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(28 Luglio 2010) Enzo Apicella
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Delocalizzarne uno per educarne cento

L’offensiva padronale dal Nordest italiano alla Germania

(10 Ottobre 2004)

Nel mese di settembre i vertici aziendali Electrolux e Zoppas hanno confermato la loro intenzione di procedere con il piano di trasferimento della produzione.

Electrolux prevede di trasferire in tre anni 300 mila lavatrici nella nuova fabbrica russa di San Pietroburgo, oltre 400 mila frigoriferi da Susegana in Ungheria e 300 mila essiccatori da Porcia in Polonia. Il tutto significa 500 posti di lavoro in meno tra Porcia e Susegana.

Zoppas ha annunciato all’inizio dell’estate la delocalizzazione in Cina di parte delle lavorazioni degli stabilimenti veneti e friulani con la chiusura della Coris di San Vito e della Sev di Miane, oltre che tagli alla Irca e alla Rica di Conegliano. Complessivamente si tratta 630 posti di lavoro in meno.

Queste nuove grandi delocalizzazioni, che si aggiungono alla serie lunghissima di quelle già in atto (Benetton, Marzotto, Monti, Fiamm...) hanno un significato devastante per un sistema produttivo come quello del Nordest basato per buona parte sulla lavorazione per conto terzi: ad ogni delocalizzazione delle grandi industrie segue inevitabilmente la chiusura di laboratori terzisti grandi e piccoli e la perdita di altri posti di lavoro.
Dopo aver fatto per decenni immensi profitti, sfruttando le lavoratrici e i lavoratori e usufruendo spesso anche di ingenti sostegni finanziari, ora i “mitici imprenditori del nordest” intendono trasferire all’estero la produzione inseguendo salari più bassi, meno diritti per i lavoratori, meno tutele ambientali.

Le dichiarazioni di Unindustria

Di fronte a questa catastrofe occupazionale il padronato veneto si difende accampando ogni tipo e genere di scuse a difesa dei propri interessi: è interessante rileggere, commentandola, la dichiarazione del presidente di Unindustria Padova, Luca Bonaiti, pubblicata sul Gazzettino del 2 settembre.

Si scaricano le colpe sulla concorrenza internazionale e sulla globalizzazione: “Le imprese resterebbero volentieri in Italia. Purtroppo la concorrenza internazionale costringe molte ad essere presenti all’estero”.

Per poi contraddirsi rivendicando il fatto che lo stesso padronato veneto è fautore di globalizzazione e di nuova concorrenza internazionale: “Si va all’estero per presidiare i mercati e conquistarne di nuovi”.

Si travisa la realtà dei fatti parlando del passato invece che del presente: “Le aziende venete hanno avuto tanto da questa terra, ma hanno anche dato tanto e continuano a farlo: sviluppo, lavoro, benessere diffuso”. Il che tradotto in linguaggio semplice potrebbe essere qualcosa del tipo “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce il passato ... e per il futuro non facciamoci troppe illusioni, anzi non parliamone proprio”.

Si utilizza un linguaggio involuto e incomprensibile prendendo per i fondelli i lavoratori licenziati: “Le funzioni brain intensive (!!!) e le produzioni più sofisticate restano in Italia, dove la qualità del capitale umano è elevatissima, e questo processo consentirà nel lungo periodo di spostare una quota rilevante dell’occupazione verso mansioni a più alto contenuto di conoscenza (!!!)”.

E giusto per mostrare che non si è perso il vizio di sommare ai profitti derivati dallo sfruttamento dei lavoratori anche i finanziamenti pubblici, si chiede alle istituzioni di non “vedere la delocalizzazione come il fumo negli occhi”, ma di creare “le condizioni infrastrutturali, fiscali e sociali affinché sia conveniente investire in Italia”.

