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(17 Aprile 2013) Enzo Apicella

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Prove di golpe a Caracas

(19 Aprile 2013)

capriles

Henrique Capriles Radonski

Tutto come da copione anche in Venezuela. Nella strategia di destabilizzazione disegnata da Washington ed attuata dalla destra locale non si lascia nulla al caso. Ed oggi il copione è di scena nelle strade venezuelane.
Era un segreto di Pulcinella che la destra non avrebbe riconosciuto i risultati di un sistema elettorale meccanizzato, tra i più trasparenti del mondo e praticamente a prova di brogli. Un sistema che chi scrive ha potuto verificare più volte di persona in qualità di accompagnante internazionale di diversi processi elettorali. Nei seggi sono presenti i rappresentanti di lista di tutti i partiti che certificano i risultati con verbali che vengono trasmessi al Consiglio Nazionale Elettorale (Cne) dove l’opposizione è rappresentata. C’è da sottolineare che il 54% dei seggi è stato già verificato dal Cne, come già avvenuto nel passato.

Ma per i settori della destra fascista il punto non è affatto contare i voti per provare che ci siano stati brogli, dato che molti esponenti moderati della stessa destra hanno riconosciuto il risultato. L’obiettivo è quello di seminare il dubbio, prendere tempo, destabilizzare il più possibile invocando l’intervento esterno. Una specie di prova generale di destabilizzazione.
Ma il Venezuela non è nè l’Honduras, nè il Paraguay, per replicare lo schema dei “golpe del XXI° secolo, quelli istituzionali, con “i guanti bianchi”. Senza rinunciare alle esperienze passate, si ricorre alla creatività per ottenere lo stesso risultato nel laboratorio venezuelano.
Nel tentativo di golpe strisciante la miscela classica è nota, con qualche variante tecnologica moderna. Innanzitutto proseguire ed approfondire la guerra economica, diplomatica, mediatica, psicologica, elettronica in atto da tempo.
In Venezuela la parte legale del piano della destra si chiama “Plan Avalancha”, il “Piano Valanga”. Parallelamente si da il via alla agenda occulta. Dalla “guerra di bassa intensità” degli anni ‘80 in Centro America, si passa alla “violenza di bassa intensità” (almeno in questa fase). L’invito dello sconfitto Capriles Radonsky a scendere in piazza e passare all’azione, dalle elezioni ad oggi ha provocato 8 morti nelle file bolivariane, più di 60 feriti ed oltre 130 arresti per istigazione all'odio, ribellione civile e associazione a delinquere.
Il governo bolivariano ha reso pubbliche alcune prove della strategia golpista. Prima delle elezioni si è cercato di fare mancare i beni di prima necessità nei negozi, grazie al controllo della grande distribuzione, ancora sostanzialmente in mano a pochi imprenditori in grado di aprire e chiudere il rubinetto e accaparrare. Anche nel Cile del 1973 i golpisti usarono la stessa tattica contro il governo dell’Unidad Popular di Salvador Allende. Il governo venezuelano ha risposto con i Pdval ed i Mercal, mercati pubblici a prezzi calmierati molto popolari, per frenare accapparamento e speculazione.
In seguito la “guerra elettrica”: nei giorni precedenti al voto i sabotaggi dovevano provocare 3 giorni di interruzioni di corrente in varie zone del Paese. Per far ciò si erano infiltati nel paese mercenari salvadoregni con esperienza in materia, alcuni dei quali arrestati dopo la denuncia pubblica da parte del governo.
Ma per fare un colpo di Stato ci vogliono i militari: come nel golpe del 2002 si cerca di reclutare ufficiali compiacenti che si vendano per un piatto di lenticchie o per qualche promessa di fare carriera. Pochi giorni prima del voto il Venezuela ha espulso due addetti militari dell’ambasciata statunitense, accusati di cercare di sobillare la rivolta nelle file militari bolivariane.
Non mancano le manifestazioni “spontanee” degli studenti sul modello “rivoluzioni arancioni” dell’Est europeo (le cosiddette “mani bianche” che lungi dall’essere pacifiche degenerano rapidamente in violenti scontri).
E poi il richiamo alla piazza, con il vecchio squadrismo: assalti alle sedi PSUV, ai centri medici CDI (facendo correre la voce di medici cubani che avrebbero nascosto le prove dei brogli), ai Mercal, attacchi alle case dei dirigenti chavisti, assedi alle sedi del Cne, ai mezzi di comunicazione statali.
Parallelamente la destra ha inutilmente cercato di chiamare allo “sciopero generale indefinito” (a sinistra lo si sarebbe chiamato “insurrezionale”), invocando la mobilitazione per risolvere la “crisi politica”.
Il tutto condito con l’infiltrazione di paramilitari colombiani che cercano di prendere il controllo dei quartieri attraverso il narcotraffico e la violenza, con l’utilizzo di ex-agenti fascisti e corrotti della antica polizia metropolitana radiati dai ranghi per sabotaggi e attentati, e l’uso della delinquenza comune per provocazioni. Tutti fattori che contribuiscono pesantemente all’insicurezza che colpisce soprattutto la capitale.

