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(10 Ottobre 2011) Enzo Apicella

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Bangladesh, l’ultima preda delle multinazionali del tessile

(30 Maggio 2013)

Il Bangladesh è finito sulle prime pagine della stampa occidentale che scopre, con ipocrita orrore, le condizioni spaventose di lavoro degli operai tessili nel paese solo dopo la tragica catastrofe provocata dal crollo di una fabbrica lo scorso aprile che ha provocato la morte di più di 1.200 lavoratori, principalmente donne.

Ricordiamo brevemente la storia del Bangladesh, paese del subcontinente indiano situato a nord del Golfo del Bengala, quasi interamente circondato dall’India. È uno dei frutti avvelenati della divisione delle Indie Britanniche nel 1957, quando divenne la parte orientale del Dominion del Pakistan, fondato sulla religione maggioritaria dell’islam. Il Bangladesh è indipendente dal 1971 quando fu abbandonato dal governo centrale all’epoca di una catastrofe naturale e dopo una guerra di indipendenza sostenuta dall’India e dal suo alleato sovietico. Su 144.000 chilometri quadri abitano in 152 milioni, arrivando alla densità enorme di 1.054 abitanti per chilometro quadro, la maggiore del mondo. Ha poche risorse minerali ed è spazzato di frequente da cicloni ed inondazioni. Il suoi politicanti, organizzati attorno ad una pseudo repubblica, sono fra i più corrotti al mondo. Il 40% degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà (è alla posizione 146 su 182 paesi classificati secondo l’Indice di sviluppo umano).

Il Bangladesh è l’ultimo protagonista nel fortunoso viaggio mondiale dell’industria tessile, da sempre alla ricerca di paesi fabbrica dove i profitti potessero essere i più elevati, cioè i salari più bassi. Ciò che ha permesso questa notevole mobilità, è il basso investimento necessario per impiantarsi in una zona: basta una numerosa manodopera, poco qualificata e, evidentemente, affamata. Questo è più complicato e costoso per altre industrie, come l’industria pesante, benché oggi tutto sia da attendersi da un Capitale incalzato dalla crisi economica.

Il ciclo si è così riprodotto da un paese ad un altro: una fase di crescita frenetica dell’industria tessile, messa in moto sulle spalle di una classe operaia super sfruttata, permette ai capitalisti profitti enormi, successivamente reinvestiti in altri settori. Il settore tessile declina per i miglioramenti conquistati dal proletariato, ed il capitale, da quello dei piccoli imprenditori a quello delle multinazionali, è trasferito in un altro paese con i costi di fabbricazione più bassi.

L’inizio di questa moderna epopea del tessile parte dal Regno Unito che nel 18° secolo divenne, grazie al cotone della sua colonia indiana, la fabbrica tessile del mondo, poi, nel 19° secolo, questa produzione si spostò nel Nord Est della Nuova Democrazia americana, e all’inizio del 20° nel Sud di quel paese dove lo schiavo negro era divenuto ormai un salariato. Dopo 80 anni, sono i paesi dell’Asia ad entrare in questo potente meccanismo: la Cambogia, il Vietnam, l’India, lo Sri Lanka, la Cina, ed infine il Bangladesh. Numerosi paesi asiatici si sono così agganciati alla industrializzazione mondiale.

In Bangladesh, che ormai ha il triste onore di offrire la manodopera meno cara del pianeta, l’industria tessile è apparsa negli anni ’70 e vi ha conosciuto un vero boom negli anni ’90.

In Europa il capitalismo ha ormai abbandonato l’industria tessile nazionale mettendo fine al protezionismo ed offrendo ai paesi “meno sviluppati” l’accesso al mercato della comunità europea senza tasse né quote. Qui un altro esempio della fase imperialista del Capitale il quale, per quanto si appoggi sulle istituzioni della “sua” nazione, vi distrugge posti di lavoro, licenzia i proletari “nazionali” per correre verso contrade più allettanti per il profitto e dove il proletariato è senza difesa.

