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(10 Gennaio 2011) Enzo Apicella

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Torna la crisi in Argentina, con gli interessi

(23 Maggio 2013)

Le brevi e scarse notizie che di tanto in tanto circolano sulla crisi economica argentina hanno sempre un’impostazione sensazionalistica e altalenante: si va dal grande boom economico in corso alle grandi manifestazioni di piazza contro il caro vita e il mal governo, dagli indici economici alla “cinese”, ma non riconosciuti dalle organizzazioni statistiche internazionali perché ritenuti “taroccati” dal governo, alla ventilata minaccia di riaprire l’annosa questione delle Malvinas-Falkland ecc.

Quello che ha fatto indignare di più l’internazionale popolo dei “tagliatori di cedole”, quello italiano particolarmente interessato vista la massa dei “tango bond” detenuti e non ancora esigibili, è stato il suggerimento della presidente “peronista” argentina Cristina Kirchner ai governanti greci in merito al loro debito pubblico: fate come noi, non pagatelo e uscite dall’euro!

Una furiosa videoconferenza con la neo eletta presidente del FMI, la francese Christine Lagarde, sull’argomento del rimborso dei titoli argentini congelati o rifinanziati, ha momentaneamente infiammato i media, per presto scomparire.

In un “tweet”, cioè in una dichiarazione sul suo sito internet, del 3 febbraio la Kirchner fa ancora demagogia populista, che colà si chiama peronismo, bolivarismo, ecc.: «Preferisco avere un’inflazione altissima e spropositata se so che la disoccupazione dal 34% è scesa al 3,5%; che la povertà è diminuita del 55%; che il Pil viaggia di un +8% annuo; che la produttività industriale è aumentata del 300%; che c’è lavoro in Argentina, c’è mercato per tutti, e il mio popolo è molto ma molto più felice di prima, piuttosto che avere un’inflazione del 3% come in Italia, dove c’è depressione, disperazione, avvilimento e l’esistenza delle persone non conta più. E questa è un’affermazione politica. Di principio e sostanziale. Non lo ha ancora capito?». Questi dati statistici però, dobbiamo aggiungere noi, provengono del “suo” istituto di statistica nazionale, l’INDEC, il cui presidente è il ministro dell’economia del suo governo!

La crisi e il fallimento

Il nostro precedente studio economico su quel paese, “Crisi sociale e patacones governativi” nei numeri 287-289 (2002) di questo giornale, descriveva le sue crisi storiche partendo dal periodo dello sfruttamento coloniale spagnolo fino a quella che si stava consumando in quei turbolenti anni.

In estrema sintesi: il lungo periodo delle dittature militari che hanno governato e insanguinato l’Argentina per decenni, ha fine dopo la dissennata invasione delle Malvine-Falkland nel 1982, lontano arcipelago nell’Atlantico australe sotto il domino inglese dal 1833 ma rivendicato dall’Argentina, e la dura sconfitta militare inflittale dal Regno Unito. Fu chiaro a tutti che tale impresa, che puntava su un esasperato nazionalismo, veniva usata come diversivo per nascondere la grave crisi del regime, costretto poi a cedere il passo. Il regime nuovo democratico, iniziato con libere elezioni nel 1983, adottò indirizzi economici basati su diversi compromessi tra politiche neoliberiste e mantenimento di uno stato sociale di stampo peronista, iniziando però a privatizzare le più importanti imprese pubbliche, tra cui gas e petrolio, concesse a prezzi irrisori ad affaristi di ogni dove, tenendo conto che la casta militare deteneva ancora un sensibile seguito politico e potere anche in campo economico.

Il risultato di quella politica economica e monetaria fu un vero disastro, accentuato dal crollo dei prezzi delle materie prime esportate, dalle quali si ricavavano le maggiori entrate, che non compensavano più le massicce importazioni di beni di consumo e mezzi di produzione che la produzione locale non era in grado di fornire. Ciò avveniva sullo sfondo internazionale delle crisi valutarie del 1992 in Europa e in Giappone, del crollo del Messico del 1994 – la sua ricaduta su altre economie sudamericane fu chiamata “effetto Tequila” – nel crollo della Russia del 1997 e nella profonda crisi delle Tigri asiatiche del 1997/98.

Il debito estero argentino dal 1983 in un decennio quadruplicò; il Paese divenne insolvente nei confronti dei creditori internazionali; le riserve auree della banca centrale si svuotarono; i risparmiatori acquistarono dollari, scambiati con un’artificiosa e irreale parità di cambio col peso, vuotando le riserve in dollari del Banco Central; si intensificarono i massicci trasferimenti di denaro privato verso la Spagna e la Svizzera.

