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(22 Marzo 2013) Enzo Apicella

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Turchia, cronaca di una rivolta inattesa

(18 Giugno 2013)

turkrevolt

17 giugno 2013

Mentre scriviamo continuano gli scontri in Turchia tra manifestanti e polizia; i sindacati sono stati spinti a proclamare una giornata di protesta contro le violenze inaudite messe in atto dalle forze repressive. Il governo ha subito dichiarato illegale questo sciopero. Erdogan ha gestito questa improvvisa e inaspettata mobilitazione di massa alternando continuamente promesse (false) di dialogo con la repressione più violenta (vera) che ha già fatto 5 morti, migliaia di feriti e di arrestati.
Contemporaneamente, di fronte al milione di persone mobilitate l’altro giorno contro il governo, ha chiamato a raccolta un egual numero di propri sostenitori, tanto che i giornalisti hanno scritto di due “Turchie” che si contrappongono frontalmente.

Per dare ulteriori elementi di comprensione di quanto avviene in questo paese pubblichiamo un dossier tratto dal sito dell’NPA francese.


di Robert Pelletier

Con oltre 74 milioni di abitanti, la Turchia è il terzo paese europeo per popolazione, dopo la Russia e la Germania. Con un prodotto interno lordo che la pone al secondo posto tra i grandi paesi emergenti, dietro alla Russia, e una collocazione geografica decisiva, all’entrata dell’Europa e nel cuore del Medio Oriente, la Turchia è un pezzo fondamentale dello scacchiere geopolitico di questo inizio del 21° secolo. La battaglia per la costruzione del gasdotto che permette l’approvvigionamento dell’Europa Occidentale con il gas russo, ne è l’illustrazione più visibile.

Sfide politiche e militari. La Turchia, alleata storica e testa di ponte militare degli Stati Uniti, è una componente essenziale della politica statunitense, tanto nella questione palestinese quanto negli ultimi sviluppi in Siria. «Uomo malato» dell’Europa all’inizio del 20° secolo, la Turchia e il suo «modello» di sviluppo, diventato un riferimento come alleanza del modernismo economico e del conservatorismo morale e sociale, sono entrati in crisi.

Le crepe nell’economia turca

La formidabile mobilitazione messa in moto contro la soppressione del parco Gezi cristallizza una crisi iscritta nell’evoluzione economica e politica della Turchia da una trentina d’anni.
Siamo lontani dalla Turchia della fine del 19° Secolo, un paese sottosviluppato di meno di 10 milioni di abitanti, una economia fallimentare, posta sotto la tutela delle grandi potenze europee, smembrata e occupata in occasione della Prima Guerra Mondiale. Contro questa dominazione si sviluppa la guerra d’indipendenza (1919-1922) condotta di Mustafà Kemal Pascià, Atatürk , padre fondatore della repubblica e attore decisivo dello sviluppo economico della Turchia. Il nuovo potere si distacca sia dai vicini arabi che dall’Islam che considera un freno alle riforme. Abolisce il califfato, instaura un regime laico e impone l’alfabeto latino contro l’alfabeto arabo.

Fallimento, crisi e colpi di Stato

Fino agli anni 1950, la Repubblica assicura uno sviluppo economico basato su una industrializzazione di sostituzione delle importazioni, con l’instaurazione di alte barriere doganali. Questi sforzi si fondano su un’agricoltura che fino agli anni 1950 occupa il 75% della popolazione e fornisce circa la metà del PIL. Malgrado reali progressi economici e sociali, il Partito Repubblicano, Cumhuriyet Halk Partisi (CHP), è battuto nelle prime elezioni pluraliste del 1950 dal Partito Democratico. Quest’ultimo, che ha conquistato la fiducia della popolazione rurale, si impegna in una politica di privatizzazione delle imprese pubbliche e di sostegno all’agricoltura. Questa politica fallisce, con un’inflazione galoppante, l’esaurimento delle divise estere e ripetute penurie. Le difficoltà economiche e lo sviluppo delle mobilitazioni offrrono le condizioni di colpi di Stato militari ripetuti dal 1960 al 1980, con violenze e una repressione sistematiche contro i sindacati e le organizzazioni di sinistra ed estrema sinistra.
Visite del Papa, sostegno degli USA, costruzione di un ponte sul Bosforo, primi passi in direzione della Unione Europea, intervento militare vittorioso a Cipro, non bastano a compensare le difficoltà economiche. I primi effetti della crisi economica mondiale si combinano con gli errori economici e l’instabilità politica del paese. Nel 2001, il PIL cade di circa il 10%, l’inflazione tocca il 50% e il debito il 75% del PIL.