Il Bangladesh già nel 2011 era un forte fornitore di tessuti in Europa, dopo Cina e Vietnam; nel 2013 ha superato Turchia ed India! Nel 2011 l’industria tessile costituiva il 13% del Pil del paese. Questo settore chiave dell’economia rappresenta nel 2012 l’80% delle esportazioni del paese, delle quali l’80% verso l’Unione Europea. Il Bangladesh fa concorrenza infatti alla Cina, dove i salari degli operai tessili sono aumentati più velocemente in ragione della combattività del proletariato e dove già le imprese si spostano verso altri settori. Per i grandi marchi del mercato dell’abbigliamento la Cina non è più la fabbrica “felice”, la sua manodopera è più esigente e, di conseguenza, i profitti di questi grandi monopoli sono più bassi. Così il Bangladesh è divenuto la enorme fabbrica di questi predatori: con da tre a quattro milioni di lavoratori, ripartiti in 5.000 fabbriche, ha soppiantato i vicini indiani, pakistani, vietnamiti, cambogiani e indonesiani. Esperti americani prevedono che la produzione tessile del Bangladesh si raddoppierà da qui al 2015 e triplicherà al 2020!

Il paese non è ancora dotato di solide infrastrutture, particolarmente nei trasporti, nell’elettricità e nella sanità, ma i “diritti” dei lavoratori sono anche poco “diffusi”. Esteso è anche l’utilizzo del lavoro dei bambini (il 13% di quelli fra 7 e 14 anni, secondo l’Unicef). Le eleganti griffe dell’abbigliamento rispondono stupite, o sventolano falsi codici di buona condotta, di garanzie sulle condizioni di lavoro, inviano ispettori per calmare le associazioni dei consumatori “etici”. Ma la lunga catena dei sotto fornitori nasconde il cammino dal committente agli operai, facendo svanire ogni velleità di controllo sulle reali condizioni di lavoro. Fortunatamente il proletariato del Bangladesh non si attende la sua difesa dalla “buone intenzioni” occidentali! Ed è questo di cui il Capitale ha paura.

Il proletariato del tessile, costituito prevalentemente da donne, rappresenta il 40% della manodopera industriale del paese. Le prime ad offrirsi sono state le reiette nella società islamica, le ripudiate, le vedove, le divorziate, poi hanno seguito le altre in condizione di bisogno, che sono la maggioranza della popolazione, malgrado l’ostilità degli ambienti tradizionalisti musulmani: era ben chiaro che questo lavoro femminile metteva in discussione le strutture patriarcali emancipando le donne che potevano dettare le loro condizioni per il matrimonio, apportare una dote e scegliersi il compagno maritale. È questo uno dei caratteri emancipatori del Capitale che noi marxisti abbiamo sempre riconosciuto.

Ogni mattina milioni di lavoratori si avviano verso i 4.000 stabilimenti della cintura industriale della capitale Dacca. Più di tre quarti sono donne (tracciatrici, tagliatrici, cucitrici, facchini). I committenti sono le grandi marche occidentali che vi hanno delocalizzato la produzione, direttamente o tramite degli intermediari.

Le condizioni di lavoro sono così dure, gli incendi delle sovraffollate fabbriche in rovina così frequenti, i salari così bassi, che moti di protesta scuotono sporadicamente il paese, fino a rivolte della fame come quella del 2008. Le rivolte si oppongono agli imprenditori raggruppati nella Bgmea, la Associazione dei fabbricanti ed esportatori tessili. Sistematicamente represse dalle forze armate, le manifestazioni si traducono in decine di morti e centinaia di feriti. I sindacati e i loro militanti sono sistematicamente repressi. Nel 2011, per compensare l’inflazione sui prezzi dei beni di prima necessità, i manifestanti chiedevano 51 euro mensili, contro i 17 che ricevevano, mentre in Vietnam gli operai guadagnano 75 euro ed in India 112. L’orario è di 80 ore settimanali, e fino a 18 al giorno in caso di commesse urgenti. Gli operai rivendicavano anche migliori condizioni di lavoro. Nel novembre 2010 è stato raggiunto un accordo per alzare il salario minimo a 30 euro, quando che l’Asia Floor Wage, associazione regionale che rivendica salari decenti per gli operai tessili, stimava un reddito minimo vitale di 144 euro mensili. Ma questa legislazione non sarà rispettata come non lo sono state le precedenti.

