atti d’indisciplina, assenteismo, scritte murali...): essa iniziava ad essere considerata, quanto meno dai settori operai di convinzione antifascista, come l’occasione per una resa dei conti con il regime, messo in difficoltà anche dalle notizie sul cattivo andamento delle operazioni militari in Grecia e in Albania.


Nel corso della seconda parte del 1942 il grave disagio economico in cui versava la classe lavoratrice venne aggravato dall’inizio delle incursioni aeree sulle grandi città; quell’inverno, pertanto, si caratterizzò per la drammaticità con cui si pose il problema degli alloggi bombardati: tante famiglie erano costrette a fare i conti con il problema del freddo, oltreché con quello della fame.


La popolarità del regime si stava rapidamente ridimensionando e soprattutto negli ambienti operai la propaganda “sovversiva” animata da piccoli gruppi di militanti comunisti e azionisti riprendeva a farsi sentire. Fu in quei mesi che una prima serie di scioperi nelle fabbriche torinesi evidenziò una disponibilità nuova, da parte di settori ancora minoritari della classe operaia, a scendere sul terreno dell’agitazione: si trattò per lo più di brevi fermate del lavoro provocate da singoli provvedimenti particolarmente odiosi.


Fra il 5 e l’8 marzo

In quel contesto i comunisti si diedero significativamente da fare: i militanti presenti nelle fabbriche tentarono di concordare con Massola e Clocchiatti (i quadri clandestini del partito impegnati nell’attività cospirativa) un piano unitario d’azione, con lo scopo di mobilitare l’intera classe operaia di Torino a supporto di una piattaforma che contenesse le richieste di aumento dell’indennità di carovita, di assistenza adeguata agli sfollati e del pagamento a tutti gli operai, e non solo agli sfollati, della mensilità straordinaria già prevista.


Per il 5 marzo, pertanto, i comunisti tentarono di organizzare una serie di scioperi nei principali stabilimenti: essi avrebbero dovuto, nelle intenzioni, preparare il campo per una manifestazione di piazza da svolgere l’8 marzo. Gli operai che diedero il via alla protesta furono quelli di due stabilimenti della Rasetti: più della metà dei dipendenti incrociarono le braccia, seguiti il giorno successivo da quelli della Microtecnica. La riuscita dell’iniziativa, evidentemente, non era stata quella prevista, dal momento che nelle realtà principali (innanzitutto gli stabilimenti Fiat di Mirafiori) la mobilitazione non era stata affatto significativa (contrariamente alla versione che a lungo ha contrassegnato la ricostruzione di quei fatti).


In città, tuttavia, si diffuse rapidamente la voce che era iniziata un’agitazione vera e propria; l’insistenza con la quale militanti comunisti come Leo Lanfranco sostennero l’esigenza di non far rientrare la mobilitazione incontrò il malcontento che da tempo covava in seno alla classe operaia e riuscì a influenzare anche quanti avevano esitato fra il 5 e il 6 marzo. La scelta dello sciopero bianco, d’altro canto, si rivelò vincente: esso non esponeva gli operai ai rischi connessi alle manifestazioni di piazza, ma consentiva di sfruttare la forza contrattuale di cui le maestranze disponevano in virtù della rilevanza delle produzioni in cui erano impegnati.


Fu così che lunedì 8 marzo, nonostante piazza Castello a Torino non si fosse riempita di manifestanti come avrebbero voluto i comunisti, la protesta si allargò ad altre fabbriche e nei giorni successivi iniziarono finalmente a scioperare anche gli operai delle Officine Savigliano, degli stabilimenti Fiat del Lingotto e di Mirafiori e di tante altre realtà. La configurazione della protesta non era quella che i comunisti avevano immaginato, ma l’ampiezza delle adesioni segnalava l’accortezza con la quale gli operai si erano appropriati della proposta di mobilitazione che i cospiratori avevano insistentemente diffuso.


L’estensione di tali adesioni disorientò il padronato e le autorità pubbliche: verso la metà del mese, nonostante i numerosi scioperanti arrestati, all’agitazione stavano partecipando complessivamente decine di migliaia di lavoratori. Il 18 marzo fu la direzione della Fiat a prendere l’iniziativa e a promettere un anticipo di 300 lire in cambio della ripresa del lavoro, dopo che la protesta aveva iniziato ad acquisire una caratterizzazione più chiaramente politica: erano state avanzate, infatti, dagli scioperanti anche le richieste di poter eleggere rappresentanze effettivamente operaie e di far liberare i compagni fermati nel corso della mobilitazione.


