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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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L'OCCASIONE DI ROSS@

(16 Giugno 2013)

Appare sottovalutato da molti analisti il prosieguo, in questa fase, di un processo di vero e proprio riallineamento sistemico del quadro politico italiano.
Appare in atto una crisi verticale delle forme-partito esistenti ed emerge una incapacità complessiva di trovare formule diverse rispetto all’evidente logoramento delle forme personalistiche e/o acchiappa tutti.
Si aprono, così, spazi del tutto inediti per una offerta politica di soggettività strutturata sul versante di una sinistra che, prima di tutto, sappia dimostrarsi essere di coerente opposizione.
Emerge la centralità della sovrastruttura politica.
Torna i anche il “caso italiano” in una dimensione particolare, rispetto al passato, quando lo si indicava come esempio di democrazia avanzata; torna perché, rispetto all’Italia, le condizioni della globalizzazione e della crisi finanziaria hanno prodotto un effetto specifico sul quale spero di poter sviluppare una breve ma coerente analisi.
Tralascio, ovviamente, la descrizione dell’analisi del fenomeno della globalizzazione (o almeno della fase così giornalisticamente denominata da circa una dozzina d’anni, perché, in effetti, i fattori di globalizzazione dell’economia hanno radici antichissime) e dei fattori– terrificanti – che hanno dato origine alla crisi finanziaria poi trasformatasi in quella crisi economica (è sempre bene distinguere) di enormi dimensioni che sta impoverendo milioni e milioni di persone.
Si è molto discusso, in questo frangente, della dimensione europea, del dominio della BCE, del “deficit democratico” dell’Unione, del tema riguardante la cessione di sovranità degli Stati Nazionali ed è ancora forte la difficoltà a recuperare un’idea alternativa al negativo stato di cose in atto.
Il nocciolo del discorso riguarda però come l’Italia all’interno del quadro europeo rappresenti un’anomalia – almeno a mio giudizio – non tanto e non solo perché, unico tra i paesi dell’Unione, ha visto completamente stravolto, fin dagli anni’90, l’intero sistema politico con la sparizione dei soggetti politici “storici” che avevano determinato, da diverse posizioni e ruoli, la politica italiana per oltre quarant’anni: quella sparizione ha dato luogo a una lunghissima fase di transizione che, per varie ragioni, i governi via, via succedutisi non sono riusciti a chiudere.
Il sistema politico e istituzionale è rimasto completamente destabilizzato, e si sono creati anzi pericolosissimi dualismi sul piano dell’effettivo esercizio delle regole e prerogative costituzionali, al punto di far scrivere di Costituzione formale versus Costituzione “materiale” e su questo agganciare proposte di revisione della Carta Fondamentale basate su ipotesi di vero e proprio restringimento nei margini di agibilità democratica, come nel caso del presidenzialismo e dell’accordo sulla rappresentanza sindacale.
In Italia non si ravvedono più i termini, dal punto di vista sociale, di una “frattura” attorno alla quale schierare ideali, progetti di società, programmi politici proiettati nel medio periodo.
Questo fatto non è tanto e solo responsabilità della crisi verticale dei soggetti politici, ormai del tutto incapaci sul terreno che sarebbe stato di loro competenza dell’intermediazione, della sintesi della rappresentatività politica.
La “democrazia rappresentativa” sulla cui idea, peraltro, si era imperniata la stesura della Costituzione Repubblicana, ha finito con l’essere trascurata da tutti : una trascuratezza, un oblio, che ha rappresentato un altro fattore di questa gravissima crisi politica.
La personalizzazione, l’individualismo, il cercare di riconnettere i fili dell’agire politico esclusivamente nel senso della “democrazia deliberativa” ,pericolosamente inclinante verso la cosiddetta “democrazia di competenza, o meglio Aristocrazia Democratica come è stata definita da Ilvo Diamanti (che ha cercato di individuare i termini di una nuova oligarchia), hanno rappresentato fattori importanti nello svilupparsi dell’evidente declino della democrazia italiana.