La parità col dollaro era stata introdotta, sull’esempio del Brasile, nonostante i modesti scambi commerciali tra i due paesi, allo scopo di frenare la svalutazione interna, ma bloccava le sue esportazioni. Si invertì il flusso degli investimenti esteri nel paese; infine le banche bloccarono i depositi dei clienti, che potevano ritirare solo 250 pesos la settimana.

La corruzione dilagava. Ogni giorno fallivano grandi e piccole imprese; la disoccupazione cresceva di conseguenza: in pochi anni il 60% degli argentini precipitò sotto la soglia della povertà e il 20% si trovò nella miseria più assoluta.

Tutti gli interventi economici ottenuti dal FMI furono, come al solito, vincolati a forti riduzioni della spesa pubblica in ambito di sostegno alla fasce più deboli e alla drastica riduzione, praticamente l’eliminazione, di quel che rimaneva dello Stato sociale. Si imposero anche ulteriori privatizzazioni come garanzia dei grandi investitori stranieri, tra cui importanti banche italiane che hanno rivenduto le obbligazioni dello Stato argentino ai loro clienti.

Tra brevi e fiacche riprese e crisi sempre più profonde si giunge al 2001 quando il presidente De la Rua è costretto a fuggire in elicottero dalla Casa Rosada sotto la pressione popolare; nell’arco di meno di un mese gli succedono ben cinque presidenti.

Il nuovo esecutivo varò un pacchetto di misure per il “deficit zero”: il pareggio tra gli incassi e le spese dello Stato comportò tagli a stipendi e pensioni. Nonostante questi provvedimenti e data l’insostenibile situazione economica, il governo nei primi giorni del 2002 fu costretto a sganciare il cambio del peso dal dollaro, dopo 10 anni di parità, e a svalutare il peso con una perdita immediata del 70% rispetto al dollaro. I conti nominati in dollari depositati nelle sue banche furono convertiti in pesos svalutati: ci furono mostrate le code dei risparmiatori davanti alle banche per cercare di ritirare i depositi. Lo Stato dichiarò di non essere in grado di rimborsare i prestiti internazionali, equivalenti a 94,3 miliardi di dollari.

Il fallimento, il “default”, dell’Argentina era una realtà. Fu “presa in carico” dalla finanza internazionale allo scopo di salvare il salvabile dei suoi investimenti, e al tempo stesso di permettere allo Stato debitore di riprendere a produrre per pagare quei debiti.

Ovviamente sulle spalle dei lavoratori argentini, che saranno sottoposti ad ulteriore sfruttamento: non sono gli spericolati artifici della “finanza creativa” a far nascere ricchezza, solo il lavoro genera nuovo valore. La parte di lavoro non pagato agli operai, il plusvalore, trattenuto dai capitalisti è servito, in questo caso, a ripianare i conti in rosso: più sfruttiamo, prima ne usciamo! I salari, infatti, rimasero bloccati a prima della svalutazione.

Nello stesso anno la crisi si espande anche al vicino Uruguay.

Fu ritenuta la più grande operazione di ristrutturazione di un debito della storia: interessava il 53% del debito del Paese con titoli collocati in 152 emissioni, effettuate in 7 valute diverse e detenuta da 700mila soggetti diversi. Vista la sua complessità intervennero 7 gruppi bancari stranieri e 3 locali per mediare coi diversi detentori dei titoli e come garanzia furono bloccati tutti i loro depositi e crediti esteri.

Il 22 settembre 2003 il governo argentino comunicò il piano di ristrutturazione del debito, in conformità a quanto discusso alla riunione del FMI tenuta a Dubai due settimane prima: ai detentori dei titoli del debito era offerto il rimborso, tramite nuove emissioni, di solo il 25% dei titoli in default e la cancellazione degli interessi su quei titoli dal gennaio 2012, equivalenti a ben 11 miliardi di dollari. Ai creditori fu offerto un piano peggiore rispetto a quello per il fallimento della Russia del 1998, che rimborsò il 35% del debito, o dell’Ecuador nel 2000 che ne rimborsò il 40%.

Ovviamente quest’offerta fu rifiutata dai detentori dei titoli sottoposti a sospensione di pagamento, che per loro significava, in effetti, un mancato rimborso del 90% del valore totale comprensivo di interessi e quota capitale; inizia così un lungo contenzioso sulle rettifiche al piano, nonché azioni giudiziarie di varie associazioni di creditori, specialmente in America, che non si sono ancora concluse.

La ripresa

La ripresa dell’economia argentina si ha per una serie di congiunture favorevoli. Per primo, non pagando più i debiti internazionali, le deboli risorse rimaste poterono essere impiegate nel risanamento economico e produttivo; secondo, la forte svalutazione del peso favorì l’esportazione delle materie prime, cereali, lana, carne, petrolio, fortemente richieste dalla dirompente economia cinese e indiana, che divennero i primi compratori della “super-soia” transgenica argentina e dei suoi derivati.

