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Coree: chi soffia sul fuoco?

(5 Aprile 2013)

koreamiss

Giovedì 04 Aprile 2013 23:00

La continua escalation di minacce reciproche che sta caratterizzando la crisi in atto nella penisola di Corea in queste settimane ha fatto registrare negli ultimi giorni nuove dichiarazioni minacciose da parte del regime di Pyongyang e sproporzionate reazioni da parte di Seoul e, soprattutto, di Washington. Nella giornata di giovedì, le autorità della Corea del Nord hanno annunciato di essere pronte a colpire gli Stati Uniti con armi nucleari “di dimensioni ridotte, più diversificate e tecnologicamente avanzate”. Allo stesso tempo, il ministro della Difesa sudcoreano, Kim Kwam-jin, ha fatto sapere che il vicino settentrionale ha spostato verso la propria costa orientale un missile dalla gittata “considerevole”.

Un ricercatore dell’International Institute for Strategic Studies di Londra in un’intervista alla CNN ha sostenuto che il missile in questione sarebbe un Musudan, costruito su tecnologia sovietica e con una portata di quasi 2.500 km, abbastanza per colpire il Giappone ma non il territorio americano né, ad esempio, l’isola di Guam nell’Oceano Pacifico dove si trova una base militare statunitense.

Il regime di Kim Jong-un si è detto autorizzato ad intraprendere incisive azioni militari in risposta alle ripetute provocazioni degli USA, i quali nei giorni scorsi avevano dispiegato sui cieli della penisola bombardieri B-2 e B-52 e aerei da guerra F-22 nel quadro delle esercitazioni militari in corso con Seoul, nonché trasferito al largo delle coste coreane due cacciatorpedinieri in grado di intercettare e abbattere missili balistici.

Per il secondo giorno consecutivo, inoltre, la Corea del Nord ha impedito ai cittadini sudcoreani di raggiungere il complesso industriale di Kaesong che i due paesi operano congiuntamente e dove la manodopera di oltre 50 mila nordcoreani viene sfruttata da decine di aziende di Seoul.

La struttura di confine rappresenta una significativa fonte di entrate per il regime stalinista, il quale, secondo alcuni resoconti giornalistici, avrebbe deciso di sospenderne le attività dopo che i media sudcoreani e occidentali nei giorni scorsi avevano deriso Pyongyang perché, nonostante la retorica bellicista, a loro dire stava mantenendo in funzione Kaesong per i vantaggi economici che ne ricava.

Gli Stati Uniti, a loro volta, non stanno perdendo occasione per alimentare le tensioni, come dimostra l’annuncio del Pentagono di impiegare un nuovo sistema di difesa missilistico sull’isola di Guam che ufficialmente dovrebbe agire da deterrente contro un eventuale attacco o un nuovo test nucleare nordcoreano.

Secondo i media americani, l’installazione di un sistema anti-missilistico di terra a Guam consentirebbe di utilizzare per altri scopi le due navi da guerra già nella regione, verosimilmente avvicinandole ancor più alla costa della Corea del Nord che, inevitabilmente, potrebbe reagire in maniera aggressiva a quella che verrebbe considerata come l’ennesima provocazione di Washington.

Se i titoli dei media occidentali sembrano preannunciare un imminente attacco nucleare da parte del regime di Pyongyang, sono in molti a credere, anche all’interno dei governi di Seoul e Washington, che le minacce del giovane leader Kim Jong-un siano poco più di un bluff. Innanzitutto, pur disponendo con ogni probabilità di alcuni ordigni nucleari, la Corea del Nord non viene accreditata delle capacità tecniche per posizionarli su missili di medio o lungo raggio.

Inoltre, l’annuncio di qualche giorno fa della riapertura del complesso nucleare di Yongbyon, chiuso dal 2007, per produrre materiale fissile destinato ad armi nucleari richiederebbe molto tempo per tornare in funzione e, contemporaneamente, indica una certa carenza di materia prima a disposizione del regime per la creazione di un significativo arsenale atomico.

Una dettagliata analisi pubblicata giovedì dalla Associated Press ha evidenziato che solo per riavviare la struttura di Yongbyon, destinata a produrre plutonio, servirebbero dai tre ai dodici mesi. Una volta rimesso in funzione il reattore senza problemi, potrebbero volerci ancora due o tre anni per ottenere plutonio destinato all’uso militare, senza contare la quantità di materiale che dovrebbe essere “sprecato” nei test necessari per mettere a punto un’arma efficace.