Il punto decisivo però, mi sembra ancora un altro: ho già accennato all’assenza di una “frattura” e provo a spiegarmi meglio.
La “diversità” italiana nasce, infatti, dal processo di dismissione dell’industria pubblica, delle Partecipazioni Statali o – forse – ancor prima dagli esiti dagli esiti della nazionalizzazione dell’energia elettrica (prima anni’60): l’Italia, infatti, è rimasta priva di un’adeguata struttura industriale, perdendo pezzi decisivi, regalando alla privatizzazione (vedi il caso di questi giorni dell’ILVA di Taranto) margini di profitto enormi, senza avere nulla in cambio – tra l’altro – dal punto di vista della tutela sociale.
Ancor più emblematico il caso FIAT, azienda tenuta in piedi dalle provvidenze statali ed oggi capofila nella situazione che sto cercando di descrivere.
Eccomi al punto che mi permetto di definire del tutto fondamentale: la debolezza della struttura industriale, la crisi del sistema politico, l’assenza di una qualche idea concreta di intervento pubblico sul piano delle infrastrutture hanno generato un capitalismo, né “straccione” come si usava affermare un tempo nella vulgata amendoliana, né innovativo sul piano delle dinamiche produttive e, di conseguenza sociali.
Il capitalismo italiano si è preoccupato esclusivamente di intervenire sulla “sovrastruttura” politica , ribaltando i termini storicamente acquisiti nel rapporto classico tra struttura e sovrastruttura .
L’obiettivo è stato quello di puntare essenzialmente a stravolgere il più possibile i rapporti di forza nei confronti della classe lavoratrice, in modo da poter disporre a piacimento sia del destino degli impianti, sia del destino delle lavoratrici e dei lavoratori, al di là di qualsiasi ipotesi di innovazione tecnologica, di regolazione dei processi di delocalizzazione, di qualità della produzione e della sua essenzialità sul piano della produzione in Italia come verso le esportazioni.
Un capitalismo che fatto politica direttamente rivolgendosi prioritariamente all’acquisizione di fette di potere, al di fuori dall’intermediazione dei partiti e del parlamento, offuscando l’idea del persistere dei rapporti di classe all’interno di una indistinta filosofia del “consumatore – individuo” sagacemente orchestrata attraverso l’uso dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare della televisione, introducendo il modello della televisione commerciale diventato presto il riferimento dell’insieme dell’informazione.
Un’applicazione quasi perfetta, tanto per intenderci, di quanto contenuto nel famoso documento della “Rinascita Nazionale” elaborato nel 1975 dalla Loggia P2 di Licio Gelli: un documento rivelatosi molto più efficace di qualsiasi “strategia della tensione”, attraverso la quale pure si era proposto un fronte di conflitto che conservava però, comunque, la “dimensione di classe” come fattore comunque presente nelle lotte sociali del Paese.
La sinistra non ha saputo, o volute leggere questo fenomeno che ho cercato di descrivere e che definirei con una sola frase “destrutturazione dell’agire sociale”.
Il risultato ,in sostanza, è stato quello del completo smarrimento, almeno in Italia, del senso e della percezione di classe attorno ai nodi strutturali dell’azione sociale e politica, e si è demandato il tutto alla vacuità di uno scontro condotto attorno ai veri e propri punti di marginalità proposti proprio dall’immaginario imposto dall’esterno, dal mondo della comunicazione e di una politica all’interno della quale l’autoreferenzialità aveva ormai sostituito l’antico concetto di “autonomia”.
In questo senso si sono realizzate due operazioni di concreto abbattimento nel ruolo dello Stato: quella a livello europeo, condotta aprioristicamente al di fuori da una effettiva logica democratica e realizzata sul terreno imposto dai fautori della crisi e quello a livello di decentramento (erroneamente definito federalismo) che ha finito con l’essere fattore di allentamento nel rapporto tra i cittadini e le istituzioni.
Come riuscire ad avviare un processo alternativo rispetto a questo tipo di fenomeno?
Il recupero del concetto di “frattura principale” ed il suo riproporsi al centro del conflitto,non può avvenire semplicisticamente soltanto attraverso una sorta di evocazione.