Nel 2010 la produzione di soia argentina, primo produttore mondiale, è stata di 24.952 milioni di tonnellate, seguono il Messico con 13.668 e gli Stati Uniti con 8.355. In pochi anni il prezzo, più che triplicato, generò grande afflusso di valuta estera, specialmente dollari ed euro, mentre il peso andava lentamente rivalutandosi sul dollaro, segno del miglioramento economico.

Presto ci sarà il problema dell’esaurimento del suolo legato alla monocoltura intensiva, ma al capitalismo interessa solo il profitto “tutto e subito” e del domani niente importa. Solo il comunismo pianificherà le produzioni necessarie al sostentamento secondo un attento piano di specie.

Il grande avanzo commerciale ha permesso nuovo sostegno allo Stato sociale e incentivi alla reindustrializzazione, con ripresa delle importazioni e il ritorno degli investimenti esteri, affidando a maggiori “controlli” il compito di evitare o contenere le “speculazioni”.

Le riserve del Banco Central nel 2005 raggiunsero i 28 miliardi di dollari, permettendo di rimborsare nel gennaio del 2006 una prima parte del suo vecchio debito “scontato”. Sempre in quell’anno il governo argentino dichiarò all’improvviso di poter pagare, tramite le sue riserve di valuta, l’intero debito verso il FMI di 9,8 miliardi di dollari, per evitare rinegoziazioni e aver maggiore indipendenza da esso.

Secondo le statistiche ufficiali argentine (INDEC) leggiamo la tabella di marcia di questa ripresa attraverso l’andamento del Pil, che sarebbe aumentato dell’8,8% nel 2003, del 9,0% nel 2004, del 9,2% nel 2005, dell’8,5% nel 2006 e dell’8,7% nel 2007.

I salari aumentarono a una media del 17% annuo, ma con un’inflazione media del 14% ben poco rimaneva ai lavoratori.

La distribuzione della ricchezza vedeva il 10% più ricco della popolazione avere un reddito 31 volte maggiore del 10% più povero. Tutto regolare nel capitalismo, anche se d’ispirazione peronista!

Sempre dai loro dati statistici, riportati da uno studio dell’ambasciata italiana nel paese – prima che l’Economist nel 2012 dichiarasse di non pubblicare più le statistiche ufficiali argentine perché in netto contrasto con analoghe di istituti indipendenti e sospettate di essere volutamente e fortemente corrette al meglio – proseguiamo con i numeri.

Nel 2009 il Pil sarebbe stato di 307 miliardi di dollari, che cresce a 368 nel 2010, cresce ancora a 401 nel 2011, mentre per il 2012 era prevista la cifra di 420 miliardi di dollari. Di conseguenza anche il Pil pro-capite salirebbe: 7.643 dollari, poi 9.092, poi 9.900 e stimato a 10.200 nel 2012.

La crescita del Pil reale, sull’anno precedente, parte dal +0,90% nel 2009, +9,2% nel 2010, inizia a scendere a +8,8% nel 2011 ed è previsto +4,6% nel 2012, segno dell’inizio del rallentamento. Infatti, la bilancia commerciale ha quest’andamento: nel 2009 segna 16.886 miliardi di dollari di attivo, che scendono a 11.630 nel 2008, poi ancora 10.347 l’anno dopo ed è stimata a 7.000 nel 2012.

La crisi mondiale, con il forte rallentamento dei capitalismi più forti, determina la netta caduta di richiesta di materie prime e il crollo delle esportazioni dall’Argentina, sua vera unica forza economica.

L’andamento dei consumi privati ne ha risentito in questa misura: +0,8% nel 2009 rispetto l’anno precedente; +9,1% nel 2010; +9,5% nel 2011 e previsto +5,0% nel 2012. Il debito pubblico sale considerevolmente con quest’andamento: 147,1 miliardi di dollari nel 2009; 164,3 l’anno successivo; sale ancora a 175,3 nel 2011 ed è stato stimato in 180 per il 2012.

Gli investimenti diretti stranieri parlano di 12.063 miliardi di dollari nel 2009 e di 13.392 l’anno dopo, poi non ci sono più dati certi, soprattutto dopo la nascita della nuova compagnia petrolifera YPF (Yacimentos Petroliferos Fiscales) sorta dopo la nazionalizzazione unilaterale della spagnola Repsol, definita però da tutti “espropriazione illegittima” che ha messo in serio allarme gli investitori stranieri. Non fu una brillante operazione finanziaria perché per sostenere gli alti costi di esercizio il governo dovette attingere ai fondi pensione dei contribuenti.