Dietro la prosperità

In tale contesto il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, AKP (Adalet ve Kalkinma Partisi), fondato nel 2001, arriva al potere nel 2002, con solo il 34% dei voti ma con la maggioranza in Parlamento. Rivolgendosi economicamente e ideologicamente alle popolazioni vittime dell’esodo rurale allarga il suo elettorato (47% nel 2007 50% nel 2011) grazie ai suoi successi economici: industrializzazione rivolta all’esportazione, (più del 75% delle esportazioni totali), basata su una forte svalutazione e una politica di bilancio molto rigorosa, risanamento delle finanze pubbliche, ristrutturazione del settore bancario e garanzia di indipendenza della banca centrale.
Ma la realtà di tale relativa prosperità economica non può fare dimenticare tre elementi essenziali nello sviluppo della crisi attuale. Dal punto di vista economico, i progressi recenti si basano più sull’immobiliare e sui servizi e meno sull’industria a causa di una competitività ancora insufficiente. Dal punto di vista sociale, il settore informale impiega il 40% degli attivi (25% all’infuori dell’agricoltura), mentre le donne rappresentano solo il 29% della popolazione attiva. Perdurano ineguaglianze di sviluppo tra Est e Ovest: la ricchezza per abitante della regione di Marmara (45% del PIL e 31% della popolazione) è tre volte maggiore che nel sud-est dell’Anatolia. Infine, dal punto di vista politico e ideologico,l’autoritarismo del regime di Erdogan, la sua volontà di appoggiarsi sull’islam per giustificare gli orientamenti reazionari, urtano sempre più violentemente strati sociali impregnati di laicità e di libertà, in sintonia con gli indignati degli Stati Uniti o della Spagna.

Robert Pelletier

«Ci indigniamo, insorgiamo, poi vedremo»

di Uraz Aydin (da Istanbul)

«Stupore». Da oltre due settimane la piazza Taksim è occupata dal popolo e decine di migliaia di persone manifestano tutti i giorni malgrado i brutali interventi della polizia nei quattro angoli del paese.
Al di là dell’indignazione e della speranza, lo stupore rimane e il principale sentimento, un sentimento condiviso dai protagonisti del movimento e in particolare dall’estrema sinistra. In effetti, malgrado l’offensiva neoliberista e le politiche di sicurezza, antidemocratiche e conservatrici del governo, la Turchia sembrava essere uno dei pochi paesi della regione a non essere toccato dalla radicalizzazione di massa rappresentata dalle rivoluzioni arabe e dai movimenti de* indignat* della costa mediterranea.
Ma alla fine, il tentativo del governo di costruire una caserma di artiglieria, un centro commerciale e una residenza di lusso distruggendo un parco pubblico nel pieno centro di Istanbul, ha scatenato questa rivolta inaspettata, spontanea e praticamente «magica» che si sta ora svolgendo sotto i nostri occhi.

Tensioni e tentativi di divisione

Lo stupore non è minore per il governo, preso alla sprovvista. Al di là dell’accumulazione di diverse cause di malcontento, la resistenza è provocata principalmente dall’autoritarismo e dall’arroganza del primo ministro Erdogan. Mentre quest’ultimo è in viaggio nel Nordafrica, il vice primo ministro Bülent Arinc e il Presidente della Repubblica Abdullah Gül hanno cercato di mostrarsi più concilianti, scusandosi per la brutalità della polizia e organizzando un incontro con i rappresentanti dell’iniziativa «Solidarietà per Taksim». Di fronte alle rivendicazioni, che comprendono l’annullamento del progetto, la salvaguardia del parco, le dimissioni dei responsabili delle violenze della polizia e il diritto di manifestare sulle pubbliche piazze, il primo ministro sembra abbia fatto marcia indietro a proposito del centro commerciale e della residenza ma riafferma la sua decisione di costruire la caserma a Taksim.
Come strategia per sedare il movimento, il governo gioca la carta della divisione. Da una parte cerca di isolare Taksim, facendo intervenire brutalmente la polizia (accompagnata a volte da poliziotti in borghese armati di bastoni) nelle manifestazioni che si svolgono nelle altre città (e principalmente ad Ankara). Parallelamente, si sottolinea di continuo una distinzione tra «quanti hanno sinceramente inquietudini ambientaliste» e «le canaglie che pensano solo a distruggere e a bruciare». Dall’altra parte, e in modo molto pericoloso, Erdogan ricorda in ogni occasione che anche la sua base è pronta a mobilitarsi se le manifestazioni continuano. E senza nascondere la sua soddisfazione per lo slogan «lasciaci andare, schiacceremo Taksim!», scandito da migliaia di simpatizzanti.