Dopo aver strappato alcune concessioni, gli operai torinesi decisero gradualmente di far rientrare la protesta, ma non fecero a tempo a rimettersi tutti al lavoro che la mobilitazione si allargò a Milano. Il 23 marzo scesero in sciopero gli operai della Pirelli, della Falck, della Borletti e della Ercole Marelli, nei giorni successivi furono coinvolti numerosi altri stabilimenti e il conflitto si estese a centri come Biella e Marghera. Le forze dell’ordine, immediatamente schierate, non riuscirono ad intimidire gli scioperanti.


In una nota indirizzata a Mussolini, il fascista Farinacci si espresse in termini chiari: “Ho vissuto, stando naturalmente nell’ombra, le manifestazioni degli operai di Milano. (…) Non siamo stati capaci né di prevenire né di reprimere ed abbiamo infranto il principio di autorità del nostro regime. (…) Se ti dicono che il movimento ha assunto un aspetto esclusivamente economico ti dicono una menzogna…”.



La centralità della lotta operaia

L’affermazione degli scioperanti rendeva evidente la crisi di consensi del regime: la popolazione delle città, infatti, aveva manifestato in più occasioni la propria solidarietà con gli scioperanti. Gli strumenti tradizionali della repressione in alcuni casi avevano addirittura provocato un inasprimento del carattere conflittuale della protesta, settori importanti della classe operaia avevano dimostrato di essere, dopo un periodo prolungato di silenzio, di nuovo in grado di prendere l’iniziativa sui temi della difesa della propria condizione materiale.


La capacità di quanti avevano animato la protesta di ridiventare protagonisti della conflittualità sociale dopo vent’anni di sostanziale passività aveva riaffermato la centralità della lotta operaia: essa diede una scossa all’intero schieramento delle forze che si contrapponevano al fascismo. La classe dominante iniziò a temere per la stabilità dell’ordine politico e sociale del paese, e mise in discussione lo stretto legame che la vincolava al regime, considerato non più affidabile. Gli industriali e i vertici dell’esercito aprirono un confronto con i settori critici della gerarchia precisamente al fine di trovare una via d’uscita dalla crisi che scongiurasse il pericolo rivoluzionario. Dopo le sconfitte militari in Russia e in Africa, gli scioperi del marzo resero irresistibile la spinta che avrebbe portato alla congiura del 25 luglio e alla rimozione di Mussolini.



I limiti del gruppo dirigente del Pci

Il gruppo dirigente del Pci aveva avuto modo di rendersi conto che, per settori non marginali della classe operaia, la lotta intrapresa avrebbe potuto innescare in tempi rapidi sviluppi incontrollabili. Il diffondersi del richiamo a Stalingrado e all’avanzata dell’esercito sovietico esprimeva l’ambizione, nutrita dai settori più agguerriti del proletariato italiano, di provare ad approfittare della crisi del regime che iniziava a delinearsi per sconfiggere l’intera classe dominante complice del fascismo.

Ma non era questa la prospettiva di Stalin, che non a caso proprio nel corso del 1943 avvierà quel processo di spartizione del mondo fra gli Alleati nel quale non c’era posto per uno sbocco rivoluzionario in Europa occidentale.

Tale fu la politica dell’Urss e del gruppo dirigente del Pci che dopo il marzo, anche attraverso una riorganizzazione del proprio centro dirigente, applicò con decisione quella linea “nazionale” secondo la quale l’opposizione al fascismo non avrebbe dovuto assumere un carattere prevalentemente classista. La mobilitazione della classe lavoratrice avrebbe dovuto accompagnare e non sostituire la soluzione “dall’alto” delle contraddizioni in cui si dibatteva il regime. L’ipotesi rivoluzionaria non doveva essere presa nemmeno in considerazione.

Questa contraddizione tra le possibilità rivoluzionarie e la linea di Stalin e Togliatti avrebbe creato le condizioni per il 25 luglio, l’8 settembre e la rivoluzione incompiuta dell’aprile 1945.

Gabriele Donato - FalceMartello

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