Verso nuove crisi

Questi sono evidenti segni che è prevista un’altra grande crisi che, se solo accennata nelle statistiche, è invece ben presente nelle cronache che ci mostrano le piazze di Buenos Aires nuovamente piene di manifestanti che protestano per le loro infelici condizioni, nonostante i pomposi e arroganti “tweets” e statistiche della Kirchner, che non fanno altro che confermare i sospetti dell’Economist! Come dobbiamo considerare quelle statistiche che ci parlano di un tasso di disoccupazione che scende dal 25% del 2002 all’attuale 7,1% e il reddito medio pro-capite salito dai 2.670 dollari del 2001 agli attuali 7.400 se una folla di 200 mila inferociti il 13 settembre scorso ha affrontato i manganelli, i lacrimogeni e gli assalti della polizia in Plaza de Mayo?

Al momento la crisi reale è affrontata con la solita ricetta del nazionalismo, rispolverando la questione delle Malvinas-Falkland, un po’ di populismo peronista, con la ripresa del completo controllo del Banco Central, che quindi trasferisce i debiti al governo o stampa denaro secondo le volontà del governo stesso, e qualche nazionalizzazione qua e là cercando di non colpire troppo a fondo gli espropriati i quali non possono far altro che aspettare una futura resa dei conti.

Ma le cose si complicano anche sul piano internazionale perché i grandi investitori stranieri non si sono scordati dei loro crediti e dopo la temporanea moratoria, sono tornati con forza all’attacco per ottenere altri rimborsi. Questo nonostante che il FMI avesse mantenuto da anni un atteggiamento favorevole verso l’Argentina, com’è emerso da un’inchiesta indipendente, richiesta dallo stesso FMI, chiamata a valutare l’operato del consiglio direttivo del FMI, segno che ci sono forti contrasti in merito alla gestione della vicenda.

La nuova presiedente del FMI, Lagarde, ha cambiato completamente l’atteggiamento del Fondo verso l’Argentina, emettendo una “dichiarazione di censura” verso quel paese, intimando di correggere ”le inesattezze sugli indici di inflazioni ufficiali” entro il 29 settembre 2013, dopo di che ha minacciato la possibile espulsione dal FMI, con la perdita degli “aiuti”, che sono la loro unica fonte di credito internazionale.

Inoltre, secondo la Commissione europea, la finanziaria Clearstream, che gestisce quasi in regime di monopolio il mercato di quei fondi in Europa, avrebbe operato come “camera di compensazione” nella gestione dei titoli che finanziavano il debito pubblico e privato argentino attraverso un sistema illegale di conti segreti, molti dei quali riconducibili all’americana Citybank che possedeva una larga parte del debito privato argentino. Da lì l’ipotesi di evasione fiscale a livello globale e riciclaggio di denaro.

La Elliot Capital Management, una finanziaria con sede legale nel paradiso fiscale delle Isole Cayman specializzata nel mercato dei “fondi avvoltoio”, cioè l’acquisto a prezzi stracciati di titoli praticamente non esigibili come quelli argentini, sia nel 2002 sia nel 2010 ne aveva rifiutato la “ristrutturazione”, cioè il rimborso parziale, accettato dal 92% dei creditori, procedendo indipendentemente per vie legali. Ha richiesto il pagamento per intero dei suoi crediti e ha perseguito il suo scopo in diversi tribunali del mondo riuscendo ad ottenere pochi mesi fa da un tribunale del Ghana il sequestro di una nave militare argentina agli ormeggi nel porto di Accra. Successivamente un giudice del tribunale di New York ha condannato il governo argentino a pagare 1,3 miliardi di dollari alla Elliot C.M., corrispondenti al valore per intero dei titoli più gli interessi maturati dal 2001. La sentenza, che favorisce la Elliot C.M. rispetto gli altri creditori nell’agenda dei rimborsi, è stata subito impugnata sia dall’Argentina sia dagli altri creditori. Se passasse quella motivazione anche nel recente caso della ristrutturazione del debito greco si potrebbero invocare due pesi e due misure.

Lasciando da parte le manovre degli avvoltoi della finanza, i pochi ma significativi dati prima presentati rivelano che il tanto declamato boom argentino è terminato, la precedente crisi non si è pienamente conclusa e si sta per ripresentare con gli interessi maturati e, sull’onda della generale crisi economica mondiale, non è da escludere che precipiti il paese in una crisi ancora peggiore della precedente trascinando nel crollo, con effetto domino, anche parte dei suoi creditori.

Il proletariato argentino per spezzare le catene che lo opprime, tanto economiche quanto ideologiche, nazionalismo e peronismo compresi, dovrà collegarsi al suo partito di classe rivoluzionario e unire la sua lotta con quella del proletariato di tutta la terra, per abbattere il capitalismo e le classi che lo sostengono.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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