Potenzialità e difficoltà del movimento

Circondati e «protetti» da più di una decina di barricate, Taksim e il parco Gezi sono diventati veri luoghi di raduno politici e sindacali, di attività ludiche e festose, retti da quella che lo storico marxista E.P. Thompson chiamava una «economia morale»: divieto di qualsiasi rapporto commerciale all’interno del parco, ribattezzato «la comune di Gezi», gratuità del cibo, delle bevande e dei servizi sanitari, utilizzo dell’energia solare per cucinare; biblioteca che funziona per doni; principio del volontariato per lo svolgimento di tutti i compiti e un sentimento irriducibile di solidarietà, di responsabilità verso l’altro, ma anche e soprattutto verso la natura.
Tuttavia, la prudenza delle confederazioni sindacali a mobilitarsi (a parte qualche sciopero simbolico), l’assenza di forme di autorganizzazione e di autogestione nella comune e di dibattiti strategici sul futuro del movimento, sono problemi da sottolineare.
Anche l’eterogeneità del movimento solleva molte difficoltà. La sensibilità nazionalista e a volte militarista (simboleggiata dall’abbondanza di bandiere turche e dallo slogan «siamo i soldati di Mustafà Kemal») propria della componente repubblicana-kemalista del movimento produce reticenze a partecipare da parte dei kurdi, malgrado molti appelli delle loro organizzazioni alla mobilitazione. Inoltre ciò dà al governo e ai suoi intellettuali organici l’opportunità di stigmatizzare il movimento come «putschista» e di consolidare la propria base.
Difficile per ora prevedere lo sbocco della situazione, ma questa settimana può essere decisiva, dato che il governo non può permettersi di lasciare prolungare una tale crisi, e che dal canto loro i dimostranti rifiutano di tornare a casa senza che le rivendicazioni siano soddisfatte. Ma in ogni caso, una nuova generazione ha preso il gusto della libertà, sperimentato la lotta collettiva, e assunto la necessità di resistere. Uno slogan scritto sulla piazza Taksim esprime bene l’importanza di questa resistenza per la trasformazione delle coscienze: «Abbiamo resistito e abbiamo abortito il cittadino morto che stava in noi».

Uraz Aydin

Le debolezze della sinistra radicale

di Eyup Ozer (da Istanbul)

In Turchia, la sinistra radicale è divisa, senza un vero polo forte, e ciò spiega la poca visibilità dell’anticapitalismo negli avvenimenti.
L’ODP (Partito della Libertà e della Solidarietà). Alla fine degli anni 1990, un tentativo di un partito ampio e pluralista nel quadro dell’ODP è fallito, con conseguenze nefaste per ciascuna delle componenti. L’ODP rimane una delle principali forze della sinistra radicale, ma non è più un partito ampio e pluralista. Si limita al gruppo Dev Yol (Via della Rivoluzione). La tradizione di questo partito può essere considerata come «centrista», tra riformismo radicale e programma rivoluzionario.
Halkevleri (le case del popolo) proviene dalla stessa tradizione. Importante rete che si basa su centri sociali e organizzazioni locali, può aspirare a diventare il centro di gravità della sinistra radicale. I suoi militanti, attivi nei movimenti sociali, tentano di conquistare un’influenza nei sindacati, ma non cercano di politicizzare tali relazioni e hanno rinunciato a costruire un partito ampio. Questo li porta a sostenere il principale partito socialdemocratico anche se sono molto coinvolti nelle manifestazioni attuali.

