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Ovazione a Dublino

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(5 Settembre 2010) Enzo Apicella
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La tratta degli schiavi dall’isola di Gorée (Senegal) alle Americhe

(29 Maggio 2013)

esclaversgorèe

L’Isola di Gorée, “Bir”, che in senegalese vuol dire “ventre muliebre”, si trova a tre chilometri di distanza da Dakar, capitale del Senegal. Oggi l’isola è un paradiso del turismo e vive di commercio. Dichiarata patrimonio dell’Umanità dall’ONU nel 1978, Gorèe ha rappresentato, per chi l’ha attraversata in catene fin dal lontano 1444, “la porta per l’inferno”, della schiavitù, giogo a cui sono stati sottoposti milioni di uomini e donne africani, strappati alla loro terra ed inviati, con le imbarcazioni portoghesi, spagnole ed olandesi, nelle Americhe del Sud e nei Caraibi per lavorare nei campi di cotone e canna da zucchero. Oggi, chi visita l’isola, si trova di fronte ad una meravigliosa “cartolina illustrata” : chilometri di spiaggia bianca, un oceano meraviglioso e può raggiungere Dakar con un comodo battello che fa la spola da Gorè al continente. Inoltre, i turisti possono visitare oltre alla “Maison des esclaves”, la Moschea, costruita nell’Ottocento, il “Museo della Donna”, che contiene molti degli antichi strumenti femminili di lavoro, edificio a cui si affianca il Laboratorio biologico del mare, che raccoglie 750 specie di pesci e 700 esemplari di molluschi. .
L’isola è dunque molto interessante per chi ci trascorre le sue vacanze. Tuttavia per gli uomini catturati dai negrieri essa ha rappresentato solo l’ultima tappa di un lungo e sofferto cammino verso lidi sconosciuti e lontani. Perché ricordare questa isola? La risposta si trova nel libro di Ndondo Diop e Giuseppe Cecconi (Le catene di Goré. Dal Senegal all’America senza ritorno, Giovane Africa Edizioni, 2011) : l’isola di “Bir” è un luogo simbolo dove per tre secoli si è praticata la tratta di milioni di esseri umani che, imprigionati nella “Maison des esclaves”, venivano venduti all’asta dagli “affrancati”, cioè degli ex schiavi che lavoravano al servizio dei negrieri portoghesi o spagnoli. Questi uomini, avevano il compito di “palpare i muscoli” degli schiavi, per metterne in mostra le doti fisiche. Una volta acquistata la partita di “merce” umana, i nuovi proprietari l’inviavano direttamente al galeone attraccato all’imbarcadero, facendo passare i prigionieri incatenati attraverso il lungo e buio corridoio della “Maison des esclaves”. Al suo interno i prigionieri vivevano in condizioni disumane, descritte, nel 1964, dal reporter Rostard Kapuscinski che definisce l’isola “una prigione a cielo aperto per gli schiavi che vi erano condotti in catene, dopo essere stati rastrellati nelle zone interne del continente”. Gli uomini e le donne venivano sospinti verso il luogo dove oggi sorge Dakar e rinchiusi nella “Maison des esclaves” che si componeva di due piani : quello inferiore era destinato ad accogliere gli schiavi, mentre il secondo era abitato dai negrieri e dai compratori. Dopo la vendita, i proprietari pagavano la “merce umana” in natura con oggetti di scarso valore : collanine, specchi, ciondoli. All’arrivo in America la nave scaricava gli schiavi e caricava balle di cotone, di tabacco o quintali di zucchero che la medesima nave riportava in Europa. Questa merce preziosa, a cui spesso si aggiungeva il cacao, era rivenduta al dettaglio dagli armatori; i proventi ricavati da questa vendita veniva riutilizzata per finanziare nuovi carichi di schiavi da inviare nelle Americhe o nei Carabi.
Tuttavia, prima di arrivare a Gorée, gli uomini e le donne incatenati,marchiati a fuoco perdevano ogni legame familiare, non avevano più un nome proprio, ma assumevano quello che gli imponevano i nuovi padroni e da loro prendevano anche il cognome. Così, ridotti a mera proprietà, questi “dannati della terra”, venivano portati in altri fortini e carceri che sorgevano in Benin, nella Guinea, in Costa d’Avorio, nella Namibia, in Ghana, in Nigeria, nel Togo. Qualcuno tentava la fuga,ma se non veniva ucciso subito, veniva punito dai negrieri con il taglio di un orecchio, oppure i legamenti delle ginocchia. Inoltre in Francia, nel 1685 venne anche promulgato un “Codice Nero” che prescriveva i sistemi da utilizzare per tenere a freno le “intemperanze” o i tentativi di fuga degli schiavi. Per gli africani, tuttavia, è Gorèe a racchiudere e rappresentare tutti gli altri luoghi di prigionia dove erano condotti gli schiavi prima di raggiungere il Senegal e la “Maison des esclaves”che nei secoli è diventata sinonimo di schiavitù, di tratta degli esseri umani: azione dichiarata dall’Onu “un crimine contro l’Umanità”.