Siamo ancora dentro ad una complessa fase di transizione e diventa centrale proprio in questo momento e ad essa andrebbero dedicate le nostre migliori energie, la “sovrastruttura politica”.
Questo è stato ben compreso, sia da parte dell’avversario “storico”, sia da parte delle nuove forze che si sono allineate all’idea padronale dell’intervento esclusivo nella direzione – appunto – della “sovrastruttura politica”.
Forze adeguatesi prontamente, anche grazie all’uso indiscriminato dei mezzi di comunicazione di massa, nel trovare forme inedite di partecipazione (primarie) e puntando – come è già stato scritto – a trasformare il cittadino in un semplice “consumatore di eventi”, quale vero e punto d’arrivo della perdita di una qualsiasi tipo di riconoscimento della dimensione sociale.
Non basta, dunque, impegnare il massimo delle nostre energie in una dimensione tutto sommato marginale, sia sul piano del rivendicazionismo sindacale (che pure va sacrosantamente esercitato), sia sul terreno di forme politiche settoriali e non ben precisate sul terreno della ricerca della “frattura” principale.
Appare urgente una riflessione collettiva su questi punti, sicuramente non individuati a sufficienza nell’occasione, per arrivare a definire il processo di costruzione di un soggetto politico che – appunto – sappia compiere un’effettiva lettura della realtà individuando nella questione politica (comprensiva di quella istituzionale) una nuova centralità.
Servirà un soggetto che, prima di tutto, faccia opposizione partendo dalla materialità della condizione di classe, oggi clamorosamente misconosciuta, principiando a quel modo a costruire le condizioni per un avvio di controtendenza, di visione “altra” costantemente e coerentemente “diversa” all’interno del prolungarsi del processo di transizione del sistema politico.
Tutto l’opposto, evidentemente, del “politicismo” di cui sembrano impregnati gli attuali partiti della sinistra d’alternativa perché si tratta di fare della politica lo strumento essenziale e decisivo per un nuovo orizzonte di liberazione sociale.
Un soggetto da costruire attorno a tre discriminanti fondamentali :

1) ALTERNATIVA: deve essere particolarmente netta l’indicazione di una alternativa, non semplicemente posta sul piano politico immediato ma come visione concreta di rappresentanza dei ceti sociali più deboli, della contraddizione di classe, di una visione di società radicalmente diversa dall’attuale;
2) AUTONOMIA: per fare in modo che la proposta di alternativa possa risultare credibile è necessario sviluppare il massimo di autonomia di pensiero e di azione, sul piano dell’espressione dei contenuti e sul piano delle dinamiche politiche. Un’autonomia che deve derivare, essenzialmente, da una capacità di rappresentare l’insieme dei soggetti protagonisti delle contraddizioni sociali dell’oggi, fornendo una capacità di sintesi programmatica e di efficace intermediazione anche sul piano della rappresentanza istituzionale. Inoltre sarà soltanto attraverso una espressione di piena autonomia, che potrà essere possibile pensare seriamente alla formazione di una nuova soggettività politica, un partito, della sinistra alternativa che è assente, in questa fase, all’interno del sistema politico italiano.
3) OPPOSIZIONE: anche questa indicazione deve risultare particolarmente precisa. Senza timori di essere costretti a fronti comuni perché “Annibale è alle porte” e senza concessioni di sorta a eventuali espressioni di ambizione soggettiva e di gruppo, mascherate magari da pseudo-intenti unitari. L’unità, indispensabile, delle forze che si richiamano all’idea dell’alternativa, potrà essere realizzata soltanto da “questa parte” del sistema politico, tra chi – appunto – si oppone prima di tutto al liberismo imperante ma pensa anche alla necessità di proseguire la lotta anticapitalistica, come è necessario in questo momento storico.