La catastrofe del 24 aprile scorso, nella quale è crollato un edificio, il “Rana Plaza”, che ospitava cinque laboratori di confezioni con più di 3.500 operai, era facilmente prevedibile. La vetustà era stata denunciata più volte dai lavoratori che inutilmente indicavano l’aggravarsi delle fessure nei muri. Cronaca di un massacro annunciato. Più di 1.200 vittime sacrificate sull’altare del profitto capitalista! Nemmeno i più induriti possono chiudere gli occhi davanti a questa ecatombe!

Ma anche stavolta i proletari, in maggioranza donne in un paese musulmano, si sono fatti intendere e manifestazioni quasi quotidiane hanno impedito alle industrie tessili di funzionare regolarmente. L’80% degli operai ha cessato il lavoro nella zona industriale di Ashulia, vicino a Dacca, per chiedere aumenti di salario e la pena di morte per il proprietario dell’immobile. All’inizio di maggio la Bgmea ha fatto chiudere le fabbriche che lavorano notoriamente per i grandi marchi americani (Wal Mart, Gap), inglesi (Mark & Spencer, Cand A), svedesi (H&M), spagnoli (Zara), francesi (Carrefour, Auchan, Lecler), italiani (Benetton), a causa di “agitazioni fra la manodopera”, e un accordo è stato precipitosamente firmato fra le confederazioni sindacali “mondiali” Industrial All Global Union e Uni Global Union e 31 marche occidentali di abbigliamento al fine di garantire la sicurezza delle fabbriche tessili; la firma di questo accordo era prevista fin dal settembre scorso ma le multinazionali facevano ostruzionismo! Solo il 17 maggio le fabbriche hanno riaperto, benché l’accordo non ne riguardi in realtà che un quinto.

Il Capitale, dal piccolo e disperso al grandissimo e concentratissimo, preoccupato per i dividendi, dovrà forse cercare un altro paese, con un altro proletariato, che possa offrire costi di lavoro altrettanto bassi. Può essere la vicina Birmania, l’Etiopia, il Kenya? Nemmeno l’Africa, stima il New York Times citato da Le Monde, dove il costo della vita è troppo elevato perché i salari possano essere più bassi che in Bangladesh, sembra consigliabile. E bisogna pensare anche alla stabilità politica del luogo. Insomma bisognerà tagliare sui profitti e alla fine far pagare più caro il consumatore occidentale.

La specialista degli affari economici della Commissione europea a Dacca ha esclamato: «Tutto indica la responsabilità dei proprietari delle fabbriche, dei committenti e, alla fine, dei consumatori. Chi acquista una maglietta a sei euro dovrebbe sospettare che è stata fabbricata da gente che lavora in cattive condizioni». Alla fine quindi sarebbero i “consumatori” i veri responsabili? La retorica puritana dei borghesi! verso i salariati e non per chi incassa i profitti! Vorrebbero che il proletario d’occidente, che vede il suo tenore di vita diminuire, si dividesse invece di unirsi ai suoi fratelli d’Asia.

È purtroppo vero che una parte del proletariato occidentale, quello che ha delle riserve, è intossicato dall’illusione della ricchezza, con tutti i suoi giocattoli informatici, con montagne di vestiti “a saldo” per coprire il suo malessere e la sua insicurezza e frustrazione quotidiana. La pletora di merci “a basso prezzo” non è che il sintomo di una sovrapproduzione del quale il Capitale non sa che farsene. La crisi economica avanza a grandi passi, la talpa scava. Il proletariato occidentale deve ritrovare il cammino della lotta di classe, combattere il suo nemico comune, il capitale e i suoi mercenari borghesi che vivono del sangue dei lavoratori, occidentali e del resto del mondo, al fine di ritrovare tutta la sua umanità e la sua generosità.

Come i monopoli, che oggi sono chiamati multinazionali, queste grandi imprese industriali appoggiate dalla grandi banche, non conoscono frontiere, ed è a loro disposizione il proletariato del mondo intero, che possono sfruttare come loro conviene, così è per il proletariato che si deve organizzare sul piano sindacale e politico a scala internazionale in vista di rovesciare con la forza delle armi la borghesia, questa classe di parassiti, al fine di abolire i rapporti di produzione capitalistici. Solamente allora, sotto l’azione della dittatura del proletariato, potranno sparire le classi e l’oppressione di classe.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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