I galeoni portoghesi, spagnoli ed olandesi, nei tre secoli in cui si è andato sviluppando lo schiavismo, catturarono circa 10 milioni di Africani che vennero inviati nelle Americhe e nei Caraibi con circa 40.000 viaggi nell’Oceano. Durante la navigazione i galeoni affondati furono 2160 e 600 mila i morti annegati o divorati dagli squali. In ogni caso, durante le traversate, si calcola che un prigioniero su cinque moriva per gli stenti, le malattie e la fatica. I dati statistici non sono completi, perché mancano numeri certi sull’intera popolazione africana resa schiava nel corso dei tre secoli. Si può comunque parlare di circa 20 milioni di uomini, donne e bambini deportati nelle Americhe e nei Caraibi e, di dodici milioni di sopravvissuti al viaggio e alle malattie, derivate dall’acclimatazione geografica o contratte nel primo anno di permanenza nei campi di raccolta del cotone e dello zucchero. I Portoghesi che per primi la raggiunsero la chiamarono “Isola delle Palme” (1444); successivamente sopraggiunsero gli Olandesi che la chiamarono “Buona rada”. Con l’arrivo dei Francesi “Bir” diventò l’attuale Gorée.
Ma come inizia la tratta degli schiavi? Nel 1482 il Re del Congo Caramansa inaugura una stazione commerciale fortificata portoghese, il Castello di Saò Jorge da Mina, edificio che diventerà, tra il 1471 ed il 1482, la base commerciale per le Americhe e porto di attacco dei galeoni carichi di schiavi in partenza per il Nuovo Mondo Nel 1444, i Portoghesi furono i primi europei a catturare gli schiavi africani con una spedizione guidata da Lancarote de Logos che, risalendo il fiume Senegal, rapì i primi 285 indigeni per poi rivenderli a Lisbona. Elmina, fu creata come base logistica di reclutamento ed imprigionamento della manodopera africana utilizzata nella coltivazione della canna da zucchero nell’isola deserta di Sao Toré (Golfo di Guinea). Successivamente il castello di Saò Jorge da Mina, fu occupato dagli Olandesi. Intanto nelle Americhe, i Conquistadores spagnoli, avevano sterminato la popolazione natia delle Americhe (Maya, Incas, Atzechi), sterminata anche dalle malattie importate dagli spagnoli (vaiolo, epatite). Cos’ nel 1570 furono gli stessi Spagnoli a ricorrere direttamente alla tratta degli schiavi africani uomini e donne che sostituirono gli Indios nella coltivazione della canna da zucchero. Nel 1590 a Lima, Perù, il 40% della popolazione era formata da discendenti degli schiavi africani. Da questo momento in poi la tratta degli schiavi divenne un vero e proprio business anche per gli Inglesi e per i Francesi, che nel frattempo, avevano organizzato il loro commercio di schiavi finanziando le spedizioni con l’emissione a carico dello Stato di buoni fruttiferi; la stessa strada venne seguita dalla Germania. Molti di questi buoni fruttiferi furono acquistati anche da eminenti filosofi come Hegel, Voltaire, Locke, Montesquieu. La compra vendita di uomini in quei secoli venne anche giustificata dalla Chiesa. In particolare fu Papa Niccolò V a sostenere che gli Africani essendo non cattolici, andavano convertiti (e quindi salvati) anche con metodi coercitivi. Inutile aggiungere che questo atteggiamento tollerante verso i negrieri ed i missionari cattolici dava alimento al razzismo, idea cardine su cui si fonda lo sfruttamento degli schiavi catturati in Africa e deportati nelle Americhe del Sud.
La schiavitù terminò con l’avvento del capitalismo, che fece del lavoro salariato la principale forma di sfruttamento e lo schiavismo entrò in crisi come modo di produzione. Fu quindi dichiarato fuorilegge e sostituito da altre forme legali di sfruttamento. Inoltre, la produzione di canna da zucchero in America cessò di essere strategicamente importante per l’economia degli Stati del Sud, anche perché molti Paesi europei avevano iniziato a coltivare le barbabietole da zucchero. Anche le idee razziste – corollario culturale e religioso – allo schiavismo cessarono di essere così forti, anche se non sparirono del tutto dal panorama europeo dell’Ottocento, secolo che abolì comunque lo schiavismo in tutto il mondo. Naturalmente l’abolizione e la condanna dello schiavismo e del razzismo fu solo un operazione di facciata. La condanna colpiva apertamente un modo di produzione che con l’avvento del capitalismo era diventato anacronistico, ma come sappiamo la tratta degli esseri umani continuò indisturbata a livello illegale, ed ancora oggi ne vediamo i risultati.

Loredana Baglio

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