La novità “moderna” è stato l’uso delle cosiddette “reti sociali” nel tam-tam anti-chavista. Durante il voto, gli indirizzi Twitter di Nicolàs Maduro, di Diosdado Cabello (presidente del parlamento) e di altri dirigenti bolivariani sono stati oscurati da hacker che hanno messo in rete insulti e false dichiarazioni. E sul versante cibernetico si sono registrati anche attacchi informatici alle pagine internet del Cne, del Partido Socialista Unido de Venezuela (Psuv) al governo, della Celac ed altri.

Sul fronte internazionale cantano in coro le voci della pressione diplomatica. In prima fila gli Stati Uniti che, all’unisono con lo sconfitto Capriles, considerano “importante, prudente e necessario” procedere al riconteggio manuale dei voti. Lo ripetono il Ministro degli esteri spagnolo, José Manuel Garcia-Margallo; il socialista cileno José Miguel Insulza, Segretario della Organizzazione degli Stati Americani (Oea), in buona compagnia dell’argentino Luis Ayala, Segretario Generale della Internazionale Socialista (Is). Voci amplificate dell’artiglieria mediatica della destra internazionale e dai giornali “progressisti” che fanno riferimento alla Is.
Oggi le relazioni diplomatiche tra Washington e Caracas sono forse al punto più basso. L’intelligence venezuelana da tempo sostiene di avere le prove della cospirazione golpista di alcuni diplomatici statunitensi di stanza a Caracas che hanno nel libro paga diversi settori dell’opposione anti-chavista. E Washington è sotto accusa per finanziamenti all’opposizione non solo via organismi come la Ned, la Usaid, etc, ma direttamente spargendo dollari a profusione.
Nel suo discorso di insediamento, il neo-Presidente Maduro dirigendosi direttamente al governo della destra spagnola di Rajoy, ha ricordato che la multinazionale dell’energia Repsol fa buoni affari nella “fascia dell’Orinoco” e che se vuole continuare a farli l’atteggiamento deve cambiare. La dichiarazione ha portato a più miti consigli il governo iberico che in seguito si è affrettata a fare marcia indietro ed a riconoscere il risultato elettorale.
La stessa Oea che per bocca di Insulza aveva appoggiato la richiesta di Capriles (senza consultare i governi latino-americani che ne fanno parte), dopo qualche ora è stata costretta a fare marcia indietro a causa della reazione dei governi progressisti che ancora ne fanno parte.
In altri termini, il tentativo di pressione diplomatica si è scontrato col riconoscimento della trasparenza delle elezioni da tutti i governi del continente, di destra e di sinistra (ad eccezione del Paraguay golpista). Correttezza avallata anche dagli organismi elettorali latino-americani che hanno accompagnato il processo elettorale.

E’ lo stesso schema del golpe del 2002, ma oggi in più c’è un buon risultato elettorale della destra che si crede per vocazione destinata al governo ed al potere. E che non tollera di perdere ancora una volta.
Dall’altra parte, le forze del Gran Polo Patriotico si interrogano sui risultati del voto che ha visto diminuire i consensi verso il loro candidato con una perdita secca ed uno spostamento di voti tutt’altro che secondario.
E qui la lettura del voto si complica.

Marco Consolo - liberazione.it

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