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Storie di ordinaria follia: una corrispondenza dall’IXFIN e il ruolo dello Stato ai tempi della crisi

(18 Giugno 2013)

ixfin

Lunedì 17 Giugno 2013 22:50


Qualche giorno fa ci hanno contattato i lavoratori dell'IXFIN, per raccontarci una cosa che gli è appena successa e chiederci di dargli visibilità. Proviamo a farlo, sperando che tutti vogliano diffondere questa storia di “ordinaria follia”, che ci dovrebbe far riflettere non poco su quale sia il ruolo dello Stato e dei suoi apparati repressivi in tempi di crisi (e non solo)…

Il 17 maggio 2011 alla Provincia di Caserta c’era il “classico” presidio per sollecitare l’intervento delle istituzioni nella complessa vicenda dell’IXFIN di Marcianise (qui per maggiori info). Diciamo “classico”, perché già da cinque anni – il caso IXFIN si apre infatti nel 2006, ben prima della crisi economica mondiale – i lavoratori erano costretti a manifestare il proprio malcontento per la chiusura dello stabilimento e il mancato avvio dei progetti di rilancio.

In particolare quel giorno i lavoratori erano particolarmente esasperati: chiedevano il pagamento della Cassa Integrazione Straordinaria in Deroga, che da mesi non veniva corrisposta con grave danno per le 600 famiglie coinvolte, e in generale una discussione sulle strategie per uscire dalla situazione di impasse che la chiusura dell’azienda aveva determinato, e che le prese in giro dei politici e degli imprenditori stavano solo aggravando…

Ma si sa che i “classici” presidi dei lavoratori non vengono più ascoltati, anzi: si cerca in tutti i modi di renderli inutili. Centinaia di lavoratori vengono portati di tanto in tanto a fare una gita sotto qualche Palazzo dai dirigenti sindacali che devono far vedere che stanno facendo qualcosa, la polizia dà un tempo al presidio, la DIGOS di turno fa il giro di minacce alle teste più calde, il giorno dopo esce un trafiletto su qualche quotidiano locale e magari ogni tanto qualcuno viene fatto salire su per sentirsi ripetere le stesse quattro cose: “stiamo facendo il possibile/non possiamo fare niente/in ogni caso non dipende da noi/votateci lo stesso”.

Quel giorno i lavoratori decisero di non restare ad aspettare passivamente l’ennesimo rinvio e cercarono di entrare nel Palazzo della Provincia per chiedere con forza al presidente della Provincia e all'assessore alle attività produttive di farsi carico delle ragioni degli operai presso la Regione e per sollecitare il Governo a intervenire. Un’azione di protesta veramente minima, visto che parliamo di lavoratori costretti ormai a sopravvivere con poco più di 500 euro al mese…

E infatti lì per lì non ci furono problemi: dopo una trattativa con la polizia i lavoratori entrarono nel palazzo pacificamente, “in modo democratico e senza alcuna forzatura”, come dichiarò Arcangelo Roseto, sindacalista CGIL. Anche perché non c’era granché da interrompere: una volta entrati pacificamente nella Sala del Consiglio Provinciale, i lavoratori trovarono solo i giovani del servizio civile che erano impegnati in un corso di formazione. Solo dopo molte insistenze si presentò l’assessore provinciale Gimmy Cangiano, che disse le solite banalità...

Tuttavia pochi mesi dopo, il 30 ottobre 2011, alla vigilia di un’altra mobilitazione, i lavoratori ricevettero 18 denunce per “interruzione di pubblico servizio”. Non era la prima volta che accadeva, visto che alcuni dipendenti erano già stati raggiunti da un altro avviso di garanzia per un’altra manifestazione. Ma la notizia piombò come un macigno sulla loro mobilitazione: come ci raccontano gli stessi operai, con il senno di poi queste denunce furono delle vere e proprie intimidazioni, un deterrente per impedire alla gente di scendere in piazza. E riuscirono – anche a causa delle difficoltà specifiche della vertenza, della mancanza di determinazione nella risposta dei lavoratori, dello scoramento diffuso a piene mani in primis dai sindacati – a fermare quel poco che si muoveva.

Ma si vede che allo Stato non basta aver condannato 600 famiglie alla disoccupazione, in un territorio già devastato come quello casertano. Il 10 giugno, infatti, il tribunale ha stabilito il rinvio al giudizio per questi 18 lavoratori, fra cui i loro rappresentanti sindacali (persino quelli CISL!), confermando l’accusa di “interruzione di pubblico servizio” (ma chi stava svolgendo quale pubblico servizio? Non era forse un proprio un pubblico servizio quello che chiedevano gli operai?).

La magistratura chiude così il cerchio di una repressione che inizia già sui posti di lavoro, con i capetti servi dell’azienda e con i dirigenti sindacali il cui ruolo è sempre di più moderare, e che continua poi in piazza con i manganelli e le minacce... E chiude questo cerchio anche piuttosto rapidamente, visto che già il 15 luglio è prevista la prima udienza, mentre per le truffe padronali non si arriva praticamente mai a condanna.

Insomma, oltre al danno anche la beffa, anzi: un altro danno. Come potranno infatti pagarsi le spese processuali lavoratori che ricevono la cassa integrazione con ritardi di 4-5 mesi, che da giugno 2013 non avranno diritto nemmeno più a un euro, e che non vedono alternativa davanti a sé se non arrangiarsi o emigrare?

Non lo sappiamo. Ma quello che è certo è che fino a qualche anno fa in Italia il manganello e le denunce erano riservati in gran parte agli studenti, che andavano “educati” e “dissuasi”, e ai disoccupati e ai militanti politici, che dovevano rimanere ai margini della “società riconosciuta”... Si usavano invece raramente contro i lavoratori e gli operai, contro i “normali cittadini” che, per quanto sottomessi, erano visti dalle autorità come quel corpo sociale da includere, perché rappresentavano un bacino di voti, una garanzia di pace sociale, un popolo di bravi consumatori.

Come dimostrano gli ultimi avvenimenti, non è più questo lo sguardo che lo Stato posa su questi ampi segmenti sociali: al contrario, anche quando la rabbia operaia non esplode, o si sviluppa in forme minime (si pensi agli operai di Terni che volevano, come tante volte in passato, solo occupare i binari, o ai picchetti di sabato scorso a Pomigliano, dove un operaio è rimasto ferito e altri sono stati malmenati), la risposta degli apparati dello Stato è sempre violenta, indiscriminata.

Insomma al momento, usare la polizia e la magistratura per stroncare ogni forma di dissenso e di espressione di un malessere sempre più dilagante, è la principale e forse unica risposta elaborata in questi anni dai nostri governanti. Le altre le stiamo vedendo in questi mesi: attacco all’articolo 18, al diritto di sciopero, alla contrattazione nazionale, alla rappresentanza sindacale, a qualsiasi forma di organizzazione autonoma dei lavoratori… Ma forse anche per questo dovremmo incominciare a organizzarci seriamente: trasformando questi attacchi repressivi in forza, in maggiore solidarietà e connessione, come proprio in questi giorni ci stanno mostrando la popolazione turca.

In ogni caso non si può non concordare con il commento ironico e amaro che hanno diffuso i lavoratori IXFIN, e impegnarsi per rovesciarlo: “L'Italia è quello strano paese in cui molti milionari al governo con pensioni d'oro ordinano al popolo di tirare la cinghia, fare sacrifici e morire lavorando sino alla fine... anzi, morire senza lavorando”.

clash city workers

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