Il TKP (Partito Comunista di Turchia) è il meglio organizzato e il più attivo della sinistra. Ė il principale partito stalinista in Turchia, mantiene stretti legami con i partiti comunisti greco e cipriota e relazioni con il partito comunista francese. Ė criticato dalla sinistra, in particolare per la sua « svolta » nazionalista che lo ha indotto a formare un «Fronte patriottico». Ha una forte organizzazione giovanile e un’influenza sulla classe media, ma un funzionamento molto burocratico. Malgrado un numero importante di militanti, la sua influenza è molto limitata: 0,14% dei voti nelle ultime elezioni. Membri della sua organizzazione giovanile sono stati presenti sulle barricate, in particolare nella piazza Taksim, con la parola d’ordine «non obbedire». Il partito ha quindi deciso di partecipare alle manifestazioni, senza utilizzare il logo del partito.
Lo HDK (Congresso democratico del popolo) è la componente più importante della sinistra. Ė una coalizione elettorale formata dal movimento politico kurdo con gruppi minori della sinistra, ma non costituisce un partito nel senso stretto del termine. Data l’importanza della base sociale del movimento kurdo, può essere considerata l’organizzazione più grande della sinistra, ma non costituisce un quadro molto organizzato. La sua preoccupazione principale resta la questione kurda, e in occasione del «processo di pace» tra il PKK e il governo si sono prodotti problemi interni. Il movimento politico kurdo è l’elemento determinante, data la piccola dimensione dei gruppi di sinistra che ne fanno parte. Nei primi giorni degli avvenimenti, il presidente del BDP (Partito politico kurdo) aveva fatto appello a non partecipare alle manifestazioni, perché non bisognava agire assieme ai nazionalisti. Malgrado queste dichiarazioni, i giovani del movimento kurdo sono stati sulle barricate fin dal primo giorno.

Infine, ci sono parecchi piccoli gruppi trotskisti, corrispondenti alle diverse correnti internazionali, che raggruppano meno di un centinaio di militanti ciascuno.

Eyup Ozer

I Kurdi e la rivolta di Taksim

di Mireille Court

«In quanto kurdi, noi combattiamo da anni per la liberazione del Kurdistan e la democratizzazione della Turchia. La nostra lotta in questo senso continuerà. Continueremo a partecipare alla resistenza di Gezi Park come kurdi, con la nostra identità e le nostre bandiere». In questi termini il KCK (Unione delle comunità kurde, fondata dal PKK) sostiene la lotta di Taksim.
Abdullah Öcalan ha salutato la resistenza dalla sua prigione di Imrali, ma ha messo in guardia contro eventuali derive o manipolazioni. Questa riserva è legata alla delicata situazione nella quale il PKK si trova attualmente. Recip Erdogan ha iniziato già da parecchi mesi negoziarti diretti con il dirigente del PKK imprigionato dal 1999, una novità assoluta da 15 anni. L’accordo concluso prevede un cessate il fuoco e il ritiro dei combattenti dalla Turchia, in cambio di una maggiore autonomia della regione kurda. Il ritiro è effettivo e si sta svolgendo in questi giorni.

Negoziati e prudenza

Le ragioni che hanno spinto Erdogan a impegnarsi in questo processo sono senza dubbio molteplici, ma le due più evidenti sono la situazione in Siria, dove la provincia kurda siriaca, che confina con la Turchia e il Kurdistan iracheno, ha di fatto conquistato un’autonomia che non abbandonerà, qualunque sia l’esito del conflitto, e il riavvicinamento con il governo del Kurdistan iracheno, poiché Ankara cerca di concludere accordi sul petrolio della regione.
Per il PKK è dunque difficile attaccare frontalmente Erdogan e l’AKP, che peraltro hanno condotto un’epurazione senza precedenti nell’esercito, mandando in tribunale o in pensione un gran numero di ufficiali superiori e di generali corrotti.
La presenza massiccia del CHP e di altri partiti nazionalisti turchi nei raduni di solidarietà con la rivolta, come quello di Parigi, rende prudenti i militanti kurdi.

Mireille Court

www.sinistracritica.org

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