L’esempio tedesco

Quello che Luca Bonaiti lascia solo intendere tra le righe, lo dichiarano invece esplicitamente i suoi colleghi tedeschi, che a fine luglio hanno scatenato un’offensiva senza precedenti contro i lavoratori per ottenere un allungamento degli orari di lavoro senza nessun aumento salariale.

Alla Siemens di Bocholt la Ig Metall ha firmato un accordo in cui si accetta di lavorare 40 ore pagate 35, sotto il ricatto dello smantellamento della produzione e della delocalizzazione in Ungheria di duemila posti di lavoro.

Alla Bosch di Vènissieux, vicino a Lione (in Francia - ma di proprietà tedesca) la minaccia è stato quella della delocalizzazione nella repubblica Ceca e in cambio è stato chiesto uno stop agli aumenti salariali per tre anni e l’allungamento dell’orario di lavoro di un’ora settimanale.

Alla Daimler-Chrysler di Sindelfingen (Stoccarda) è stato raggiunto un accordo che prevede l’allungamento dell’orario da 35 a 40 ore senza aumenti salariali in cambio del mantenimento di 6mila posti di lavoro.

Alla Opel di Eisenach hanno accettato un orario settimanale di 47 ore in cambio della promessa di non toccare i posti di lavoro fino al 2007.

Alla Volkswagen il ricatto riguarda quasi duecentomila posti di lavoro: “I costi del lavoro devono scendere del 30 per cento entro il 2011. I posti di lavoro del gruppo in Germania che, in caso di non attuazione, non si potrebbero mantenere sono 176.544” (Peter Hartz, capo del personale della Volkswagen).

I frutti della globalizzazione

Il ricatto è esplicito: dopo aver “internazionalizzato” la produzione in Europa dell’Est così come in Cina o in India, gli industriali fanno i loro conti e chiedono agli operai di qui di sganciare il proprio salario dal costo “locale” della vita e legarlo invece al costo “globale” del lavoro.

Se il padronato tedesco affronta la questione senza peli sulla lingua, quello italiano cerca di evitare per il momento uno scontro aperto, (l’Italia è già oggi uno dei paesi europei dove si lavora di più) ma sta creando tutte le condizioni perché a fronte di una delocalizzazione sempre più massiccia l’accettazione di condizioni di maggior sfruttamento (allungamento dell’orario di lavoro, perdita dei diritti, diminuzione dei salari) diventi una soluzione “naturale” e “accettabile” a tal punto da poter essere realizzata anche in “concertazione” con le organizzazioni sindacali.

Del resto è esattamente in questa direzione che si muove la lenta ma inesorabile promulgazione dei vari decreti attuativi delle legge 30.

Delocalizzazione, guerra infinita e unione europea.

Se oggi i padroni possono permettersi questo ricatto è anche perché hanno dalla loro una situazione politica mondiale favorevole.

La guerra infinita contro il sud del mondo scatenata da Bush funziona da monito per tutti quei paesi che pensassero di sganciarsi dalle “leggi del mercato”, per esempio nazionalizzando le industrie straniere o anche semplicemente rivendicando una quota maggiore dei profitti prodotti con una qualche politica protezionistica.

La partecipazione dell’Italia a questa guerra serve ad estendere anche alle imprese italiane l’ombrello protettivo della guerra infinita a difesa del mondo capitalistico (o del “mondo libero” che nel linguaggio di Bush è esattamente la stessa cosa).

Questo significa che nel “costo globale del lavoro” sempre meno devono essere contabilizzate anche le voci riguardanti i “rischi politici” degli investimenti in paesi stranieri.

Per quanto riguarda poi i paesi più vicini, quelli dell’Est europeo, dopo gli eserciti (la guerra contro la ex Jugoslavia) si sono mosse le diplomazie per costringere i governi locali a vendere i loro popoli come schiavi agli industriali dei paesi “avanzati”, che è esattamente quanto è previsto dall’allargamento ad est dell’Unione Europea che prevede la libera circolazione delle merci e dei capitali, ma non quella degli uomini e delle donne.

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