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Turchia, il futuro dopo la rivolta di Gezi

(7 Giugno 2013)

pentolgezi

C’è il buio nel cupo volto di Erdogan che annuncia un ritorno a casa per dare seguito alla grandeur sua e degli affari. Spera di avere con lui gli attivisti che già menano le mani come nella nativa Rize e le Forze dell’Ordine che si riconoscono nel collega morto. Il premier rilancia epiteti aggressivi chiamando terroristi e loro amici anche i giovani festosi e pacifici come la “ragazza in rosso” assurta a simbolo del rifiuto di Gezi. Sull’altro fronte ricorrono i paralleli sulle lotte, sindacali quelle di tre anni or sono, con già sperimentati sit-in diventati quasi contropotere. Fu definita la “Comune Sakarya” la tendopoli sistemata ad Ankara dai lavoratori della Tekel, la manifattura di tabacchi e alcolici privatizzata nel 2000 e poi venduta alla British American Tobacco per 1,73 miliardi di dollari. Quella scelta portò alla fine del 2009 la chiusura di 12 fabbriche e la mobilità di diecimila dipendenti che si pensava di ricollocare altrove mentre Erdogan diceva: “Non possiamo distribuire sussidi a lavoratori che non producono”. Anche allora il premier ripeteva la litanìa di gruppi estremisti sostenitori di una lotta di “retroguardia”. Al liberismo, islamico o laico, l’opposizione a privatizzazioni, licenziamenti, riduzione dei salari e dei diritti paiono lotte estremiste senza senso. Terrorismo sociale.
Quando gli accampamenti operai finirono sotto le sedi dell’Akp e dello stesso sindacato TÜRK-IS dopo le cariche si cercarono compromessi salvafaccia col ministro del Lavoro Yazici e delle Finanze Simsek, poi uscito dal partito. Quella mobilitazione fu una parziale vittoria della piazza, può far riflettere come l’unità d’intenti in campo economico aveva visto scegliere la privatizzazione dal premier socialdemocratico Ecevit e continuarla da Erdogan. Dunque Chp e Akp, divisi per il potere ma uniti nella diffusione del sistema capitalistico, che aveva avuto campioni del liberismo in patrioti convinti come il presidente Özal, morto nel ’93 per un avvelenamento rimasto misteroso. Non scopriamo oggi che il percorso modernizzatore dell’islamismo moderato (e politicamente conservatore) mutua i princìpi di mercato già fatti propri dallo Stato kemalista nella versione antica, in quella golpista e poi patriottico-liberale e repubblicana. Capitani d’industria e manager turchi appartengono a famiglie che si legano ai vari partiti e vengono da questi favorite, oppure fluttuano perché il business è incolore e inodore. Noti i casi di Dogan, boss della potentissima holding di media (Hurriyet, Posta, quotidiani sportivi, rotocalchi, tivù e la figlia piazzata nella Tusiad, la Confindustria locale) di fatto oppositore del partito islamista.

Mentre sull’altra sponda la famiglia Boydak di Kayseri è vicinissima a Erdogan, e poiché il suo potere dura da un decennio tante nuove “tigri anatoliche” hanno sposato il suo piano di modernizzazione: c’era da guadagnare in ogni senso. Ma negli ultimi mesi, nonostante l’ambiziosa agenda internazionale che pure l’ha esposto a critiche, e soprattutto ora con la polemica su Gezi park, l’erosione del potere personale del primo ministro risulta evidente. La sua arroganza inizia a creare imbarazzi e dissensi nello stesso partito. Non solo da parte di Gül che, se le cose non precipitano per tutti, darà vita a un duello all’ultimo voto alle presidenziali, ma da altre componenti. Se è vero che Fetullah Gülen è l’ispiratore occulto del sistema islamico del’Akp pur non facendo parte della formazione politica, i circoli più puramente gülenisti palesano malumori per i colpi di testa erdoganiani, per il suo attaccamento al potere in aperto scambio di favori con un’ampia cerchia di lobbies affaristiche. Sintomi si percepiscono sul quotidiano Zaman, ispirato e finanziato dal movimento, e anche su Yeni Safak media più vicino all’Akp che condanna il proliferare dei centri commerciali proposti come luoghi d’incontro per cittadini-consumatori (sic, ma da noi è lo stesso). Digeriti nei paesoni dell’Anatolia profonda, meno nella cosmopolita Istanbul.

Eppure l’inquietudine d’una buona fetta di gioventù può forse trovare solidarietà nell’opposizione ufficiale, non progetti alternativi dal liberismo condiviso con l’Akp. Seppure i bilanci vanno (ma in questi giorni la Borsa subisce qualche tonfo) la rabbia esplode perché non si vuole vivere vigilati a vista in un orizzonte privo di risposte ai desideri e ai bisogni.

7 giugno 2013

Enrico Campofreda

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