Alla luce di questa situazione, nonché delle considerazioni politiche che ovviamente scoraggiano Pyongyang a lanciare un attacco contro la Corea del Sud o le basi americane nella regione per evitare reazioni che porterebbero alla distruzione del regime stesso, l’agenzia di stampa americana, che opera con un proprio ufficio nella capitale dell’isolato paese asiatico, sostiene che l’atteggiamento nordcoreano rappresenta piuttosto un “segnale di frustrazione dopo settimane di minacce che non hanno convinto gli Stati Uniti e Seoul a riaprire i negoziati per il disarmo nucleare e la ripresa degli aiuti umanitari”.

Le pressioni degli Stati Uniti, in ogni caso, non sono solo rivolte verso la Corea del Nord ma anche e soprattutto verso la Cina, invitata in questi giorni a esercitare tutta la propria influenza per richiamare all’ordine il sempre più imbarazzante alleato. In un recente colloquio tra il segretario alla Difesa, Chuck Hagel, e il suo omologo di Pechino, generale Chang Wanquan, il numero uno del Pentagono avrebbe espresso la preoccupazione americana per “la crescente minaccia rappresentata per noi e i nostri alleati dall’aggressiva corsa al nucleare” di Pyongyang. Hagel ha poi sollecitato Pechino ad avviare un “dialogo ed una cooperazione costante su questi temi”, come è ovvio secondo i termini stabiliti da Washington.

Gli appelli a stemperare le tensioni da parte dell’amministrazione Obama sono però smentiti dall’escalation militare americana in Asia nord-orientale, così come da quella innescata di riflesso a Seoul. Giustificando i propri progetti con la minaccia nordcoreana, il governo di Park Geun-hye si è già assicurato dagli USA la fornitura, ad esempio, di nuovi aerei da guerra e sofisticati mezzi militari pesanti. Secondo quanto riportato giovedì dal quotidiano sudcoreano Chosun Ilbo, poi, Seoul starebbe anche trattando l’acquisto dall’Europa di missili cruise in grado di penetrare strutture fortificate o sotterranee.

Questo processo di militarizzazione, già avviato anche in altri paesi alleati di Washington come Giappone e Filippine, trova il pieno appoggio degli Stati Uniti e rientra nella “svolta” strategica verso l’Estremo Oriente decisa nel 2009 dalla Casa Bianca per contenere l’espansionismo cinese.

Il regime nordcoreano, da parte sua, nonostante l’atteggiamento bellicoso continua invece a inviare segnali che fanno intravedere una volontà di giungere ad una normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti, cosa che questi ultimi hanno però sempre escluso, con gravi conseguenze per la stabilità della penisola.

Sia pure cautamente e tra divisioni interne, secondo alcuni analisti la cerchia di potere di Pyongyang appare infatti disponibile ad intraprendere un percorso di “riforme” economiche e di apertura al capitale internazionale, come forse conferma anche la nomina lunedì scorso a primo ministro di Pak Pong-ju, riapparso improvvisamente dopo essere sparito per qualche tempo dal panorama politico nordcoreano e indicato dagli esperti del paese come un promotore del “libero mercato”.

Già lo scorso gennaio, il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung aveva infine rivelato che giuristi ed economisti tedeschi sono al lavoro come consulenti del regime in vista di una possibile apertura agli investitori occidentali. Uno degli anonimi consiglieri citati dal giornale tedesco aveva affermato che la Corea del Nord “è interessata al modello vietnamita” e a mettere in atto la legislazione necessaria ad attrarre un certo numero di selezionati investitori stranieri.

Secondo questa versione, l’interesse principale dei vertici nordcoreani, soprattutto di quelli delle Forze Armate, sarebbe rivolto all’Occidente, ma anche al Giappone e alla Corea del Sud, mentre, significativamente, vorrebbero evitare di approfondire la cooperazione con le aziende cinesi o di importare il modello cinese basato sulla creazione delle cosiddette “zone economiche speciali”.

Una rivelazione, quella del Frankfurter Allgemeine Zeitung, che, se corrispondente al vero, scoprirebbe le vere intenzioni del regime di Kim Jong-un, rimescolando potenzialmente gli equilibri strategici che hanno caratterizzato la penisola fin dalla fine del conflitto tra le due Coree nel 1953.

Mario Lombardo - Altrenotizie

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