Ross@ può rappresentare in questo senso davvero un’occasione di nuova costruzione e non di semplice “tamponamento” dei guai causati nel passato da cause diverse non riconducibili semplicisticamente all’assenza di capacità d’analisi e all’ignavia conservatrice e politicista dei gruppi dirigenti:
1) Il primo punto attorno al quale misurarsi senza titubanze è proprio quello dell’identità. Un’identità fondata su di una visione di una società “diversa”; un’identità di tipo sistemico da ricercare attraverso l’elaborazione di una nuova teoria politica (“bisogna sempre avere un’idea del mondo”) fondata sull’intreccio tra contraddizioni materialiste e post-materialiste e sull’analisi del mutamento tra struttura e sovrastruttura. Sviluppiamo, in maniera molto semplicistica, un semplice elenco di queste moderne “fratture”: l’internazionalismo a dimensione sovranazionale; l’idea di un modello di Stato e dell’agire politico alternativo a quello fondato sulla riduzione nel rapporto tra politica e società e sul taglio dell’eccesso di domanda che appare dominante non solo in Occidente, almeno a partire dagli anni’80 del XX secolo sull’onda del liberismo e della concezione della “fine della storia”; la qualità dello sfruttamento del lavoro vivo in tempi di impetuosa innovazione tecnologica e di rapido mutamento nei cicli produttivi; la tematica ambientale; le questioni della comunicazione in rapporto a quello della democrazia. Temi al riguardo dei quali riteniamo comunque ancora valida sul piano dell’orizzonte ideale l’analisi marxiana, se pensiamo a temi come quello dell’“esercito di riserva” la cui creazione appare il vero obiettivo di fondo dei padroni della finanza e della politica che stanno gestendo l’Unione Europea. Soltanto la ricostruzione di un’identità può portare, attraverso la forza della lotta sociale e politica condotta da grandi masse poste in opposizione al sistema, alla rielaborazione del concetto di egemonia, che intendiamo – comunque – perseguire nell’accezione gramsciana della prevalenza dei temi etico – politici al riguardo del rozzo economicismo, nel quale sono cadute tante forze che pure erano partite da una matrice derivante dalla “sinistra storica”;
2) Il secondo punto è quello delle caratteristiche che debbono connotare questa nuova soggettività politica. Sicuramente modi e forme per arrivare a un risultato positivo saranno assai complesse e l’itinerario lungo e arduo, ma è necessario avere davanti l’obiettivo di un partito. Un partito per il quale proponiamo, proprio in ragione delle esigenze di espressione di egemonia richiamate poco sopra e in virtù del fallimento di ipotesi del passato, una forma di tipo “consiliare”. La proposta specifica di un rinnovamento reale della “forma partito” dei comunisti e della sinistra d’alternativa in Italia può quindi, a nostro giudizio, configurarsi come una proposta di “partito consiliare”. Un partito da non considerarsi come punto di mediazione tra il passato rappresentato dal partito ad integrazione di massa ed il presente che abbiamo visto connotato da un mix tra movimentismo e personalizzazione mutuato dal modello della cosiddetta “americanizzazione della politica”, come è negativamente avvenuto in Rifondazione Comunista. Un “partito consiliare” posto in grado di stabilire una dialettica forte e permanente tra il partito stesso ed i movimenti di massa, tenendo conto anche delle mutate condizioni di esistenza del sindacato, da un lato, e, dall’altro, dalla presenza di movimenti provvisti al loro interno di visioni di tipo fondamentalista, oppure portatori di visioni universali o di differenze irriducibili.
La reviviscenza della tematica consiliare risulta essenziale per risolvere i problemi teorici e strategici di un “partito dell’autonomia, dell’alternativa, dell’opposizione” che è necessario presentare oggi sulla scena politica e sociale dell’Italia, in connessione con ciò che si muove e si consolida in assonanza nella dimensione europea.
In questo senso siamo convinti che il dibattito d’avvio nella costruzione di Ross@ possa rappresentare una vera e propria “fase costituente”, rompendo con i meccanismi personalistici e centralizzatori e senza regredire verso forme politiche tendenti a negare l’esistenza di una via rivoluzionaria che, invece, è necessario continuare ostinatamente a percorrere.

Franco Astengo

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